27 gennaio 2014

IL GIORNO DELLA MEMORIA CORTA

E’ il giorno della memoria.

E’ un giorno particolare, nel quale facciamo memoria delle atrocità commesse da uomini verso altri uomini. Un giorno nel quale si corre il rischio che ogni parola sembri detta a sproposito o venga male interpretata, specie da chi –come noi- ha avuto la fortuna di non aver vissuto quelle esperienze. Ma è necessario parlarne, sempre e comunque, perché a così tanti anni di distanza, ciò che dovrebbe essere ovvio ancora non lo è, visto e considerato che puntualmente si verificano episodi vergognosi il cui unico obiettivo è quello di ricordarci che la natura dell’uomo non è cambiata.

Le atrocità subite dagli ebrei durante il secondo conflitto mondiale saranno sempre incancellabili, devono –o forse sarebbe meglio scrivere dovrebbero- costituire un monito, una testimonianza perpetua del grado di bestialità a cui un uomo possa giungere. Per questo è giusto ricordare.

Ma è altrettanto doveroso ricordare che le sopraffazioni e le efferatezze –seppur con sistemi molto diversi, ma non per questo meno tollerabili- non si sono verificate solo 75 anni fa, ma di esse vi è ampia traccia sia nel passato remoto che in quello più recente rispetto alla seconda guerra mondiale.

Basta far riferimento alla tragedia dei nativi americani, consumatasi sul suolo del nuovo mondo a partire dal 1600 e fino alla fine dell’800. Intere tribù, intere civiltà diverse dalla nostra –ma non per questo meritevoli di estinguersi- sono state ridotte al silenzio o letteralmente cancellate dall’uomo bianco. A rileggere quello che dissero gli ultimi capi tribù dei nativi americani negli ultimi anni del 1800, è sorprendente notare come la loro situazione, le loro sofferenze non siano poi state tanto diverse da quelle subite dal popolo ebraico nell’ultimo conflitto mondiale.

<<Dio fece l’uomo bianco e Dio fece l’Apache, e l’Apache ha lo stesso diritto dell’uomo bianco di stare in questo paese….Appena il trattato è stipulato voglio un pezzo di carta che mi permetta di viaggiare nel paese come un uomo bianco.>>

Queste parole, pronunciate da Del Shay –capo degli Apache Tonto- nel 1871, le hanno pronunciate anche gli ebrei in Italia a partire dal 1938 e fino al 1945. Come i nativi americani, anche gli ebrei dopo la guerra hanno reclamato la loro terra, hanno reclamato il diritto di avere uno stato, lo Stato d’Israele.

Sempre nel 1871, ai funzionari governativi mandati dal Grande Padre Bianco (il Presidente degli Stati Uniti) che gli ordinavano di lasciare la valle che era sempre appartenuta alla tribù dei Nez Percés, il loro capo Giovane Giuseppe così rispose:

<<Nessun capo ha l’autorità di vendere questa terra. E’ sempre appartenuta alla mia gente. Ci è stata data senza nuvole dai nostri padri, e noi la difenderemo fino a quando una goccia di sangue indiano scalderà i cuori dei nostri uomini.>>

Difendere la propria terra è un diritto giusto e sacrosanto, nessuno lo discute, ma non con la guerra. Ciò vale per tutti, a maggior ragione se, come nel caso delle tribù d’Israele, quella terra è stata promessa direttamente da Dio. Ma Dio non va tirato in ballo solo quando fa comodo.

Gli ebrei fanno memoria perenne –giustamente- di ciò che hanno subito durante la seconda guerra mondiale e di ciò che subiscono ancora oggi, ma hanno memoria corta delle sofferenze che hanno inferto e continuano a infliggere agli altri abitanti di quella stessa terra.

Scrive Papa Benedetto XVI in “Gesù di Nazareth”:

<<La legislazione contenuta nella Torah ebraica, in particolare nel Codice dell?Alleanza in Esodo, fissa come norma di “diritto apodittico”, cioè come principio pronunciato nel nome stesso di Dio, il seguente:

“Non molesterai il forestiero, né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano”.>>

Ora, se la Palestina –come affermano gli israeliani- fa parte dello Stato di Israele, allora per loro i palestinesi non sono altro che forestieri. Quante volte nel corso degli ultimi 65 anni, gli israeliani hanno violato questo principio dettato loro da Dio –lo stesso Dio che ha promesso loro la terra che reclamano- opprimendo e molestando gli arabi palestinesi, le loro vedove e i loro orfani?

Se gli israeliani hanno dimenticato –o fatto finta di dimenticare- questo principio per loro sacro, da parte loro anche i palestinesi non sono stati da meno. E le conseguenze sono state disastrose.

Disse Galla, capo di guerra dei Sioux Hunkpapa nel 1876, rivolto a una delle tante Commissioni inviate dal governo di Washington per convincerlo ad abbandonare la terra dei Sioux per trasferirsi in una riserva lontana centinaia di chilometri:

<< Noi siamo nati nudi e ci è stato insegnato a cacciare e a vivere di selvaggina. Voi ci dite che dobbiamo imparare a fare i contadini, a vivere in una casa e ad adottare i vostri costumi. Immaginate che il popolo che vive oltre il grande mare venisse qui e vi dicesse che dovete smettere di fare gli agricoltori e che dovete uccidere il vostro bestiame, e che esso prendesse le vostre case e le vostre terre, voi cosa fareste? Non lo combattereste?>>

Ecco, questo stesso discorso, come quello di Del Shay citato sopra in precedenza, potrebbe farlo oggi un palestinese che vive a Gaza, chiuso in una riserva “moderna”. Certo, questo discorso pronunciato quasi 140 anni fa non giustifica assolutamente gli attentati, le bombe e le stragi commesse dai palestinesi ai danni degli israeliani, bensì ci fa comprendere ancora una volta come la natura dell’uomo non sia cambiata da allora.

Come recita il verso di un’antica canzone siciliana, “Un servu e un cristu”, cantata anche dai Mattanza: “Sempri in guerra sarà l’umana razza, se cu l’offisi l’offisi castìa

E’ qui che sta il problema, apparentemente irrisolvibile.

Apparentemente, sì, perché una soluzione che non sia la guerra c’è. Perché prima degli coloni ebrei e dei palestinesi di Gaza, ci sono stati arabi ed ebrei che hanno convissuto pacificamente tra loro, come vicini di casa, fino al 1948.

Sand_creek_1985Perché oltre al massacro di Sabra e Chatila, in Libano, compiuto dagli israeliani nel 1982 agli ordini del generale Ariel Sharon, “promosso” capo di Stato (scomparso di recente), che tanto ricorda il massacro del fiume Sand Creek compiuto dalle giacche blu agli ordini del colonnello Chivington nel 1864 ai danni dei Cheyenne, ci sono i colloqui di pace tra Arafat e Rabin (ucciso in un attentato da un estremista), per la morte del quale hanno pianto tutti: israeliani e palestinesi.

Perché oltre ai giovani chiamati dall’esercito israeliano a sedici anni e ai giovani estremisti Una bottiglia nel mare di Gazapalestinesi che si fanno saltare in aria, ci sono anche i giovani, israeliani e palestinesi (e sono tanti) come quelli descritti da Valérie Zenatti nel libro “Una bottiglia nel mare di Gaza” (diventato anche un film), che pur avendo tra loro problemi diversi, hanno in fondo la stessa necessita: vivere in pace.

Una soluzione c’è. Ma perché ci sia veramente, occorre prima di tutto comprendere quanto sia inutile e stupido –oltre che dannoso- credere di risolvere il problema continuando a fare la guerra. Ce lo ricordano le parole di Gandhi:

<< Come nessun essere umano è tanto cattivo da non poter essere convertito, nessun essere umano è così perfetto da potersi permettere di distruggere chi, a torto, crede totalmente cattivo.>>

Dunque, la conversione non religiosa, ma la conversione del modo di pensare agli altri, seppur ardua non è impossibile. Per chi è credente poi, non solo è possibile ma è un obbligo morale (dettato già dai filosofi greci), e presente nel Vangelo (nella forma positiva): non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. E’ una regola aurea che vale per tutti: cristiani, ebrei, musulmani.

E’ difficile, ma ancora possibile, perché come disse Gandhi: <<Il fatto che vi siano ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi ma sulla forza della verità o dell’amore.>>

Allora, che questa non sia la giornata in cui si ricorda solo ciò che fa più comodo, che non sia il giorno della memoria corta, utilizzato solo per alimentare le divisioni e stupide speculazioni di parte.

Che in questa giornata si faccia memoria di ciò che troppo spesso dimentichiamo, cioè che vi è un’unica verità: nel mondo non ci sono bianchi o nativi americani, non ci sono ebrei o musulmani, israeliani o palestinesi. Nel mondo ci sono solo esseri umani.

16 gennaio 2014

UN GIORNO CE LA FAREMO

Ieri sera sono andato a dormire triste, dopo aver letto Di Calabria si muore.

Intendiamoci, tutto quello che ha scritto Antonio Calabrò è vero. E' vero anche però -e di questo sono profondamente convinto- che Leopardi sta al pessimismo cosmico come noi calabresi stiamo al pessimismo galattico.

E' una questione di razza.

Forse è per questo che per dei motivi a me ignoti e che rendono il cervello un organo misterioso, al posto del “basta che c’è ‘sto sole e basta che c’è ‘sto mare” che fa da colonna sonora al pezzo di Calabrò, nella mia testa ho cominciato a canticchiare “We shall overcome” un vecchio gospel che è diventato la colonna sonora del movimento per i diritti civili del Movimento Afro-Americano.

 

Il significato letterale del titolo è più complesso del semplice “Venceremos” che ricorda le lotte dell'America Latina.

“We shall overcome” significa anche: supereremo, sconfiggeremo, sopraffaremo, prevarremo.

Il tutto è riferito alla condizione di schiavitù dei neri, oppressi anche da leggi ingiuste, emanate solo per giustificare il potere di pochi. E a proposito di leggi ingiuste, in Italia e in Calabria in questi anni ne abbiamo avuto ampia prova.

Dice la canzone: “Sotto gli occhi del Signore, andiamo verso la vittoria, cammineremo mano nella mano, non abbiamo paura. La verità ci renderà liberi, vivremo in pace. Un giorno prevarremo, un giorno ce la faremo”.

Ecco, credo che “We shall overcome” possa essere applicata ancora oggi, specialmente alla realtà calabrese. Una realtà dove regna la schiavitù subita dal potente di turno, una schiavitù non meno terribile di quella subita dai neri americani. Anzi, se vogliamo, ancora più subdola, perché mascherata da democrazia.

Diciamo la verità: essere servi un po' ci piace. Ci piace dover andare, cu crapettu o cu piscispada friscu, a trovare qualcuno da “disturbare”, e non perché siamo grandi allevatori di mandrie ovine o pescatori a livello industriale, ma per veder riconosciuto un nostro diritto, quello che noi calabresi chiamiamo “un problema”. Ecco, in Calabria, è il diritto a essere un problema.

E più titoli ha il tizio (Dottore, Commendatore, Eccellenza, ecc.), meglio è, che poi ci rimani male quando magari scopri che l'”uomo dei miracoli” a cui tu (che magari hai due lauree) ti sei rivolto, ha solo uno straccio di diploma, probabilmente preso -con decenza scrivendo- con un “36 e 'na puntata nto culu”.

E' più facile, meno impegnativo, meno faticoso. E la fatica, se puoi, cerchi di scansartela, mica si' fissa!

E così, per non passare per fessi, non facciamo altro che “'ttaccari 'u sceccu aundi voli 'u patruni”, giustificando prima il potente e poi il prepotente (nel caso in cui i due non coincidano).

Così si fa meno fatica, anziché cercare di far valere i propri diritti in un altro modo: con la protesta civile. Ma non conviene.

In Calabria, se protesti civilmente, se fai notare a tutti che una legge è ingiusta, sbagliata, tutti ti danno ragione, tutti ti dicono “Bravo!”, ma poi nessuno ti aiuta: ti volti a guardare e ti ritrovi da solo, col serio rischio di passare anche per pazzo.

Nonostante tutto però, mi piace, voglio credere, che non siamo vinti -come chiude amaramente Calabrò. Non abbiamo solo due alternative: o servi, o niente. Non sono alternative: chi è servo, cu' 'mbascia 'u imbu, non è niente.

Di Calabria non si muore! Sono questi servi, questo niente che fa morire la Calabria. Ma la Calabria non è fatta di niente.

Voglio credere che non siamo vinti, perché non è vero che siamo “niente”. Se faremo di “We shall overcome” la colonna sonora della nostra vita in Calabria, se riusciremo a capire che protestare civilmente conviene di più che non ‘mbasciari ‘u imbu, allora un giorno anche noi che la pensiamo diversamente dai servi, che non siamo servi, vinceremo: un giorno il diritto non sarà più un “problema”; un giorno sconfiggeremo questa nostra autoimposta schiavitù e saremo finalmente liberi di dimostrare quel che valiamo veramente, senza paura.

Ce la faremo, un giorno. E quel giorno, il sole e il mare della nostra Calabria saranno ancora più belli.

06 gennaio 2014

DELL’AUTOSTRADA A3 E DELLE SUE MARAVIGGHIE: NON PASSIAMO TUTTI PER CIUCCI!

I festi finiru, vi putiti stuiari ‘u mussu.

Torniamo alla vita di tutti i giorni, alle battaglie quotidiane. In questi giorni si sono susseguiti bilanci dell’anno appena trascorso, previsioni, lamentele. In somma, c’è stato un riassunto generale di tutte le attività umane.

Tra queste, in ambito locale, ha tenuto banco la situazione dell’infinta “nuova” autostrada “Salerno-Reggio Calabria”. Proviamo a fare un breve riassunto.

Il corridoio…senza porte

L’ammodernamento fa parte delle grandi opere berlusconiane. L’hanno chiamato “Corridoio Berlino-Palermo”, con buona pace di noialtri calabresi.

Che sia un corridoio però viene qualche dubbio, almeno in quest’ultimo tratto compreso tra il V e il VI macrolotto, da Gioia Tauro a Reggio Calabria. Diciamo che è un corridoio piuttosto anomalo. Per semplificare: un corridoio, in ogni abitazione o fabbricato, ha la funzione di mettere in comunicazione tra loro le varie stanze, attraverso un adeguato numero di porte. Le “porte” del corridoio autostradale sono gli svincoli. Ebbene, nel tratto di corridoio che ci interessa (non abbiamo idea di quello che hanno combinato da altre parti, ma se la regia è la stessa….), il corridoio nuovo ha molte meno porte rispetto a quello vecchio. Il risultato è che per passare da una stanza all’altra, i tempi sono praticamente raddoppiati. Fuor di metafora: decine di paesi sono rimasti tagliati fuori dalla nuova “via del progresso”. I sindaci si sono ribellati, abbiamo sopportato file e file di automezzi in una giusta protesta che abbiamo condiviso, sono nati comitati di cittadini che hanno manifestato ed urlato ma…ambatula nci frischi Ciucci non voli mbiviri.

La fine dei lavori: i bookmaker inglesi ci hanno rinunciato

L’opira dei pupi è andata avanti, tra mille difficoltà: tecniche, dovute alla particolare situazione orografica del territorio (ci sono, non lo si può nascondere); economiche, con lavori sospesi e ripresi non so più quante volte per via della mancanza di fondi o di contratti scaduti. “Ambientali”, a causa della presenza mafiosa.

Risultato finale: le scadenze fissate nella fine dello scorso anno, e le relative promesse ministeriali e dell’Anas sono andate a farsi strabenedire e da noi i lavori dureranno ancora per un bel po’. E’ inutile cercare di fare previsioni, ci hanno rinunciato pure i bookmakers di Londra.

Le “maravigghie autostradali” tra Scilla e Villa San Giovanni

E così, dalle nostre parti specialmente, si continua a lavorare. Si scava, si asfalta, si collega, si scollega, s’alliscia e si ripezza.

Per chi l’ha percorso, l’ultimo tratto tra Villa e Scilla presenta “particolarità tecniche” degne di nota. Eccone un breve elenco: i collegamenti tra le campate dei ponti sembrano scalinate; molti tratti hanno la sagoma deformata e quando ci passi sopra la macchina si mette a ballare il twist, manco fosse Elvis Presley; appena piove un po’ di più, alcuni tratti si trasformano in vasche di raccolta, gebbie, e non si può far altro che chiuderli al traffico. E ancora: molti tratti rettilinei a diversa pendenza, sono raccordati tra loro da geniali “rampette” di collegamento, che a velocità sostenuta si trasformano in piccole rampe di lancio stile Cape Canaveral; gallerie belle, larghe illuminate a dovere ma con un piccolo particolare: il loro profilo longitudinale è a V. Ci riferiamo alla nuova galleria scavata a Piale. Probabilmente, il fantastico profilo a V è dovuto alla presenza non correttamente valutata delle case costruite sopra la collina, case che sono state in qualche caso danneggiate tanto che hanno dovuto essere abbandonate durante l’esecuzione dei lavori per via delle vibrazioni prodotte dalle trivelle.

Insomma, un campionario di maravigghie da togliere il fiato e pure la salute.

L’evidenza negata e le magie ambientaliste

E’ notorio che il tratto della Costa Viola oltre a essere quello più difficile, è anche quello più bello (siamo di parte, ma è veru!).

Qui, proprio nella terra della maga Circe, l’Anas -evidentemente pigliata dalla voglia di misurarsi col mito- è riuscita in un doppio miracolo:

  1. il corridoio, oltre a non avere porte, non ha neanche luce. Da Gioia tauro a Villa, i chilometri da percorrere sono quasi interamente in galleria. Risultato: con la scusa di salvaguardare l’ambiente, ci è stata negata l’evidenza, ovvero l’evidente bellezza paesaggistica delle nostre zone. Preserviamo l’ambiente evitando di consumarlo solo guardandolo. Il motivo? Dobbiamo arrivare a Palermo, non abbiamo tempo da poter dedicare alla visione di uno degli spettacoli naturali più belli che il buon Dio (o chi per lui) ci ha messo a disposizione.

  2. Il nobile intento paesaggistico va però a farsi strabenedire -anche lui- quando hanno dovuto smaltire il materiale proveniente dalle demolizioni del vecchio percorso. Finché hanno potuto, il materiale di risulta l’hanno ficcato dentro le vecchie gallerie, che sono state poi sigillate. Una specie di moderne piramidi scavate nella montagna, ma non visitabili, all’interno delle quali non ci sono i resti dei faraoni ma i resti della “vecchia” tecnologia autostradale italiana. Amen.

    Della restante parte del materiale che ne hanno fatto? Semplice: in modo discutibilmente legale (leggasi: deroga alla normativa sullo smaltimento dei rifiuti), tutto il cemento armato non più utilizzabile è stato catapultato dai numerosi valloni della Costa Viola, alla stessa stregua dio un frigorifero o di una lavatrice. Risultato: il mare non è più viola, ma a ogni pioggia, diventa sempre più marrone. Una magia! Roba che la maga Circe al confronto è una povera dilettante.

Il vecchio tracciato: la “Mare-Monti” è ancora….ndo furnu

E a proposito di vecchio tracciato, il riutilizzo di quello compreso nel tratto della Costa Viola è l’argomento che fa più discutere (e ti pariva!).

All’inizio si era parlato di un parco solare lungo i 32 km, la Regione aveva speso dei soldini per uno studio di fattibilità che doveva confermare la scelta fatta all’epoca dall’assessore di turno. Così fu.

Nel 2010 la Regione cambiò guida e anche il parco solare andò a farsi strabenedire.

Fino allo scorso anno. Scende in campo la Provincia di Reggio Calabria e con un’idea azzeccata -evidentemente nata durante un pranzo al ristorante- tira fuori la strada “Mare-Monti”. L’idea è semplice: utilizzare il vecchio tratto dell’autostrada esistente, compreso tra lo svincolo di Scilla e Palmi, e le strade di servizio realizzate dall’Anas. Con pochi soldini si sarebbero potuti realizzare collegamenti tra tutti i paesi dell’area e le zone montane più interne, fino all’Aspromonte.

Dopo il lancio dell’idea però la cosa sembra languire da tempo nei cassetti degli uffici interessati. Il rincorrersi delle voci di taglio delle province e la conseguente futura costituzione della “Città Metropolitana” dello Stretto, di certo non giovano alla necessaria programmazione dell’intervento. Risultato: la “Mare-Monti”, seppur ordinata, non è mai arrivata al tavolo (tecnico), è ancora ndo furnu. Speriamu non mi si bruscia!

L’autostrada vecchia e Scilla: un’occasione da non buttare….ndo vaddhuni

E il tratto scigghitano? Ne vogliamo parlare? Parliamone. E’ evidente che Scilla trarrebbe grande giovamento dalla realizzazione della “Mare-Monti”, sotto molteplici aspetti: alternative nel collegamento viario; maggiore usufruibilità del territorio (i pianori delle contrade Fronte, Santo Stefano, costituendo naturali zone di espansione, potrebbero realmente essere valorizzati ed entrare fattivamente a far parte dell’economia scillese).

Nel discorso “Mare-Monti” può tranquillamente inserirsi anche il pianoro Utra.

Il collegamento non è previsto nel progetto -ma sono solo 500 metri dallo svincolo!- ma rientra in un discorso più vecchio, risalente al 2006, che prevedeva il mantenimento del tratto del vecchio tracciato fino a Santa Trada. Stando all’ultima conferenza stampa di fine anno, potrebbe essere una cosa fattibilissima, con la conseguente valorizzazione anche dell’ostello della gioventù, in prossima fase di ristrutturazione (ci auguriamo definitiva, prima del suo tanto auspicato utilizzo).

Se poi si considera che anche da Santa Trada è possibile arrivare facilmente fino a Melia o ai Piani di Bova attraverso la viabilità già esistente (da riprendere opportunamente nei tratti danneggiati), ci si accorge che in realtà il progetto può includere l’intero territorio comunale. Ragion per cui ci si augura che si faccia di tutto per poterlo realizzare.

Insomma, mantenere la vecchia carreggiata è un’occasione unica, da non buttare….ndo vaddhuni.

Il nuovo svincolo e il parcheggio morto

Altra questione è quella del nuovo svincolo scigghitano. Nello scorso mese di Novembre è stato aperto il nuovo accesso in direzione sud, mediante la demolizione del tratto del vecchio svincolo immediatamente adiacente al muro del cimitero. Negli anni passati si era parlato di utilizzare il nuovo spazio per un allargamento dell’attuale cimitero. La cosa sarebbe auspicabile, visto e considerato che oramai non capi cchiù mancu un ciciru.

Le ultime notizie danno invece per certa la realizzazione di un parcheggio. Ora, che a Scilla si abbia bisogno di parcheggi è vero, ma fare un parcheggio proprio lì, a ridosso del cimitero, significa sfruttarlo a pieno forse solo per due giorni l’anno: la domenica della festa patronale e il 2 Novembre. Sarebbe un parcheggio per i morti, che resterebbe morto il resto dell’anno.

Forse sarebbe utile fare due conti, una piccola analisi costi-benefici. Sempre che ancora si usi farla prima di decidere e non dopo, per giustificare la decisione politica quando è già stata presa, come è di moda.

Il collegamento Scilla-Ieracari. Se turnavunu i Romani….

Infine, per quanto riguarda Scilla, vi è l’annoso problema del collegamento con Ieracari. La necessaria modifica dello svincolo, comporterà la relativa modifica del tracciato attuale della strada che collega il quartiere con il centro urbano, con conseguente abbreviazione del percorso (a quanto si dice, poiché da otto anni a questa parte, non è stato possibile vedere mai un disegno).

E’ indubbio che mantenere la vecchia carreggiata Sud (adeguatamente modificata con poco sforzo) permetterebbe di dotare il quartiere di una viabilità alternativa. La cosa è quanto mai auspicabile, atteso che attualmente vi è UNA strada UNA, in verità ormai ridotta a poco più di un budello, percorribile slalomeggiando tra auto parcheggiate ovunque, e mezzi di ogni tipo (betoniere, ruspe, autobus, e chi più ne ha, più ne metta).

L’importanza di avere una strada alternativa aumenta ancora di più, visto e considerato che Scilla è l’unico paese dove pare sia impossibile poter realizzare un semplice ponte della lunghezza -sintiti! sintiti!- nientepopodimeno che 15.000 centimetri. Se turnavunu i Romani….o scorci ‘i coddhu!

Abbiamo l’Università, non passiamo per Ciucci!

In conclusione, ci permettiamo una considerazione.

Questi benedetti lavori sono stati imposti: prima dall’Europa, poi dalla Legge Obiettivo.

Ora, da che l’uomo è stato creato, è notorio che l’obiettivo di qualunque nuova strada (perché di nuova strada si tratta), è quello di collegare tra loro realtà, comunità, tra loro lontane (Berlino e Palermo) ma anche quelle tra loro più vicine che fino a ora non hanno avuto contatti o, se li hanno avuti, l’hanno fatto per vie “traverse” e non dritte come un’autostrada.

Da quanto abbiamo registrato in questi anni (e riportato in breve sopra), si è invece assistito al ribaltamento di questa logica: dove i collegamenti c’erano si sono cancellati (non migliorati) o si vogliono cancellare.

La logica ambientalista che ha preso piede in questi anni è una logica perversa: facciamo di tutto per non guastare l’ambiente, senza accorgerci che stiamo facendo più danni di un cataclisma.

I paesi, i Comuni della nostra zona hanno subito danni irreversibili e si sta facendo di tutto perché questi danni vengano ancora aggravati.

I casi della chiusura dei vecchi svincoli e della demolizione del vecchio tratto di carreggiata Sud è emblematico: distruggerlo, comporterebbe una spesa di milioni di euro in termini materiali, ma di migliaia di milioni di euro se consideriamo le implicazioni negative che tali scelte sciagurate comporterebbero sull’intera nostra economia.

Di fronte a tale scempio imposto, gli Enti locali hanno avuto e stanno avendo un ruolo marginale e in molti casi sono stati ridotti al silenzio, a subire in casa propria senza poter parlare più di tanto. Di fronte a tale scempio, i cittadini sono stati ridotti al silenzio, impossibilitati ad esprimere le loro millemila ragioni del tutto ignorate.

L’unica voce che avrebbe potuto intervenire con piena cognizione di causa e senza essere tacciata di partigianeria, è l’università. A Reggio, se non ricordo male (visto che son passati diversi anni da quando l’ho frequentata), dovrebbe esserci una facoltà di ingegneria ad indirizzo trasporti. Dico dovrebbe, perché non mi risulta che in tutti sia mai intervenuta riguardo al “problema A3”, pubblicamente e con voce autorevole come ci si sarebbe aspettato.

Solo una volta, in tv, ho avuto modo di ascoltare il parere di un professore dell’ateneo reggino, il prof. Francesco Russo: non capiva il motivo, la necessità tecnica di un investimento di milioni e milioni di euro per fare un’autostrada peggiore di quella che già esisteva. Se non ricordo male, disse che sarebbe bastato costruire due nuove corsie, fino a Villa San Giovanni, da destinare al traffico dei camion, dimezzando così la spesa e aumentando di molto l’utilità dell’opera. La “vecchia” autostrada sarebbe rimasta a disposizione del traffico automobilistico.

A parte questo intervento, non mi pare di aver sentito altro.

Ecco, mi piacerebbe tanto che un’Università, una facoltà di ingegneria -peraltro ad originario indirizzo trasporti- come quella reggina, si facesse sentire presto e a gran voce.

Forse siamo ancora in tempo a non passare tutti per Ciucci!

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