19 agosto 2013

SAN ROCCO E SCILLA: UN’EMOZIONE CHE SI RINNOVA

Scilla-20130817-00223‘A festa finìu. Anche quest’anno, Scilla si è riunita attorno al suo Santo Patrono, San Rocco.

Lo ha fatto, come ogni volta, con fede e con un attaccamento particolari. Nei due giorni in cui il Santo francese si è fatto pellegrino per le strade del paese, non sono certo mancati i momenti particolari e toccanti.

 

Scilla-20130817-00231Il sabato, per le viuzze di Chianalea, bellissime, tortuose, strette, ma larghe al punto giusto da permettere il passaggio della statua che, nel suo cammino sfiora le piante di cappero, poi entra quasi nelle case dei pescatori, lasciate illuminate e aperte, come si fa con il mare, per accogliere un amico, uno di famiglia.

 

Scilla-20130817-00225E’ vero, ammettiamolo. Noi scigghitani abbiamo un rapporto familiare con San Rocco: quell’espressione del volto sofferente, il bastone a cui si appoggia, quell’indice puntato a mostrare il bubbone della peste, quegli occhi rivolti al cielo, uniti all’andatura lenta e barcollante, quasi ondeggiante, sulle spalle dei portatori, tutto questo insieme di elementi invitano a soccorrere quel pellegrino, a dargli assistenza, aiuto, conforto, proprio come narra il vangelo di Matteo che viene letto nei giorni della festa.

IMG-20130817-00234Vederlo passare in riva al mare, dal porticciolo di Chianalea, fa andare la mente a tutti quegli uomini e quelle donne che quotidianamente affidano al mare e al cielo le loro vite e sbarcano sulle nostre coste. Nei loro occhi, nella loro carne, rivive la sofferenza e il dolore vissuto da San Rocco e testimoniato in quell’opera d’arte che gli scillesi portano in processione da secoli.

Sono africani, siriani, egiziani, sono i pellegrini del mondo moderno che noi, con un termine che personalmente mi suona dispregiativo, definiamo “extracomunitari”, come fossero un corpo estraneo, un’anomalia da tenere lontana, separata e distinta dal “nostro” mondo indistinto.

Non è così che dovrebbe essere, e questi giorni di festa, San Rocco in particolare, ce lo ricordano. Sta a noi far sì che la memoria non si esaurisca in tempi brevi, come purtroppo spesso accade.

IMG-20130817-00238Vedere San Rocco passare lungo la galleria sotto la rupe del castello, lì dove sono più forti i vortici e il rimescolìo delle correnti marine dello Stretto, lì dove passò Ulisse, fa riflettere. Viene spontaneo chiedere al Santo di darti la forza di resistere, di affrontare gli ostacoli, di sorreggerti tutte le volte che ti ritrovi –tuo malgrado- a dover andare controcorrente.

Poi si passa dall’altra parte: Marina Grande.

IMG-20130817-00242Scilla è un paese bello e strano, dove in pochi metri si passa dal passato al presente, come se si fosse dentro una macchina del tempo. Il passato testimoniato dalle vecchie case dei pescatori della Piana delle Galee (la Chiana-lea), dal mito del mostro marino (i gorghi sotto il castello), fino al presente: le luci del lungomare, il luogo della “movida” estiva scigghitana.

La processione la attraversa silenziosa, quasi a non voler disturbare e, una volta raggiunto il confine Ovest del centro urbano, torna indietro lungo la strada nazionale: sulla strada illuminata dalle ‘ntrocce,  inizia la risalita verso la chiesa.

A sera oramai inoltrata, ti ritrovi testimone, lì in mezzo, della fatica dei portatori. La statua sale piano, arranca, sbanda, prova un zig-zag, un po’ come fanno i ciclisti sulle rampe più dure. Il peso della statua si trasmette alle spalle, attraversa tutto il corpo, fino ai piedi. E quella mano del portatore, quel pugno chiuso appoggiato alla vara con forza delicata, è il segno della fatica: sono stanco -dice quella mano- sono stanco, ma continuo a portarti con tutte le forze che ho.

E’ un peso dolce che, seppur piano piano, li spinge ad andare avanti, quasi a far presto per riportare il Pellegrino nella Sua casa, dove possa riposare fino all’indomani.

Scilla-20130818-00269La domenica è il turno del quartiere “San Giorgio”.

Si parte che il sole è quasi già tramontato. La via Umberto I è un fiume umano che scorre tra le bandierine festose agitate da una brezza leggera.

 

 

Scilla-20130818-00274Si sale quindi verso l’ex Asilo (antico carcere), oggi struttura assistenziale gestita dalle suore Veroniche del Volto Santo.  Ex carcere, struttura assistenziale, posti familiari (perché subiti ingiustamente o visitati) a San Rocco.

Per questo viene portato fin sull’uscio, a dare conforto e speranza alle anziane ospiti della struttura che aspettano di incontrarlo da un anno.

Scilla-20130818-00277A seguire, si sale verso le palazzine di via Tripi, dove si fa una sosta imprevista: il buio della sera inoltrata è squarciato dal pianto di dolore e dall’invocazione a San Rocco da parte di una madre che proprio il giorno prima, mentre il paese tutto si preparava a festeggiare, ha perso il proprio giovane figlio, da ieri in cielo, accanto a San Rocco.

 

IMG-20130818-00282Poi si scende verso l’ospedale –o quel che ne resta, ma non è il momento delle polemiche- al buio. Non erano posti mondani quelli frequentati da Rocco di Montpellier, e ogni sosta, ogni momento di pausa ce lo ricorda.

Si continua lungo via Matteotti, poi la discesa di via Roma. Ogni sosta volante è indice che lì dove il Santo si ferma anche solo per brevi istanti, c’è qualcuno che soffre, che ha bisogno del Suo aiuto, ma anche del nostro come comunità.

IMG-20130818-00286Dopo via Stretto, si sale lungo via Libertà, via Parco e via Rinnovamento, ‘u “Quarteri ‘ndiginu”, addobbato a festa come sempre, quindi la sosta nda “Cresiola”, lì dove solo poche ore prima, nel caldo primo pomeriggio, un emigrato si gira a guardare la statua piccola di San Rocco che vi è custodita in questi giorni e, in un commovente slancio d’affetto esclama: “’U ‘maru Sant’à Rroccheddhu, a ‘sta ura sta’ squagghiandu!”. Il tempo di una preghiera e via, in discesa verso la via Nucarella, poi ndo “Stratuni”, con deviazione fino alla Casa della Carità, altra struttura assistenziale di prim’ordine presente a Scilla.

IMG-20130818-00293Sono le 21:40 –orario anomalo- quando la processione giunge in piazza, dove nel frattempo la folla si è radunata, alla ricerca del posto migliore per assistere allo spettacolare “Trionfino”.

Dopo pochi minuti, la statua raggiunge, a fatica come sempre, il punto di partenza. Foto di rito per i portatori e le varie associazioni, definizione degli ultimi dettagli per la sicurezza del percorso e poi….l’accensione dei fuochi!

Il fuoco illumina la fiaccolata, poi mette in moto i “roteddhi” (le girandole), la statua di San Rocco parte, di corsa per il mezzo giro di piazza fin davanti alla chiesa. Sono pochi secondi che lasciano tutti con il fiato sospeso, sia chi vi assiste per la prima volta, sia chi lo vede da una vita. Un’emozione sempre nuova, 30 secondi che celebrano il trionfo del Santo pellegrino, sul fuoco della peste che divampò a quei tempi –e anche fino a qualche secolo dopo- in mezza Europa. Un male fatale, da cui Rocco della Croce guariva chi vi si era ammalato con il solo segno della croce, lo stesso che portava stampato sul petto fin da bambino.

 

(video realizzato da Tonino Sanfedele)

Negli occhi e nel cuore, le immagini: un bambino, un anziano, che si avvicinano alla statua per un bacio, una carezza, una preghiera particolare, incessante, che si trasmette di generazione in generazione; il pianto soffocato di una madre; le persone affacciate ai balconi (alcuni dei quali drappeggiati con la coperta della festa, come una volta) o che sbucano dalle persiane e seguono il passaggio di San Rocco con gli occhi; gli anziani, impossibilitati a muoversi, che aspettano che passi davanti al loro vicolo, davanti alla porta della loro casa, per vederlo e affidarGli una preghiera; la fatica, il sudore e la sofferenza dei portatori; l’entusiasmo della banda, che con la musica allevia la fatica e dà il segno della festa; il Trionfino, l’atto finale, commovente come sempre.

IMG-20130818-00294La festa di San Rocco significa, in fondo, riscoprire la fragilità della nostra condizione di uomini. E’ il nostro continuo bisogno di avere figure cui ispirarci –da cristiani- nella vita di tutti i giorni. L’esempio di San Rocco, è ai giorni nostri più attuale che mai. Abbiamo voluto registrare le immagini, le impressioni, le sensazioni, che portiamo nel cuore con gioia.

15 agosto 2013

DEAFEST 2013: A PODARGONI, TRA PASSATO E FUTURO

podargonilogoMemori del successo del 2012,  anche quest’anno siamo ritornati nella vallata del Gallico, partecipando alla tappa di Podargoni del DEAfest 2013, tenutasi lo scorso 14 Agosto.

Il titolo di questa edizione era TRASH & CLEAN ​​LATERRANONSPORCA, ovvero la contrapposizione tra “Il mondo della spazzatura, della insostenibilità, del consumare l’ambiente, del disperdere le tradizioni e l’identità dei luoghi, dell’abusivismo edilizio, della scarsa attenzione per i diritti e la solidarietà” e “il mondo della buona gestione dell’ambiente, della programmazione attenta alla persona, della conservazione del patrimonio identitario, del rispetto delle regole, della valorizzazione dei prodotti locali e delle tipicità, della fruizione responsabile dei luoghi”.

Il programma è stato molto ricco, con l’allestimento per le vie del piccolo borgo di opere d’arte contemporanea dal titolo “Absence, tra riciclo creativo e scarti d’autore” –a cura dell’Associazione Nonsense. Vi hanno partecipato undici artisti, che hanno messo in mostra le loro personali elaborazioni che conducono dall' abbandono e dal rifiuto a molteplici modi di produrre, creare, innovare e far riflettere.

Poi è stata la volta dello spettacolo teatrale itinerante “Mattone dopo Mattone -Un on the road cacio e pepe” di Emiliano Valente. Curiosa la trama, che vede protagonista un uomo alla guida della sua Panda che resta bloccato ma, pur non potendosi muovere fisicamente, inizia a percorrere con la mente le vie di Roma, osservando le opere incompiute, la miriade di nuove costruzioni di una città che continua a espandersi, senza regole e limiti.

Da buoni calabresi, non poteva mancare la satira, con la presentazione del progetto “Lo Statale Jonico -Ci rifiutiamo di rassegnarci” con Isidoro Malvarosa e Antonio Soriero, ovvero l’uso dell’ironia non solo come forma di autodifesa ma piuttosto come arma di denuncia della condizione del nostro meridione.

maxmaber-orkestar-gruppo-per-stradaA chiudere la serata e ad accompagnare la consueta degustazione di prodotti enogastronomici tipici della vallata del Gallico, il concerto della MAXMABER ORKESTAR, una band italo-jugoslava che al ritmo klezmer –la musica dei balcani- e di vecchie canzoni italiane rivisitate, ci ha letteralmente svuotato il cervello di ogni pensiero e deliziato le orecchie per quasi due ore, regalandoci più di un bis.

Il gruppo triestino –che pochi giorni prima aveva suonato al Lethargy Festival di Zurigo ed è giunto a Podargoni passando dal “Borgofuturo” di Cinquefrondi, si è dimostrato davvero sorprendente, con sonorità coinvolgenti, ben supportati dal folto pubblico presente, che ha danzato al ritmo della musica balcanica fino a notte fonda.

E a proposito di TRASH & CLEAN, facciamo notare che i ragazzi triestini (qui alcuni loro brani) hanno saputo costruire un ponte ideale tra “il mondo brutto e sporco” dei gitani –almeno così viene percepito dalle “civili” popolazioni occidentali- e della loro musica, con “il mondo bello e lindo” dell’occidente, della musica popolare italiana, specialmente quella  della dirimpettaia Emilia-Romagna, con l’esecuzione di molti pezzi valzer e mazurche.

podargoniCome l’anno scorso, abbiamo fatto un giro per le viuzze di Podargoni, dove siamo giunti quand’era già sera, facendo lo slalom tra i paesini della vallata del Gallico che, a guardarli, sembravano dei piccoli presepi. Gioiellini che DEVONO essere tutelati, preservati e valorizzati come meritano ma una politica che ha perso la propria identità, non ne è capace, nonostante le molteplici possibilità offerte anche dall’Europa per la salvaguardia dei borghi antichi.

Sono luoghi dove magari non ci sono le comodità di tutti i giorni –cose superflue di cui potremmo fare tranquillamente a meno- ma dove è possibile ritrovare un proprio equilibrio, una propria pace interiore, riscoprendo tradizioni e valori che troppo spesso restano soffocati dalla “modernità”.

A Podargoni sembra che il tempo si sia fermato. Forse è per questo che non senti il bisogno di guardare l’orologio, indicatore di ansie che, in posti del genere, svaniscono come per incanto.

In realtà non è così. Podargoni pensa al futuro, Podargoni ha un futuro. Ce lo assicurano le vocine acute ma infinitamente dolci dei bambini che si rincorrono per le viuzze e le scalette del borgo, inventando dei giochi per passare il tempo –proprio come facevamo una volta nelle traverse.

Bambini che a una semplice domanda, forse scambiandoci per l’agente della Dogana de “Non ci resta che piangere”, con la semplicità dell’innocenza ma con fierezza tutta calabrese, ti dicono il proprio nome e quello dei rispettivi fratelli e sorelle; ti raccontano di chi sono figli e chi li accompagna; ti spiegano con precisione e senza incertezze come è costituita la loro famiglia e dove vivono.

Li vedi correre avanti e indietro, instancabili, liberi e felici. Si fermano soltanto un po’, a dissetarsi alla fontana dove scorre l’acqua spremuta dalle rocce dell’Aspromonte che ci sovrasta.

E’ aspra, dura, ripida questa nostra terra, ma proprio per questo è bella, di una bellezza selvaggia, semplice, naturale, senza artifici, che fa tenerezza per la sua fragilità. Podargoni ce lo ricorda.

E’ una bellezza simile a quella di quei bambini che riescono a fermarsi tutti insieme, giusto il tempo per una foto, che cattura un attimo passato, ma che rappresenta anche l’immagine del futuro: quello di quei bimbi e del borgo a cui si sentono già così legati che, ne siamo sicuri, torneranno sicuramente a visitare negli anni a venire.

Lasciamo Podargoni che la notte è già alta. Nell’aria fresca, le note del klezmer hanno ceduto il passo all’immancabile tarantella finale, che mette insieme anziani, meno giovani e giovani, in una sorta di unione generazionale che non è facile trovare per le strade di città.

E’ quasi un silenzioso passaggio di testimone, suggellato dalla musica della tarantella, espressione della più pura tradizione calabrese.

La Podargoni vecchia si affida ai giovani per conservare le tracce del proprio passato,  per proiettarlo nel futuro e continuare a far sentire la propria voce: squillante, gioiosa, allegra, spensierata, come quella dei bambini che si rincorrono per le sue viuzze.

 

05 agosto 2013

SE IDDIO FOSSE UNA CIRCONFERENZA

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Capitano giorni in cui fonti diverse e diametralmente opposte tra loro ti fanno giungere alla stessa conclusione, chiudono il cerchio.

Di libri ne leggo abbastanza –non quanti vorrei- ma pochi autori riescono a sorprendermi e a coinvolgermi emotivamente nella lettura. Uno fra i primi è senza dubbio Erri De Luca. Il suo stile asciutto, diretto, senza fronzoli ma che, allo stesso tempo, ha un qualcosa di poetico, mi piace moltissimo.

Leggo i suoi libri con accanto un’agenda, dove annoto le frasi più belle –e sono tante. Una di queste, in cui mi sono imbattuto qualche giorno fa, tratta da un libro scritto nel 1989, diceva:

<<Se iddio fosse una circonferenza la chiesa ne sarebbe il centro, che è il punto più distante possibile>>

E’ una frase dura, che esprime un giudizio categorico, ma perfettamente logico, specie se consideriamo il contesto storico di quegli anni.

Alla fine degli anni ‘80, l’azione della Chiesa e del Vaticano in particolare assunse una rilevanza politica come forse mai aveva avuto. Papa Giovanni Paolo II, l’uomo venuto dal lontano Est europeo che all’epoca era sotto la sfera d’influenza sovietica, risultò decisivo nell’avvenimento che segnò quell’anno 1989 e la Storia moderna: la caduta del muro di Berlino.

Certo, l’aspetto politico –mi si passi il termine- del pontificato di Giovanni Paolo II era in quegli anni in primo piano e di un’importanza tale da lasciare “dietro le quinte” tutto il resto. Il carattere anticomunista dell’uomo Wojtyla non poteva non avere riflessi anche sulla sua visione del mondo e quindi della Chiesa –che egli guidava- nel mondo di quegli anni.

Non bisogna però dimenticare che la dottrina sociale della Chiesa è praticamente rimasta la stessa nei suoi contenuti fondamentali, dai tempi di Pio XI (siamo nel 1950) fino a oggi.  E Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato, ha comunque contribuito a richiamarla ed aggiornarla più volte.

Nel “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa”, elaborato nel 2005 dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che ne ripercorre i documenti fondamentali, è detto a chiare lettere che:

<<Tutto ciò che riguarda la comunità degli uomini non è estraneo all’evangelizzazione e questa non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale dell’uomo.

     …La dottrina sociale “ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione” e si sviluppa nell’incontro sempre rinnovato tra il messaggio evangelico e la storia umana..

Essa si situa all’incrocio della vita e della coscienza cristiana con le situazioni del mondo e si manifesta negli sforzi che singoli, famiglie, operatori culturali e sociali, politici e uomini di Stato mettono in atto per darle forma e applicazione nella storia. [ Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus]

Con la sua dottrina sociale, la Chiesa si preoccupa della vita umana nella società, nella consapevolezza che dalla qualità del vissuto sociale….dipende in modo decisivo la tutela e la promozione delle persone.

Nella società, infatti, sono in gioco la dignità e i diritti della persona e la pace nelle relazioni tra persone e tra comunità di persone. Beni, questi, che la comunità sociale deve perseguire e garantire.

In tale prospettiva, la dottrina sociale assolve un compito di annuncio e anche di denuncia.>>

<<…Tale denuncia si fa giudizio e difesa dei diritti disconosciuti e violati, specialmente dei diritti dei poveri, dei piccoli, dei deboli>>.

Lo stesso giorno, in un articolo a firma di don Antonino Denisi nella sua rubrica settimanale su “Gazzetta del Sud”, vi è la risposta alla considerazione fatta dallo scrittore napoletano.

Il 16 Novembre 1965, 40 vescovi che partecipavano al Concilio Vaticano II sottoscrissero il “Patto delle Catacombe” – per la maggior parte cardinali latino-americani – con il quale invitavano i vescovi a esserlo in mezzo alla loro gente, condividendone le stesse condizioni ed essendo vicini in modo particolare ai poveri. Scrissero i cardinali:

<<Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende.

Rinunciamo per sempre alla realtà della ricchezza. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi.

Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi, economicamente deboli e poco sviluppati.

Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo: – a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere>>

La continuità del messaggio, dal Concilio Vaticano II fino a oggi è evidente. La Storia vista dal punto di vista della Chiesa non è e non può essere storia di lotta di classe, di ribellione di chi ha di meno nei confronti di chi ha di più. E’ una questione più ampia, più alta, di giustizia sociale.

Essere povero, per la Chiesa, significa evitare il superfluo, ciò che non serve. Non significa vivere in miseria. La Chiesa ha sempre combattuto la miseria. Di più: ha, da sempre, il dovere di denunciarla.

Certo, avrebbe potuto farlo meglio, lasciando da parte le banche e sostenendo in misura maggiore quelle realtà di frontiera che sono le missioni, spesso e volentieri l'unico vero baluardo a difesa dei poveri. Sotto questo punto di vista, la religione cristiana non può essere considerata “l’oppio dei popoli” –come la definiva Marx.

E' una Chiesa, quella di Papa Francesco, che sta riscoprendo il messaggio originale del Cristianesimo, riproposto e sottolineato già nel Concilio Vaticano II e aggiornato, come si è visto, fino a oggi.

Un messaggio articolato, multiforme, che diventa sempre più complesso calare nella realtà dei nostri giorni. Anche per questo, in alcune sue parti è un messaggio rimasto troppo a lungo dietro le porte dei sacri palazzi, al centro di un corpo che è apparso essere troppo distante dalla realtà.

 Come nota don Denisi: <<Mezzo secolo dopo, un Papa ne ha fatto il programma del suo pontificato.>>

Ecco, utilizzando la stessa metafora  di De Luca, il messaggio di Papa Francesco potrebbe essere tradotto così: allontanarsi dal centro, anche dal luogo fisico –il Vaticano- e andare –sia fisicamente che con i comportamenti personali- verso le periferie esistenziali. Avvicinarsi sempre di più a quei gironi di vita infernale dove ci sono quei “fratelli più piccoli” di cui parla il Vangelo di Matteo, a quella circonferenza dove c’è Dio, a quella circonferenza che è Dio.