Leggendo l’articolo di Antonio Calabrò dal titolo “Reggio e la Calabria? Nessuno le ama, neanche i calabresi” nella mia mente si è formata l’immagine di un giovane reggino che tra 50-60-90-100 anni, per sua fortuna, riuscisse a recuperare dagli archivi internettiani questa testimonianza dolorosa di quella che oggi è la nostra realtà.
<<Vivevano davvero così a Reggio 100 anni fa?>> Credo sarà questa la prima domanda che si porrà il giovane lettore del 2113.
Non so dove sarà quando lo leggerà, se a Reggio, in una città che tornerà ad essere bella e gentile come poco più di un decennio fa, oppure lontano mille migliaia di chilometri, lontano dalle rovine che questa nostra generazione rischia seriamente di lasciargli in eredità.
E’ verissimo, non è colpa della ‘ndrangheta, non solo.
Non è solo colpa di un serpente che –a dire il vero- ogni giorno che passa dimostra di avere molto più che due teste soltanto. Non è solo colpa di questo mostro, all’ombra del quale molti calabresi –altrettanto colpevolmente- si sono nutriti e sono cresciuti come e peggio della peggiore specie di parassiti esistente in natura.
La colpa è anche nostra, che col mostro e i suoi parassiti non abbiamo niente a che fare. Stiamo perdendo l’amore, la passione e il sentimento per questa nostra terra che, non dimentichiamolo, è e sarà sempre (che ci piaccia o no) nostra madre. Ma se perdiamo amore, passione e sentimento, non saremo altro che figli ingrati.
So che, in realtà, molti di noi non accettano questa deriva (che a lungo andare ci porterà all’autoestinzione) e combattono.
Molti di noi non si rassegnano a starsene inoperosi, correndo il rischio di diventare definitivamente incapaci di risolvere le equazioni matematiche, la cui soluzione viene oramai affidata al proprio computer più che al proprio cervello.
Sono molti, siamo in molti, i calabresi che non si rassegnano a far la fine del tacchino come negli Stati Uniti nel giorno del ringraziamento, perché consapevoli che se ci rassegnassimo, se ne salverebbe solo uno, ma solo perché graziato.
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