La guerra in Iraq sembra non fare più notizia. Si parla sì di una nuova costituzione; di una nuova democrazia che, purtroppo, nasce (?) tra un'autobomba e l'altra; di etnie o fazioni politiche diverse che, dimentiche della funesta dittatura di Saddam, non fanno altro che cercare di dimostrare chi sia tra loro la più potente, la più seguita dal popolo, quella che ha più diritto rispetto alle altre.
Non si parla più della guerra in corso, intesa dal punto di vista militare. Soprattutto, non si parla più (peggio ancora, si fa passare la cosa sotto silenzio), di coloro che la guerra la fanno, o meglio, sono chiamati a farla in nome di altri (ed alti) potentati:i soldati.
Anche se la televisione, la radio e la maggior parte dei giornali non sembrano molto interessati al riguardo, giovani militari (la maggior parte tra i 18 e i 30 anni, in prevalenza americani), continuano a morire giorno dopo giorno, ad un ritmo impressionante.
Dall'inizio del conflitto in Iraq (marzo 2003), i soldati americani che hanno pagato con la vita il loro servizio reso alla Patria per la causa irachena sono più di 2000, nonostante il presidente Bush abbia trionfalmente dichiarato (con tanto di atterraggio del suo elicottero su una delle portaerei USA), la fine della guerra e la "vittoria" delle forze occidentali già a maggio del 2003.
E dopo? Come sono morti tutti gli altri soldati? Portando la pace e la democrazia? No.
In realtà la guerra non è ancora finita ma si è solo trasformata, assumendo una forma più insidiosa, subdola, difficile, incontrollabile: la guerriglia.
Questa parola, nella mente di ogni americano e di ogni giovane della mia generazione evoca -oltre ai purtroppo "soliti" scenari africani o centroamericani- quella che è stata la più devastante guerra combattuta dagli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale: il Vietnam.
Per fortuna, non si è ancora raggiunto (e mi auguro non lo si raggiunga mai più) il numero di morti del Vietnam, anche se, ahimé, sembra siamo già oggi al livello immediatamente inferiore.
Geoge W. Bush ha gioito ed ha già cantato vittoria. Il resto degli Stati Uniti, continua a soffrire e a piangere giovani vite spezzate, continua a rendere loro rispettoso e doveroso ricordo ed omaggio. Lo fa anche per mezzo di giornali come il New York Times, tra i pochi che continuano i loro reportage raccontando il dramma delle famiglie dei militari caduti e che continuano a tenere il macabro conteggio dei morti:per data, per nome, per stato di provenienza, per età.
Sono oltre 2000, quelli di cui l'unica cosa che resta (oltre al ricordo di chi li ha conosciuti), è una foto. (http://www.nytimes.com/2005/10/26/national/IRAQDEATHS_GRAPHIC.html?th&emc=th)
Già, una foto. Proprio come quelle che compaiono su tutti i giornali e che ritraggono "The Commander in Chief" sorridente e sicuro (?) di sè, mentre afferma:"We'll win!" -Vinceremo.
Ma, non aveva già vinto due anni e mezzo fa? No, era solo la vittoria di PirroBush.
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