28 luglio 2013

SCILLA E’….LA SIRENETTA DOVE LA METTO?

Scilla_sirenaC’è una canzuna che mi firrìa per il ciriveddho da venerdi matina. E’ quella de “Il vecchietto, dove lo metto?”, famosissima canzone di Domenico Modugno.

Solo che al posto del vecchietto, a mia mi veni mi cantu “la sirenetta dove la metto?” Non si sa!

Mi riferisco al monumento installato giovedi sera a centru chiazza San Rocco, proprio sopra la stella dei venti –o meglio, quello che ne rimane dopo l’ahinoi! famoso “buco” dell’ascensore.

Preciso subito che il monumento, realizzato dallo scultore reggino Francesco Triglia,  è davvero bello e imponente: raffigura il mito di Scilla, a metà tra il mostro omerico e la sirena.

L’opera è stata donata agli scillesi dalla famiglia di Giovanni Capua, noto imprenditore reggino, prematuramente scomparso e molto legato a questi nostri luoghi.

Proprio per l’importanza e la bellezza del monumento, si sta registrando un dibattito diffuso, tra cittadini e turisti, circa la location “chiazzarola” scelta per valorizzare l’opera che, è bene dirlo, è ancora mancante del piedistallo sul quale dovrebbe essere installata definitivamente.

La piazza, si sa, è il centro nevralgico di Scilla, il salotto scigghitano, tutto passa da lì. Ovviamente, in queste ore numerosi sono stati i turisti, gli emigrati scillesi, i cittadini stessi e anche qualche coppia di sposi frischi frischi nisciuti dalla cresia, a farsi immortalare con sullo sfondo la nuova opera mitologica.

Dunque, a livello di accessibilità e visitabilità, nessun posto può essere meglio della piazza. Aspetto non secondario, ma che va detto per verità sincera, la “postazione” del monumento consente in qualche modo di “’mmucciari i virgogni”, ovverosia di celare ai nostri occhi, seppur in misura parziale, l’obbrobrio derivante dai lavori per l’ascensore, ancora in corso ma rigorosamente fermi per vicende burocratiche che hanno subito un blocco difficile da smuovere.

Dall’altra parte, vi è il fatto che, specie in questo periodo, la piazza viene utilizzata quasi ogni sera per degli spettacoli, con la necessità quindi di montare il palco. Solo che, a palco montato, il monumento rimane là dietro, sullo sfondo e….quasi non si viri anche perché può contare solamente sulla normale illuminazione della piazza, non avendo ancora –vista la provvisorietà del posto in cui si trova- un’illuminazione propria, in grado di valorizzarla maggiormente per come merita.

“Aundi ‘a mintimu?”

C’è chi dice che non dovrebbe essere rivolta a guardare verso il comune, bensì verso lo Stretto di Messina per ovvi motivi “mostruosi”. La cosa non mi cunvinci. Per vederla o fotografarla, uno si dovrebbe buttare quasi dentro il buco dell’ascensore.

C’è chi propone di piazzarla sulla via Panoramica, in una delle “pance” attualmente esistenti. Non mi cunvinci mancu, farebbe la fine della statua del piscispada, rimasto lì in fondo, in castigo (e ‘ncappucciatu di ‘mbernu), come un bambino cattivo messo dietro la lavagna dalla maestra. A tal proposito, ci dovrebbero essere novità: pare si stia prendendo in considerazione l’idea di “rifare” la vecchia funtana piscispadesca. Speriamo!

C’è chi la vorrebbe mettere alla rotonda giù a Marina Grande ma, sinceramente, starebbe ancora cchiù a menz’ e peri di quanto non sia già in piazza.

E allora?

Mi permetto di unirmi al coro e faccio una proposta: perché non la installiamo al porto, allo Scoglio d’Ulisse, recuperato da poco, dopo una marea di polemiche e rimasto quasi completamente ignorato dalla cittadinanza?

Lo Scoglio d’Ulisse, la sirena, il mito di Scilla, messi lì dove la storia della mitologia ci ha insegnato che sono sempre stati: sotto la rocca del castello, sotto lo Sciglio!

Inoltre, sono convinto che non deve essere l’opera d’arte a “cercare” il visitatore, rendendosi fruibile nel posto più facile ed immediato. Deve essere l’esatto contrario: il visitatore è disposto anche a fare qualche “sacrificio” in più, un po’ di strada in più, pur di arrivare a vedere l’opera in uno scenario adatto e a gustarsela nel suo ambiente naturale. E’ così dappertutto, perché non dovrebbe esserlo anche a Scilla?

Chiudo con due piccole annotazioni:

1) l’attuale location in piazza rappresenta un problema anche per le oramai prossime festività patronali. Sappiamo tutti che il “Trionfino” di San Rocco parte proprio da lì e sappiamo altrettanto bene di quanto spazio ci sia bisogno perché tutto si svolga senza rischi. Sono sicuro che la cosa sia già stata valutata adeguatamente e che, pertanto, si provvederà a spostare il monumento in maniera tale che non costituisca intralcio.

2) Sono passati solo due giorni da quando hanno installato il monumento e già s’è perso il conto dei bambini che si divertono a saltare in groppa alla sirena o ad appendersi alla coda, volteggiando allegramente sospesi, alla Yuri Chechi, sotto gli occhi divertiti, orgogliosi e fieri dei loro genitori. Ecco, mi permetto di ricordare che in tutto il mondo le opere d’arte vengono guardate, ammirate, fotografate e non cavalcate o utilizzate come barra per gli esercizi ginnici. E’ questione di civiltà, che al tempo di Ulisse i nostri predecessori hanno insegnato al mondo, ma che noi, con questi comportamenti, dimostriamo di aver dimenticato.

11 luglio 2013

AUNDI SI’?

(Trasposizione scigghitana di “Diaraby” – da “Talking Timbuktu”, di Ali Farka Touré con Ry Cooder)

E’ il mio omaggio a questo bellissimo pezzo che chiude un album storico (è del 1994) scritto da Ali Farka Touré, grandissimo chitarrista del Mali (morto nel 2006) con la collaborazione di Ry Cooder, musicista che vanta diverse collaborazioni con gruppi e musicisti di livello internazionale.

Il testo originale (che trovate sotto) è in lingua “Bambara”, uno degli idiomi più diffusi nell’Africa occidentale.

Oh beddha, aundi si’?
Chi beddha chi si’ all’occhi mei.
Oh beddha, aundi si’?
Chi beddha chi si’ all’occhi mei.
N'o sacciu, no, comu fu ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è.
Non ci 'u rissi, no, comu fu ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è.
E si vitti o no comu fu, ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è.
Pi chiddhu chi di',
Pi chiddha chi si',
ma tu non chiami,
aundi si' non so.
Pi chiddhu chi di',
Pi chiddha chi si',
ma tu non chiami,
aundi si' non so.

Oh beddha, aundi si’?
Chi beddha chi si’ all’occhi mei.
Beddha, sai, succeri,
chi beddha chi si’ all’occhi mei.
(Iamu, ch’è cusì).

…………….

E si vitti o no comu fu, ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è.
Non ci 'u rissi, no, comu fu ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è.
N'o sacciu, no, comu fu ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è.
Si vitti o no comu fu, ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è
Pi chiddhu chi di'
Pi chiddha chi si'
Ma tu non chiami
aundi si' non so
Pi chiddhu chi di'
Pi chiddha chi si'
Ma tu non chiami
aundi si' non so.

Oh beddha, aundi si’?
Chi beddha chi si’ all’occhi mei
Oh beddha, aundi si’?
Chi beddha chi si’ all’occhi mei

…………….

Oh beddha, aundi si’?
Chi beddha chi si’ all’occhi mei
Beddha, sai, succeri,
Chi beddha chi si’ all’occhi mei

Si vitti o no comu fu, ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è
Non ci 'u rissi, no, comu fu ma
nci vogghiu beni e ndo me' cori è
Pi chiddhu chi di'
Pi chiddha chi si'
Ma tu non chiami
aundi si' non so
Pi chiddhu chi di'
Pi chiddha chi si'
Ma tu non chiami
aundi si' non so

Oh beddha, aundi si’?
Chi beddha chi si’ all’occhi mei
Beddha, sai, succeri,
Chi beddha chi si’ all’occhi mei

 

Testo originale tratto da “The Timbuktu Project

Mun kerila Diaraby?
Kerila ne dou be e de fe.
Mun kerila Diaraby?
Kerila ne dou be e de fe.
I ba de ko Kana Furu ma
Wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe.
I teri de ko kana furu ma
Wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I Fa de ko kana furu ma
wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I kana dimi,
I kana Kassi,
I kana hami
diaraby kosso.
I kana dimi,
I kana Kassi,
I kana hami
diaraby kosso
Mun kerila Diaraby?
Mun kerila ne dou be e de fe.
Kerila ma cheri
Mun kerila ne dou be e de fe.
(Hami ko bali)
...... .......
I Fa de ko kana furu ma
wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I teri de ko kana furu ma
Wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I ba de ko kana furu ma
Wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I Fa de ko kana furu ma
Wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I kana dimi,
I kana Kassi,
I kana hami
diaraby kosso.
I kana dimi,
I kana Kassi,
I kana hami
diaraby kosso
Mun kerila Diaraby?
Mun Kerila ne dou be e de fe.
Mun kerila Diaraby?
Mun kerila ne dou be e de fe.
..... ....
Mun kerila Diaraby?
Mun Kerila ne dou be e de fe.
Mun Kerila ma cheri
Mun Kerila ne dou be e de fe.

I Fa de ko kana furu ma
wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I teri de ko kana furu ma
Wo fen te ne fe, Ko fin te ne fe .
I kana dimi,
I kana Kassi,
I kana hami
diaraby kosso.
I kana dimi,
I kana Kassi,
I kana hami
diaraby kosso
.... .....
Mun kerila Diaraby?
Mun Kerila ne dou be e de fe.
Mun Kerila ma cheri
Mun Kerila ne dou be e de fe.

Traduzione del testo originale tratta da “The Timbuktu Project

What happened to you my love?
Still, you’re the one I love
What happened to you my love?
Still, you’re the one I love
Your  mother tells you, not to marry me
because I have nothing (I am poor)
Your  friends tell you, not to marry me
because I have nothing (I am poor)
Your  father tells you, not to marry me
because I have nothing (I am poor)
Don't be mad,
Don't cry,
don't be sad
because of love.
Don't be mad,
Don't cry,
don't be sad
because of love.
What happened to you my love?
Still, you’re the one I love
My love, my dear
Still, you’re the one I love
(This is not a situation to worry over.)

01 luglio 2013

CERTE COSE NON SI DICONO

Mi è capitato più volte, ma mai con la frequenza riscontrata nella settimana appena trascorsa.
Sentire o leggere le storie di giovani scillesi o reggini che con la sola forza delle loro capacità e della loro testardaggine calabra, senza "aiutini" o "spinte", sono riusciti a studiare, a crearsi una professione, un lavoro.
E' bello sentire i loro genitori raccontarti degli sforzi, del sudore ma anche delle soddisfazioni e delle gratificazioni ricevute dai loro figli, che si sono visti premiare, prima con un buon voto, poi con un buon lavoro o con un'attività che consente loro di sentirsi pienamente realizzati.
E le gratificazioni e le soddisfazioni dei figli, sono anche dei loro genitori.
Lo percepisci dal tono della loro voce -che nonostante facciano di tutto per nasconderli, tradisce emozione e orgoglio- o dalle parole scelte per esprimere questo sentimento attraverso la scrittura.
I calabresi e l'esternazione dei sentimenti, sono due cose che storicamente non sono mai andate tanto d'accordo.

Mi tornano in mente alcuni passi de "La collina del vento", di Carmine
Abate, calabrese di Carfizzi, in provincia di Crotone.
In poche righe, tratteggia in maniera straordinariamente potente, il modo in cui noi calabresi ci rapportiamo con i sentimenti.

<<Per scaramanzia non disse mai "Come sono felice", perché sapeva che dirlo porta male, ma lo era, felice, e la moglie se ne accorgeva, di notte e di giorno, lo amava più di prima, anche se non ebbe mai il coraggio di dichiarare il suo sentimento a parole>>.

E ancora: <<Era la seconda volta nell'arco di due giornate che il padre si fidava di lui. Michelangelo lo avrebbe abbracciato, se ne avesse avuto il coraggio. Si alzò, raccolse le ciliegie più grosse e mature e gliele offrì in segno di gratitudine e di affetto.>>

Il calabrese preferisce tacere, o comunque parlare poco, e dimostrare amore o affetto con lo sguardo o con gesti magari semplici -come quello di offrire un pugno di ciliegie- ma concreti.
Sarà per un retaggio culturale antico, fatto di superstizione che ai più "moderni" potrà apparire stupida, ma che tale in verità non è.
Quella che all'esterno passa per scaramanzia o, peggio, per mancanza di coraggio, è in realtà il desiderio di custodire nella parte più profonda della propria intimità i sentimenti più belli, più preziosi.

C'è però anche una componente "motivazionale" che giustifica la "non esternazione" davanti a circostanze positive (in caso di fatti negativi, le esternazioni invece ci sono, eccome se ci sono!). E' il loro desiderio di spingerti a fare meglio e a dare sempre il meglio di te stesso.
Il più delle volte, davanti a un avvenimento positivo o a un buon risultato parziale raggiunto dai propri figli, i genitori calabresi si limitano a un: <<Mmhh!...bravo...>> -che tradotto vuol dire: era quello che dovevi fare, era il tuo dovere. E subito dopo, a scanso di equivoci, aggiungono: <<Però non hai...>>, sottolineando prima d'ogni cosa le piccole imperfezioni o l'unico aspetto dove, in effetti, potevi far meglio.

I genitori calabresi non sono certo quelli di cui cantava tempo fa Pino Daniele in "O' scarrafone", non sono tra quelli che "ogni scarrafone è bello a mamma soi". No, lo scarrafone calabrese (u scaravagghiu) non viene visto bello dai propri genitori, viene spinto da loro a diventare bello, sempre più bello, da solo, per le sue capacità.


I genitori calabresi, pur se contenti per i propri figli, gioiscono col cuore e nel cuore più che con la bocca, perché -
come disse una volta mio padre: "Certe cose non si dicono!"

Per questo, la volta in cui ti fanno un complimento, sei tu che quasi provi vergogna per aver fatto qualcosa "diversa dal solito", anche se in cuor tuo hai l'impressione di toccare il cielo con un dito. Ma certe cose non si dicono!