08 giugno 2014

FIGLI DI UNO SBARCO

 

Un anziano signore inglese di 89 anni è scappato dalla casa di riposo dove sta passando gli ultimi anni della sua vita. Aveva un appuntamento importante, molto speciale, a cui non poteva mancare: doveva andare a Ouistreham, Normandia, Francia, al centro di quei cento chilometri di costa tra Le Havre e Cherbourg, dove ci sono le spiagge Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword. Lì, il 6 Giugno 1944 cambiarono le sorti della Seconda Guerra Mondiale e, con esse, la storia dell'Europa.

Da quel giorno –il D-Day, dall'”Operazione Nettuno”, nel giro di un anno o poco più gli Alleati ebbero la meglio sui tedeschi e sugli italiani. I primi perché non erano più in grado di sostenere gli attacchi su più fronti portati dalle truppe alleate; i secondi perché erano ormai con un esercito allo sbando e un popolo che -mandato finalmente a quel paese il fascismo- sentiva sempre più forti e vicini il profumo e il sapore di una libertà piena, loro negata nei vent'anni precedenti.

La libertà dell'Europa, la nostra libertà, comincia da quello sbarco. Quelle centinaia di migliaia di soldati -di molti dei quali ci sono rimasti solo interi campi di croci piantate in file ordinate, a loro perenne ricordo- con il loro sacrificio ci hanno consentito di arrivare alla pace e alla democrazia, un sogno divenuto realtà.

E’ stato uno sbarco accolto con entusiasmo e con la forza della disperazione. Settant'anni dopo, un continente libero ed economicamente solido (nonostante la crisi) assiste, questa volta in maniera passiva, inerme, allo sbarco della disperazione. Uno sbarco diametralmente opposto al primo, sia dal punto di vista geografico che delle motivazioni, che delle condizioni in cui avviene.

E' avvenuto a Nord quello sbarco che ha liberato l'Europa, mentre oggi lo sbarco avviene da Sud, sulle coste meridionali dell'Europa; se lo sbarco in Normandia è stato un evento consumatosi in una notte, lo sbarco che avviene oggi è continuo, costante, quotidiano; se le vittime dello sbarco di settant’anni fa furono soldati di eserciti pronti a morire, le vittime di oggi (in fondo al mare o sulle spiagge) sono civili, ma anche loro mettono in conto di poter morire; se quello del 1944 ha condotto nel nostro continente gli uomini che ci hanno portato la libertà, lo sbarco di oggi conduce in Europa uomini che cercano la libertà, che ci chiedono di aiutarli a raggiungerla. Libertà e possibilità di vita diverse, migliori: sono gli stessi sentimenti che avevano nel cuore i nostri nonni nel 1944.

E' strano come nel ricordo di un evento storico così drammatico, mi torni in mente una battuta spiritosa di Lino Banfi che, nei panni di nonno Libero, si rivolge spesso ai nipoti così: “Ricorda: quel che ero, tu sei; quel che sono, tu sarai!

La battuta ha in sé una connotazione generazionale ma, in generale, ha un significato più ampio: ricorda di non disprezzare mai chi ti appare diverso da te, perché un giorno potresti essere nella sua stessa situazione. Ma vale anche il contrario.

Sì, perché noi in una situazione difficile ci siamo stati, settant'anni fa, e ne siamo usciti bene. Proprio per questo non possiamo ignorare o restare inermi o, peggio ancora, disprezzare chi oggi vive la medesima situazione in cui noi eravamo solo due generazioni fa.

Avviene nel Sud Europa questo sbarco continuato, perché viene dal Sud del mondo, da un Sud in fuga dalla guerra, affamato nel corpo e nell'anima, di cibo e di libertà.

Risalgono l'Europa gli uomini del Sud, rispetto a quello fatto dagli Alleati nel 1944, il loro cammino è controcorrente. Settant'anni or sono, gli Alleati arrivarono a liberare popoli oppressi; oggi, quegli stessi popoli, seguendone appunto l'esempio, hanno un solo dovere: allearsi (non con gli eserciti, ma con le decisioni politiche che portino a leggi adeguate) per aiutare chi sbarca sulle nostre coste a percorrere l'Europa in senso inverso, alla ricerca di libertà e condizioni di vita più dignitose, umane.

Questa enorme massa di uomini, donne e bambini, ha tutto il diritto di attraversare l’Europa, i suoi Stati e di fermarcisi, se lo vogliono. Sono come i salmoni: hanno un diritto naturale, che è quello di risalire la corrente contraria alla loro esistenza. E come i salmoni, lo fanno rischiando di finire trascinati via dalla corrente, o dritti in bocca agli orsi che li aspettano: gli scafisti che li hanno stipati su un legno a sfidare le onde del Mediterraneo, prima; i “centri d'accoglienza” trasformati in carcere da leggi inopportune, dopo.

Nel risalire l'Europa, questa umanità dolente in cerca di libertà è costretta a sopportare le stesse angherie per tutto il continente, da quando sbarca sulle coste italiane, fino a quando raggiunge le coste francesi: da Lampedusa, dalla Sicilia o dalla Calabria, fino a Calais, punto di snodo verso l'Inghilterra o gli Stati Uniti.

Da Lampedusa, a Calais, sì, proprio in Normandia, a poche centinaia di chilometri da quelle spiagge storiche. E' la storia che si ripete, il cerchio si chiude. Già, la storia si ripete, ma a parti invertite: chi nel 1944 è stato aiutato a liberarsi grazie a uno sbarco in Europa, oggi è chiamato ad aiutare a liberarsi chi sbarca sullo stesso suolo.

Ecco, mi piacerebbe che l'Europa, le sue istituzioni, tutti i governi europei chiamati a prendere decisioni in merito al fenomeno immigrazione, lo facessero ricordandosi della lezione che ci ha insegnato l'evento storico di cui s'è fatto memoria sulle spiagge della Normandia. Lo facessero, accogliendo gli immigrati dicendo a ciascuno di loro:

Benvenuto! Sai, quel che ero, tu sei; quel che sono, tu sarai!”

Sarebbe un benvenuto e un augurio nello stesso tempo, cui corrisponderebbe un modo di agire nuovo, perché sarebbe una dimostrazione chiara di voler condividere un destino comune, perché la verità è che la nostra generazione europea e quella degli odierni immigrati in Europa, noi i loro non siamo altro che figli di uno sbarco.

Se lo capiamo, il sacrificio compiuto da milioni di uomini avrà avuto ancora più senso e a quell'anziano signore inglese -che oggi li rappresenta tutti- mentre ritorna tranquillo alla sua casa di riposo, potremo dire “Grazie!” senza dovercene, invece, vergognare.

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