Principio di uguaglianza-tutela della vita 1-0.
E' questo il risultato che traduce in maniera secca, impietosa, drammatica ma legalmente valida, la tragica "partita"che si è "giocata" attorno a un tema delicato, difficile, incredibilmente pieno di implicazioni scientifiche-giuridiche-morali-religiose, sempre presenti nell'eterno conflitto tra fede e ragione.
Sicuramente, sono l'ultima persona titolata a disquisire o a pretendere di spiegare qualcosa che è molto più grande di me.
Ci provo, comunque. Se non altro, per cercare di liberarmi da un pensiero, che da più giorni è fisso nella mia mente; per dare una risposta a una domanda allo stesso tempo semplice e impossibile:ci sarebbe potuto essere una soluzione diversa al caso Englaro?
Premesso che sento di potermi definire cattolico, non posso però dimenticare di aver avuto la fortuna di poter nascere, crescere e vivere in un Paese democratico, in uno Stato di diritto, regolato cioè dalla Legge. E non posso dimenticare che lo Stato democratico, tutela tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, perciò tutela anche i cristiani, gli ebrei, i musulmani, i buddisti, gli indù, gli animisti, gli atei.
Per cercare di capire quel che è accaduto, è necessario quindi osservare quel che le cronache ci hanno riferito da un punto di vista più "neutrale" possibile, impermeabile a qualsiasi genere di influenza.
Ho letto le sentenze che riguardano il caso Englaro -e solo, specificamente, quello e non altri simili.
Non ho potuto fare a meno di notare l'enorme sforzo fatto dai giudici per cercare di contemperare le comprensibili emozioni umane con il rigore, la stretta osservanza delle Leggi o, meglio ancora, dei principi che stanno alla base dell'ordinamento democratico e, soprattutto -per quanto possibile- con una loro corretta interpretazione ed applicazione.
La Corte d'Appello di Milano -richiamando un principio di diritto affermato in diverse occasioni dalla Corte di Cassazione- ha osservato che il diritto alla salute o alla vita (entrambi tutelati dalla Costituzione), non può essere imposto a nessun malato mediante trattamenti artificiali nemmeno in stato di assoluta incapacità.
Così, dice la Corte, si attua la preminenza della persona umana e della sua potestà di autodeterminazione, che è direttamente correlata al rispetto del diritto alla salute e alla vita e costituisce l'attuazione, la realizzazione più piena del principio di uguaglianza dei diritti e di libera espressione della personalità.
E, nel caso dei soggetti riconosciuti incapaci, tale diritto all'autodeterminazione può esprimersi solo attraverso il tutore.
Ma l'azione e il "potere" del tutore sono necessariamente soggetti a dei limiti: irreversibilità delle condizioni in cui versa l'incapace (provata, secondo i giudici, con tutti i mezzi che la scienza ha oggi a disposizione); controllo della conformità della determinazione del tutore alla presumibile scelta dell'incapace (valutata seguendo numerose testimonianze, concordanti nell'affermare che Eluana ritenesse inconciliabile con la sua concezione di dignità della vita, il permanere in uno stato simile).
I giudici ammettono però, con molta onestà che questi limiti, in quanto privi di un fondamento normativo, sono soltanto il risultato di un processo logico, non motivato ma basato soltanto su una presunzione di volontà dell'incapace, dedotta solo con dei mezzi di prova (perizie mediche di alto livello scientifico, testimonianze degli amici più prossimi, dei parenti).
Concludono, quindi, affermando che: la durata straordinariamente prolungata dello stato di permanenza/irreversibilità in cui versa l'incapace; la sopravvivenza solo biologica del suo corpo; l'inconciliabilità di tale stato con la sua concezione di dignità della vita (accertata con le testimonianze), siano tutti e tre fattori prevalenti -nel solo caso di specie- sulla necessità di tutela della vita biologica.
Sulla base di questa ricostruzione logico-normativa si è dunque fondata la decisione di permettere l'interruzione dell'alimentazione artificiale, che è considerata dalla giurisprudenza un trattamento di natura medica, ma di tipo particolare.
Gli stessi giudici della Corte d'Appello affermano che tale tipo di trattamento alimentare è sempre legittimo, anche in mancanza di esplicito consenso, in quanto cura medica finalizzata al rispetto del diritto alla vita del malato incapace.
Tale legittimità del trattamento però finisce, quando viene espressa una volontà contraria da parte del tutore, portatore -diciamo così- della volontà del libero pensiero dell'incapace che, per suo tramite, realizza l'uguaglianza di diritti.
Ma seguendo il ragionamento dei giudici, porre un limite a tale trattamento legittimo si traduce, di fatto, nel non rispetto del diritto alla vita.
I giudici parlano di vita biologica, operando quindi indirettamente una distinzione tra la vita del corpo e la vita della mente. Così come il corpo umano può avere diversi tipi di morte (cerebrale, cardiaca, ecc.), esso può dunque "vivere" in modi diversi.
Sembrerà strano, ma il diritto alla vita non è espressamente previsto dalla nostra Costituzione. Esso può tuttavia desumersi nella nostra Carta fondamentale per via "indiretta", in quanto l'art. 27 dispone che non è ammessa la pena di morte. Lo citano però direttamente altre norme internazionali recepite in Italia con leggi ordinarie, ultima delle quali la Costituzione Europea (art. 62 -Parte II), ratificata con la Legge n. 57 del 7.4.2005.
Chi deve dunque prevalere? il diritto alla vita o il principio di uguaglianza dei diritti e di libera espressione della personalità?
Stando al tenore letterale esplicito della nostra Costituzione, l'interpretazione fornita dai giudici sarebbe ineccepibile.
Ma è possibile costruire una scala delle priorità? E' possibile farlo solo nell'ambito del diritto, della Legge, senza farsi influenzare da altri fattori?
Sono domande a cui è quasi impossibile dare delle risposte.
Gli operatori del diritto sono consapevoli che, purtroppo, la Legge non sempre ha le risposte a tutte le domande ma è anzi di volta in volta soggetta a interpretazioni diverse, per questo ci sono i giudici.
Non so nemmeno se la risposta esista in campo filosofico, anzi, sicuramente ne esisterà più d'una anche qui.
Mi limito soltanto ad osservare semplicemente che tutti i diritti riconosciuti nel nostro ordinamento, sono posseduti dall'individuo in quanto persona, cioè essere vivente (quando poi abbia inizio la vita, è un altro tema, che però tralascio, perché porterebbe molto lontano...).
Dunque, solo chi vive può esprimere liberamente il proprio pensiero, può essere uguale agli altri. Questo vale per tutti, per i credenti e per gli atei. E' evidente quindi che il diritto alla vita costiuisca la base, la condizione fondamentale di ciascun altro diritto.
E le norme, tutte le norme finora in vigore in Italia, non operano nessuna distinzione se essa debba essere vissuta pienamente o possa esserlo anche in modo parziale (vita biologica, ecc.).
Non vi è poi nessuna norma che leghi il diritto alla vita, al progresso realizzato o realizzabile dall'uomo nel campo della medicina.
Ciò non significa subordinare il diritto alla vita alla scienza. Significa che è necessario fissare un criterio legale, in base al quale una certa metodologia possa essere ritenuta di uso"normale" per la cura di una determinata patologia, senza che essa sconfini nell'accanimento terapeutico.
A questi deficit normativi dovrà porre rimedio una legislazione nuova, che -così come fatto più di trent'anni fa con la riforma del diritto di famiglia- prenda in considerazione non il caso specifico (sul quale peraltro era già intervenuta una sentenza divenuta esecutiva e perciò pienamente applicabile), ma tratti la materia -difficile- in tutti i suoi aspetti, partendo proprio dai punti deboli manifestatisi, purtroppo in tutta la loro drammaticità nel caso Englaro.
Per adesso, a mio modesto parere, siamo in una situazione del tutto anomala. Il "punteggio" di questa partita straordinariamente complicata, non dice la verità, è un risultato in qualche modo falsato -passatemi il termine- da regole non del tutto chiare e -nonostante il grande sforzo interpretativo, poco convincenti.
E quando si gioca con regole poco chiare, si finisce inevitabilmente -seppur in maniera involontaria- col farsi del male.
E' questo il risultato che traduce in maniera secca, impietosa, drammatica ma legalmente valida, la tragica "partita"che si è "giocata" attorno a un tema delicato, difficile, incredibilmente pieno di implicazioni scientifiche-giuridiche-morali-religiose, sempre presenti nell'eterno conflitto tra fede e ragione.
Sicuramente, sono l'ultima persona titolata a disquisire o a pretendere di spiegare qualcosa che è molto più grande di me.
Ci provo, comunque. Se non altro, per cercare di liberarmi da un pensiero, che da più giorni è fisso nella mia mente; per dare una risposta a una domanda allo stesso tempo semplice e impossibile:ci sarebbe potuto essere una soluzione diversa al caso Englaro?
Premesso che sento di potermi definire cattolico, non posso però dimenticare di aver avuto la fortuna di poter nascere, crescere e vivere in un Paese democratico, in uno Stato di diritto, regolato cioè dalla Legge. E non posso dimenticare che lo Stato democratico, tutela tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, perciò tutela anche i cristiani, gli ebrei, i musulmani, i buddisti, gli indù, gli animisti, gli atei.
Per cercare di capire quel che è accaduto, è necessario quindi osservare quel che le cronache ci hanno riferito da un punto di vista più "neutrale" possibile, impermeabile a qualsiasi genere di influenza.
Ho letto le sentenze che riguardano il caso Englaro -e solo, specificamente, quello e non altri simili.
Non ho potuto fare a meno di notare l'enorme sforzo fatto dai giudici per cercare di contemperare le comprensibili emozioni umane con il rigore, la stretta osservanza delle Leggi o, meglio ancora, dei principi che stanno alla base dell'ordinamento democratico e, soprattutto -per quanto possibile- con una loro corretta interpretazione ed applicazione.
La Corte d'Appello di Milano -richiamando un principio di diritto affermato in diverse occasioni dalla Corte di Cassazione- ha osservato che il diritto alla salute o alla vita (entrambi tutelati dalla Costituzione), non può essere imposto a nessun malato mediante trattamenti artificiali nemmeno in stato di assoluta incapacità.
Così, dice la Corte, si attua la preminenza della persona umana e della sua potestà di autodeterminazione, che è direttamente correlata al rispetto del diritto alla salute e alla vita e costituisce l'attuazione, la realizzazione più piena del principio di uguaglianza dei diritti e di libera espressione della personalità.
E, nel caso dei soggetti riconosciuti incapaci, tale diritto all'autodeterminazione può esprimersi solo attraverso il tutore.
Ma l'azione e il "potere" del tutore sono necessariamente soggetti a dei limiti: irreversibilità delle condizioni in cui versa l'incapace (provata, secondo i giudici, con tutti i mezzi che la scienza ha oggi a disposizione); controllo della conformità della determinazione del tutore alla presumibile scelta dell'incapace (valutata seguendo numerose testimonianze, concordanti nell'affermare che Eluana ritenesse inconciliabile con la sua concezione di dignità della vita, il permanere in uno stato simile).
I giudici ammettono però, con molta onestà che questi limiti, in quanto privi di un fondamento normativo, sono soltanto il risultato di un processo logico, non motivato ma basato soltanto su una presunzione di volontà dell'incapace, dedotta solo con dei mezzi di prova (perizie mediche di alto livello scientifico, testimonianze degli amici più prossimi, dei parenti).
Concludono, quindi, affermando che: la durata straordinariamente prolungata dello stato di permanenza/irreversibilità in cui versa l'incapace; la sopravvivenza solo biologica del suo corpo; l'inconciliabilità di tale stato con la sua concezione di dignità della vita (accertata con le testimonianze), siano tutti e tre fattori prevalenti -nel solo caso di specie- sulla necessità di tutela della vita biologica.
Sulla base di questa ricostruzione logico-normativa si è dunque fondata la decisione di permettere l'interruzione dell'alimentazione artificiale, che è considerata dalla giurisprudenza un trattamento di natura medica, ma di tipo particolare.
Gli stessi giudici della Corte d'Appello affermano che tale tipo di trattamento alimentare è sempre legittimo, anche in mancanza di esplicito consenso, in quanto cura medica finalizzata al rispetto del diritto alla vita del malato incapace.
Tale legittimità del trattamento però finisce, quando viene espressa una volontà contraria da parte del tutore, portatore -diciamo così- della volontà del libero pensiero dell'incapace che, per suo tramite, realizza l'uguaglianza di diritti.
Ma seguendo il ragionamento dei giudici, porre un limite a tale trattamento legittimo si traduce, di fatto, nel non rispetto del diritto alla vita.
I giudici parlano di vita biologica, operando quindi indirettamente una distinzione tra la vita del corpo e la vita della mente. Così come il corpo umano può avere diversi tipi di morte (cerebrale, cardiaca, ecc.), esso può dunque "vivere" in modi diversi.
Sembrerà strano, ma il diritto alla vita non è espressamente previsto dalla nostra Costituzione. Esso può tuttavia desumersi nella nostra Carta fondamentale per via "indiretta", in quanto l'art. 27 dispone che non è ammessa la pena di morte. Lo citano però direttamente altre norme internazionali recepite in Italia con leggi ordinarie, ultima delle quali la Costituzione Europea (art. 62 -Parte II), ratificata con la Legge n. 57 del 7.4.2005.
Chi deve dunque prevalere? il diritto alla vita o il principio di uguaglianza dei diritti e di libera espressione della personalità?
Stando al tenore letterale esplicito della nostra Costituzione, l'interpretazione fornita dai giudici sarebbe ineccepibile.
Ma è possibile costruire una scala delle priorità? E' possibile farlo solo nell'ambito del diritto, della Legge, senza farsi influenzare da altri fattori?
Sono domande a cui è quasi impossibile dare delle risposte.
Gli operatori del diritto sono consapevoli che, purtroppo, la Legge non sempre ha le risposte a tutte le domande ma è anzi di volta in volta soggetta a interpretazioni diverse, per questo ci sono i giudici.
Non so nemmeno se la risposta esista in campo filosofico, anzi, sicuramente ne esisterà più d'una anche qui.
Mi limito soltanto ad osservare semplicemente che tutti i diritti riconosciuti nel nostro ordinamento, sono posseduti dall'individuo in quanto persona, cioè essere vivente (quando poi abbia inizio la vita, è un altro tema, che però tralascio, perché porterebbe molto lontano...).
Dunque, solo chi vive può esprimere liberamente il proprio pensiero, può essere uguale agli altri. Questo vale per tutti, per i credenti e per gli atei. E' evidente quindi che il diritto alla vita costiuisca la base, la condizione fondamentale di ciascun altro diritto.
E le norme, tutte le norme finora in vigore in Italia, non operano nessuna distinzione se essa debba essere vissuta pienamente o possa esserlo anche in modo parziale (vita biologica, ecc.).
Non vi è poi nessuna norma che leghi il diritto alla vita, al progresso realizzato o realizzabile dall'uomo nel campo della medicina.
Ciò non significa subordinare il diritto alla vita alla scienza. Significa che è necessario fissare un criterio legale, in base al quale una certa metodologia possa essere ritenuta di uso"normale" per la cura di una determinata patologia, senza che essa sconfini nell'accanimento terapeutico.
A questi deficit normativi dovrà porre rimedio una legislazione nuova, che -così come fatto più di trent'anni fa con la riforma del diritto di famiglia- prenda in considerazione non il caso specifico (sul quale peraltro era già intervenuta una sentenza divenuta esecutiva e perciò pienamente applicabile), ma tratti la materia -difficile- in tutti i suoi aspetti, partendo proprio dai punti deboli manifestatisi, purtroppo in tutta la loro drammaticità nel caso Englaro.
Per adesso, a mio modesto parere, siamo in una situazione del tutto anomala. Il "punteggio" di questa partita straordinariamente complicata, non dice la verità, è un risultato in qualche modo falsato -passatemi il termine- da regole non del tutto chiare e -nonostante il grande sforzo interpretativo, poco convincenti.
E quando si gioca con regole poco chiare, si finisce inevitabilmente -seppur in maniera involontaria- col farsi del male.
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