28 settembre 2024

AL PRETE BISOGNA DIRE SEMPRE LA VERITA'

 Ai tempi della scuola, dal terzo anno delle superiori e fino al diploma, il professore di lettere era solito ripeterci a mo' di mantra: al medico, all'avvocato, al prete e al professore, bisogna dire sempre la verità.

Sono quattro figure fondamentali nella vita di ognuno di noi. Se il medico non viene messo a conoscenza di tutti i sintomi, non ci può prescrivere la cura più adatta per farci guarire; se all'avvocato non si raccontano tutti i fatti e (soprattutto) i misfatti, non può difenderci davanti al giudice, che ci condannerà; se al professore non dici se hai capito o no la lezione, non te la può spiegare meglio e...ti boccia e resti sceccu

Ho lasciato per ultimo il prete, perché è il primo che mi è tornato in mente. D'altra parte, se gli ultimi saranno i primi, per la proprietà transitiva i primi saranno gli ultimi, come il Vangelo insegna.  Mi è tornato in mente, dicevo, ieri, partecipando alla visita del nostro Arcivescovo, Mons. Fortunato Morrone, a quel che rimane del glorioso Ospedale "Scillesi d'America".  Se al prete non confessiamo tutti i nostri peccati, diceva il mio insegnate, non ci potrà assolvere e resteremo colpevoli davanti a Dio.

Da quanto ho avuto modo di vedere direttamente, partecipando alla visita del capo della Chiesa reggina-bovese, a Sua Eccellenza Mons. Morrone non sono stati confessati tutti i peccati commessi nella malagestione della struttura sanitaria scillese. I responsabili dell'ASP, seppur "padroni di casa", hanno disertato l'evento da loro stessi autorizzato. Il difficile compito di rappresentarli è toccato a uno dei sanitari con maggior anzianità di servizio nel presidio sanitario scigghitanu, che abbiamo tutti ringraziato per la disponibilità.

Ad accompagnare Mons. Morrone c'erano il nostro Parroco, don Francesco Cuzzocrea -da sempre accanto alla comunità in lotta per il suo diritto alla salute- e il Vice Sindaco della Città Metropolitana, Carmelo Versace che, ahimè, molti dei presenti non conoscevano. Nota a margine: ciò è segno evidente che l'istituzione che rappresenta non è percepita dai cittadini dell'area metropolitana reggina nel modo in cui, invece, dovrebbe essere, considerato che la Città Metropolitana ha molteplici competenze nell'assicurare servizi a un vasto territorio -quello dell'ex Provincia di Reggio Calabria- popolato da 515.224 persone (dato di un anno fa).

Educazione vuole che, quando inviti qualcuno a casa tua, gli apri non solo il portone di casa, ma gli mostri anche tutte le stanze, fiero e contento di avere un tetto sopra la testa. E chi ti fa visita, vedendo quanto sei riuscito a realizzare, condivide la tua soddisfazione. Se c'è qualche stanza in disordine o con qualche problema, educazione vuole che gliela mostri lo stesso, perché magari nel vederla, il visitatore può darti idee o suggerimenti per sistemarla e farla tornare al pari del resto della casa. Se poi il visitatore è un amico, gli mostri anche il bagno di servizio più piccolo, quello dove di solito c'è il cestone ancora pieno di panni sporchi da lavare, ché non hai fatto in tempo di avviare la lavatrice.

Ora, ieri è stato sottolineato come la visita organizzata e consentita avesse tutti i crismi dell'ufficialità riconosciuta ai massimi rappresentanti istituzionali, siano essi di un'amministrazione dello Stato o di una confessione religiosa. Mons. Morrone e il Vice Sindaco Metropolitano Versace non sono venuti a Scilla come semplici conoscenti, ma da amici degli scillesi. E agli amici, i responsabili dell'ASP avrebbero dovuto consentire di visitare anche il vano con il cesto dei panni sporchi da lavare.

Come raccontano le cronache, così non è stato. L'Arcivescovo Metropolita e il Vice Sindaco Metropolitano si sono ritrovati a una porta sbarrata, quella che collega l'originario presidio ospedaliero alla parte più grande della struttura: sei piani di cemento, dichiarati inagibili oramai da due anni. Che, a vederli da fuori non fanno una buona impressione, ma dentro non mostrano una crepa manco nella tinteggiatura. Sono i nostri panni sporchi, virgogni 'i 'mmucciari pure a chi viene da amico.

I responsabili diranno: quella parte della struttura è inagibile, per questo la porta era chiusa. Beh, se fosse stato sempre così, nessuno avrebbe avuto da obiettare. Peccato, però, che si nega quello che è il segreto di Pulcinella: tutti lo sapevano ma nessuno lo poteva dire -almeno fino a ieri pomeriggio- che, in realtà, in questi due anni quella porta è stata aperta, ogni giorno, per assicurare qualche importante servizio sanitario in più a un'utenza di migliaia di persone. 

Confesso che sono amaramente contento di quanto accaduto. Sì, perché da ieri, il segreto-non-segreto lo possiamo dire tutti, perché la verità è stata detta davanti all'Arcivescovo, primo prete della diocesi.

E' probabile, direi certo, che questa verità disvelata non porti nulla di buono per nessuno. Tant'è. Viviamo per sottrazione e per quanto riguarda i servizi sanitari non si è trattato di una semplice sottrazione ma di una spoliazione, lenta ma continua ed inesorabile, posta in atto dai decisori politici con particolare accanimento nell'arco degli ultimi quattordici anni. 

Dal 2010 la salute dei calabresi è "prigioniera" di "carcerieri" spietati, come quelli dei peggiori servizi segreti al mondo, capaci di torture lente, fatte di privazioni via via sempre maggiori, che hanno il risultato di annientare anche gli animi più combattivi, le teste più dure, i cervelli più liberi.

Nella Striscia di Gaza, popolata da oltre due milioni di persone, prima dell'operazione terra chiana condotta da Israele c'erano ben 36 ospedali e ne restano solo 11, ridotti male, con poco più di 1,5 milioni di persone rimaste (le altre sono sfollate), In Calabria, dove siamo poco più di 1,8 milioni di abitanti, dal 2010 sono stati chiusi ben 18 ospedali e nella rete ospedaliera ce ne sono solo 14. Basta questo raffronto a mostrare in maniera impietosa il fallimentare risultato di una politica irrazionale che ha razionalizato l'irrazionalizzabile: il diritto alla salute. Il nostro territorio metropolitano è stato e continua a essere bombardato da decisioni irragionevoli, dimostratesi non meno dannose delle bombe su Gaza, che lo hanno privato anche delle strutture sanitarie più elementari e necessarie, come ha denunciato fino a ieri il Sindaco Metropolitano.

E' una verità amara, ma scomoda per tanti. Lo dimostra l'assenza dei massimi vertici dell'ASP: un'occasione sprecata, l'ennesima. Per loro. 

Era, invece, l'occasione giusta per illustrare a tutti quali passi si stanno facendo per dare a Scilla una struttura sanitaria nuova, degna di tale nome. Avrebbero potuto dirci a che punto è l'iter burocratico di un progetto promesso, presentato davanti ai Commissari Prefettizi, rimasto in parte senza fondi e perciò modificato, non è dato sapere in quali termini. 

Invece, hanno preferito evitare ancora una volta di dare risposte a una comunità che è arrabbiata, perché oltremodo stanca delle non-risposte. Hanno preferito evitare di mostrare la verità delle cose  anche al primo dei preti della diocesi Reggio-Bova. Hanno posto in atto, ancora una volta, una condotta poco educata ed irrispettosa, che li rende colpevoli agli occhi di una comunità intera e, per chi crede, anche davanti a Dio.

20 settembre 2024

L'ARTE DEL NON TACERE

Caru Petruzzu,

è passato un anno da quando, commossi e attoniti, ti abbiamo salutato.

Scilla era piena, come accade solo nei giorni della festa di San Rocco. Basta solo questo dato oggettivo a dare dimostrazione dell'affetto di cui sei stato capace di circondarti, ma soprattutto è stato il riconoscimento di un'intera comunità a un giovane uomo che con le sue capacità umane e professionali, è stato capace di tratteggiarne i pregi e i difetti, le cose buone e le cose tinte, l'entusiasmo e l'avvilimento, la voglia di fare e l'apatia, la lena e l'accidia.

Nel rivedere le tue foto nelle immagini che ti hanno dedicato i tuoi colleghi della TGR Calabria, non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa avresti annotato sui tuoi taccuini o su un pezzo di carta qualsiasi, sui quali avresti colto l'attimo -proprio come un attento fotografo, osservatore di ciò che lo circonda- lasciandovi impresso lo spunto per le tue acute e taglienti riflessioni.

Cosa avresti detto nel continuare a vivere l'oramai cronica inefficienza della sanità regionale, della quale hai denunciato non poche storture; cosa avresti scritto della scandalosa chiusura da oramai due anni di gran parte della struttura sanitaria che per noi scillesi è e rimane 'u 'Spitali, quello "Scillesi d'America" la cui strana storia amministrativa, che sotto la tua direzione era stata portata all'attenzione pubblica sulle colonne del piccolo mensile "Scilla", non è stata a tutt'oggi chiarita. Cosa avresti scritto e detto, nell'apprendere che da due anni l'ASP e la Regione da cui essa dipende, non riesce a dare una risposta sul destino di una struttura che era punto di riferimento nel fornire risposte alla legittima richiesta di diritto alla salute cui aspira questo territorio, che almeno sulle carte appartiene ancora alla Repubblica Italiana.

Mi chiedo quali altre magagne della macchina amministrativa degli enti che ci governano, dal livello regionale a quello cittadino, avresti fatto saltare fuori, continuando la tua opera di scoperchiatura di spesso malcelati altarini.

Non posso fare a meno di chiedermi cosa avresti pensato, scritto e detto della tua Scilla, che vedi bellissima dall'alto, i cui mali -visibili solo a chi la vive ogni giorno- conoscevi nel dettaglio.

Cosa avresti detto, dell'attuale situazione amministrativa, delle buone intenzioni che si perdono per strada, vittime delle porte in faccia e, peggio, dell'applicazione senza pari dell'arte del rimando nonché del quotidiano esercizio dell'arte del non decidere, con l'unico risultato di lasciare i cittadini senza risposte.

Posso solo immaginare le tue risate amare, nel vedere file di persone in attesa di ricevere una risposta. Risate, sì, perché avresti visto proprio là davanti, sutt' all'arbiru ra scienza, il formarsi di gruppetti più o meno evidenti di persone, di rigghiocculi, nei quali magicamente si trovano le soluzioni più disparate ai tanti problemi che, invece, oltre quei quattro gradini e quelle quattro mura della casa comunale, appaiono irrisolvibili.

La risposta a queste mie domande, alla mancanza di risposte sofferte dai cittadini, so essere una sola: non avresti taciuto.

E' questa l'eredità più preziosa che lasci a noi tutti, dalla tua famiglia agli amici, fino a coloro che magari hanno avuto modo di incontrarti solo per caso.

Nel ricordarti, ti prometto che davanti a tutto questo, eserciterò l'arte del non tacere, che è poi esercizio di umana dignità. Continuerò a indignarmi, a parlare pubblicamente e in ogni modo ed occasione in cui ne avrò la possibilità. Te lo devo, amico mio. Ciao, Petruzzu.

18 agosto 2024

ISTANTANEE DALLA FESTA DI SAN ROCCO -2° PARTE

 E' Sant'à Rroccu, ovvero la domenica di San Rocco, quella che tutti gli scillesi aspettano da un anno. 

L'aria è un po' rinfrescata anche se l'umidità resta. Oramai è la nostra compagna di viaggio per questa estate.

In mattinata, la messa solenne con la consegna del cero votivo da parte della Commissione Straordinaria, la presenza di tutte le autorità militari, la banda che intona le marce classiche della festa, in segno di saluto.

Il pomeriggio, in piazza sono già pronti i fuochi per il Trionfino. Nella messa che precede la processione, vengono offerte in dono, in memoria di due giovani portatori deceduti nel corso dell'anno, le nuove stanghe per mezzo delle quali le spalle dei portatori condurranno la vara di San Rocco per le vie del quartiere San Giorgio. Sono più lunghe rispetto a quelle utilizzate ieri per le vie di Chianalea e Marina Grande e consentono la presenza di quattro portatori in più, con conseguente migliore ripartizione del peso e minore fatica per i portatori. Vengono letti i nomi di coloro che porteranno il Santo di corsa sotto il fuoco del Trionfino.

La processione si snoda lentamente per le vie del quartiere: si sale da Via Umberto I, poi Via Matteotti e quindi la parte alta di Via Roma, per giungere davanti alla Comunità alloggio "Padre Gaetano Catanoso" -già Casa del fanciullo.

Poche decine di metri e pochi minuti dopo, San Rocco giunge davanti a quel che rimane dell'ex Ospedale "Scillesi d'America", plastico esempio di malasanità calabra, mentre la banda intona uno dei miei pezzi preferiti, dal titolo "Venditori di fumo". Nulla accada per caso…

Lungo il percorso, piccoli inconvenienti tecnici agli strumenti dei musicanti vengono risolti al volo, con l'aiuto di un tronco d'albero, con abilità, destrezza ed estrema praticità.

Tra i portatori si controllano le presenze su una scheda appositamente redatta ed aggiornata. Sono un'ottantina, forse un centinaio, compresi gli ultrasessantenni che per devozione fanno qualche breve tratto. Ma solo chi ha almeno dieci anni di "anzianità di servizio" può 'mbuttari nella corsa del Trionfino.

La processione percorre la strada della mia infanzia, lì dove un tempo c'erano solo giardini con piante di agrumi e orti irrigati a forza di gebbie e camini per l'acqua. Rivedo aperti tanti portoni che per il resto dell'anno restano malinconicamente chiusi. Per il passaggio di San Rocco le strade paiono riprendere vita.

Guardo i volti delle persone davanti alle case: i loro volti sono radiosi, i loro occhi tutti diretti a guardare gli occhi magnetici di quel giovane pellegrino, rappresentato nell'atto di offrire a Dio le sue sofferenze e con esse quelle di chiunque sia sotto la sua speciale e paterna protezione.

Per lunghi tratti guardo da dietro la nostra meravigliosa statua: il mantello del pellegrino sembra muoversi, gonfio di vento, quel vento della fede che lo ha spinto fino alla Gloria di Dio.

Si sale da Via Parco verso il quarteri 'ndiginu, imbandierato a festa, pur se i portatori sono costretti a percorrere qualche tratto trasportando la vara a mano invece che sulle spalle, perché i fili delle bandierine che vanno da una parte all'altra della strada, sono troppo bassi.

Si giunge quindi a' Cresiola e da lì, dopo una breve sosta si scende verso la piazza da Via Nucarella, ammirando il panorama di Chianalea e l'area del molo del porto, sul quale sono già installati i fuochi per lo spettacolo pirotecnico di mezzanotte, che chiuderà la festa.

Si va verso la piazza, che è già piena di gente. Tutti aspettano il Trionfino. Prima, però, l'ultima sosta è alla Casa Protetta “Casa della Carità”, struttura sanitaria che, contrariamente a quella dell'ex "Scillesi d'America" divenuta pubblica, è vanto di Scilla per serietà ed efficienza nell'assistenza agli anziani non autosufficienti.

Tra loro anche Mons. Domenico Marturano, per tutti gli scillesi semplicemente Don Mimmo, parroco di Scilla per vent'anni, la cui instancabile opera a servizio di tutta la comunità è ancora oggi sotto gli occhi di noi tutti. Lo salutiamo con un affettuoso applauso, poi Don Mimmo, pur con voce flebile e provata dalla sofferenza che sta vivendo, rivolge la sua preghiera a San Rocco, il Santo al quale ha dedicato tanta parte della sua missione pastorale. L'emozione è inevitabile.

L'arrivo in piazza, il lento avanzare verso l'estremità nord-ovest di questo balcone naturale sullo Stretto, punto dal quale prenderà il via la corsa del Trionfino. Un cordone di agenti di polizia e carabinieri -tra di loro un giovanissimo allievo maresciallo al primo anno, la cui mostrina con stampate le lettere "I AM" a qualcuno dei presenti suona curiosamente d'inglese. 

Gli ultimi controlli da parte delle autorità di pubblica sicurezza (rassicurati comunque dall'esperienza di noi stessi 'ndigini scigghitani che il Trionfino ce l'abbiamo nel sangue), qualche tradizionale foto-ricordo tra portatori, Agesci, Masci e qualche infiltrato, e poi si è finalmente pronti per l'evento tanto atteso.

Partono i mortaretti che illuminano con la loro pioggia il tragitto che percorrerà la statua, quindi è la volta ri roteddhi (le girandole, per gli italici). San Rocco parte, inizia la sua corsa, che mi appare più lenta del solito. In tanti, infatti, immortalano la corsa tramite i telefonini. Tra il pubblico, in pochi applaudono, la maggioranza è intenta a filmare, stringendo megaschermi a due mani. Questa cosa mi mette un po' di tristezza.

A guidare la corsa, accompagnato ai lati dal maresciallo e dalla commissaria prefettizia, il nostro parroco, Don Francesco Cuzzocrea, al suo ultimo Trionfino da arciprete di Scilla poiché già destinato al trasferimento in un'altra parrocchia.

A sopperire al quasi-silenzio innaturale della folla, ci pensano i fuochi d'artificio. Sono quasi dieci minuti, belli, intensi, potenti. L'ultimo minuto l'ho vissuto a bocca aperta, sospeso in un mondo fatto solo di fuoco, luce e rumore assordante. 

Si rientra in chiesa, seppur a fatica scalo posizioni, fino a raggiungere la zona dell'altare. L'emozione sale. Don Francesco ringrazia tutti, allargando le braccia come a volervi racchiudere l'intera comunità scillese, che lascia dopo sedici anni. Saluta e abbraccia, prima collettivamente e poi uno per uno, i portatori. E' difficile trattenere le lacrime.

Esco, riprendo un po' d'aria, sono ancora stordito. Mentre i fuochisti stanno completando lo smontaggio delle attrezzature utilizzate per il Trionfino, faccio un salto alla bancarella: ciciri, nucilla e iessi, il segno della festa, da portare a casa.

17 agosto 2024

ISTANTANEE DALLA FESTA DI SAN ROCCO -1° PARTE

 Il caldo umido ma senza sole. La piazza meno affollata del solito all'uscita della processione. I saluti tra amici, conoscenti e parenti. I «…'Rrivaia aieri sira…», giusto in tempo per la festa, non si può mancare. I bambini sulle spalle dei loro padri o dei loro nonni. Sono immagini che si ripetono ogni anno, ma sono ogni anno diverse. 

Le vie strette di Chianalea, che anche poche persone sembrano essere una lunga moltitudine. La statua che sfiora le case, lambisce finestre e porte. San Rocco, il Santo Pellegrino della carità, che porta conforto e sollievo a chi soffre; San Rocco, l'amico che passa a trovarti, puntuale, viaggiando leggero sulle spalle dei portatori, pur gravato delle richieste d'intercessione al Signore da parte di tutti gli scillesi.

 I volti delle tante persone, che vedi lì, sempre allo stesso posto ogni anno, in attesa del passaggio del loro Santo. Li vedo cambiati, i capelli sempre più bianchi o sempre più radi, ma sempre trepidanti nell'attesa di incontrare San Rocco, anche se solo per pochi attimi.

Le donne con le 'ntrocce, presenza imprescindibile nella processione di San Rocco. Rappresentano la luce del Signore che guida i passi del Santo Pellegrino.

Il nostro Parroco, don Francesco, che i miei occhi vedono avere la gioia di un bambino. Come un esperto regista, guida la preghiera, gestisce gli interventi musicali della banda, coordina la coreografia al ritorno in piazza. 

I portatori, tra i quali mi intrufolo, captando gli umori, le fatiche, le risate, il sacrificio, che sono quelli di una comunità intera che si affida tutta al suo Santo Patrono. E' incredibile, ogni volta, assistere alla loro abilità nel percorrere le stradine strette e tortuose di Chianalea. Gli ultimi cento metri di Via Grotte, prima di arrivare al porto, sono un continuo 

"Fermi! A terra! A mano! Fermi! A Terra! A spalla!" 

Sembra quasi un ritornello, frutto però di tanta cura e attenzione. Alla fine di Via Grotte, all'arrivo al porto, un urlo liberatorio sale verso il cielo: Viva San Rocco!

Gli amici, con i quali lungo il percorso condivido aneddoti e curiosità sulla vita esemplare di Rocco Della Croce, per noi scigghitani San'tà Rroccu.

La salita, a passo di marcia, da Marina Grande verso la piazza.

Il giro nel rione Bastia, tra gli ambulanti appena arrivati che non hanno ancora fatto in tempo a piazzare i loro negozi su ruote. Lo stupore dei turisti davanti a una statua che sembra viva, tanto che ogni volta che la si guarda si prova un'emozione difficilmente spiegabile a parole.

Il rientro in chiesa con il canto del Gloria a San Rocco, sempre emozionante, nel ricordo di chi è sempre stato accanto a San Rocco e oggi non c'è più. Non lo è fisicamente, ma lo è nei pensieri, ogni giorno, soprattutto in questi due giorni.

Infine, la bellissima preghiera degli scillesi al loro Santo Patrono:

Oh San Rocco,

A Te che fin da bambino rifiutasti il bene materiale e il prestigio sociale per farti testimone dell’Amore di Dio verso gli ultimi, facendoti Ultimo Tu stesso, si rivolge da lunghi secoli la pietà commossa dei nostri padri.

Nei boschi d’Aspromonte come nelle traversate dei grandi commerci fra il Tirreno e l’Adriatico, sempre a Te ricorse il pensiero, ora quieto ora crucciato ma sempre grato, di ogni scillese; proprio dalla rotta di Venezia ci giunsero le reliquie e gli ornamenti che rendono ancor più speciale il nostro culto e più preziosa la Tua dimora terrena.

Quando la peste incrudeliva Reggio e Messina, Tu fosti il nostro Scudo e da allora non si contano i benefici ottenuti mediante la Tua intercessione!

Aiutaci, o Santo Patrono, a continuare a meritare la Tua amicizia per non allontanarci da quell’imitazione dell’Amore e della paziente sopportazione della Croce che ebbe in Te esemplare profeta.

Accetta le nostre preghiere e il rinnovarsi delle nostre tradizioni come un inno di lode a Dio e manifestazione della nostra gioia di esserGli fedeli.

Ottienici da Dio misericordioso il sincero rimorso e il perdono per tutte le nostre mancanze verso di Lui e verso i nostri fratelli più deboli e indifesi.

Ottienici forza al servizio del bene, gioia al servizio dell’unità, Amore in tutto. Per Cristo nostro Signore. 

Amen»

N.B.: il testo della Preghiera degli scillesi a San Rocco è tratto da <https://www.facebook.com/watch/?v=3413404562137905> 

15 agosto 2024

“NON MUOIO NEANCHE SE MI AMMAZZANO” – I DIVERSI GRADI DELLA LIBERTÀ


“Non muoio neanche se mi ammazzano” è frutto della scrupolosa ricerca condotta da Letizia Cuzzola su una delle vicende meno note della Seconda Guerra Mondiale, quella degli IMI –gli Internati Militari Italiani.

Furono definiti così dai tedeschi quei soldati che, dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, vennero catturati, rastrellati e deportati nei territori della Germania. Traditi dall'inadeguatezza dello Stato monarchico italiano che fino a quel momento avevano servito, da quel momento, non furono più uomini.

Erano dovuti passare ben dieci anni, prima che il mondo scoprisse il vero volto di Hitler, colui che il 20/7/1933, dopo soli quattro mesi dalle elezioni che lo portarono ad appropriarsi del potere assoluto, fece firmare per suo conto il Concordato tra la Santa Sede e il Reich germanico. A sottoscriverlo per il Vaticano fu il Cardinale Eugenio Pacelli –poi eletto Papa nel 1939 con il nome di Pio XII- e per la parte tedesca Franz Von Papen (un nome, un destino!?). Nel testo dell’accordo, che è riportato in appendice al libro, mi ha colpito l’art. 32,nel quale è scritto testualmente:

«A causa delle attuali particolari circostanze della Germania…»

Beh, mi è parso un modo diplomaticamente fin troppo elegante per dire: lo sappiamo che Hitler è un buono a nulla che farà solo danni, ma è meglio mettersi d’accordo lo stesso.

Torno al tema centrale del libro, i soldati italiani prigionieri dei tedeschi. Subirono anche loro le deportazioni nei carri-bestiame, sopravvissero nei campi di prigionia, si videro considerati come semplici Stücke, ovvero pezzi di una catena di montaggio. Vennero, infatti, utilizzati nelle fabbriche tedesche che rifornivano l’industria bellica germanica.

Fu un perverso meccanismo di disumanizzazione, nel quale quei soldati furono per prima cosa privati dei loro nomi, sostituiti da numeri, il loro codice a barre, come –nota l’autrice- «se fossero i nostri nomi l’ingombro.»

Durante la prigionia, tanti sono gli episodi narrati nei quali la disumanizzazione prende forma. Ne riporto un passaggio che fa comprendere tutto l’orrore di quella condizione:

«Accadde un giorno che in baracca alcuni degli altri internati si mettessero a urlare festanti che stava passando il carro del pane, addirittura un carro pieno; in realtà erano cadaveri accatastati dei poveri russi decimati come mosche. Chiedemmo ai compagni come fosse venuto loro in mente di ridere e scherzare sulla morte e sul pane, ci risposero che quelle ormai non erano più bocche da sfamare e che le loro razioni, forse, si sarebbero aggiunte alle nostre.»

In questo perverso ed orrorifico meccanismo, tuttavia, si intravede sempre la luce che spinge i nostri soldati prigionieri a sperare, sognare, intravedere e, infine, godere della libertà, il bene più prezioso.

E basta quella luce, seppur offuscata anche dalla lontananza dalle famiglie, dal dolore di sapere che non conosceranno mai i loro figli –nati e morti durante la guerra, con i padri al fronte, prigionieri- a farli sentire pur sempre uomini.

Respirava attimi di libertà il soldato compagno di prigionia del nonno dell’autrice, ogni volta che annotava su un libretto con un mozzicone di matita le brevi note di giornata che, a distanza di sette decenni sono state il diario che ha aiutato a ricomporre il puzzle di queste vicende sconosciute ai più. La scrittura è esercizio di libertà.

Quei prigionieri respiravano libertà ogni qualvolta scrivevano il loro NO! sul foglio con il quale i tedeschi cercavano di arruolarli in quello che avrebbe dovuto essere il nuovo esercito che Mussolini voleva ricostituire. Era un NO! «..Sufficientemente grande da sfregiarlo e renderlo inservibile….bastava quel rifiuto a concederci un respiro.»

Si sentirono uomini liberi nei rapporti con il loro datore di lavoro che, nonostante le finalità belliche della produzione- cercò di instaurare relazioni umane che fossero il più vicino possibile alla normalità.

Respirarono e gustarono di nuovo il sapore della libertà, quando dopo essere stati liberati dalla prigionia, assaggiarono per la prima volta le gomme da masticare americane, offerte loro dai liberatori. Così «…la libertà aveva il sapore della menta.»

Riacquistarono la libertà, ritrovando in quella terra così lontana dalla loro Patria, dalle loro famiglie, uomini con le stesse loro radici:

«Ogni soldato americano che incontravamo apriva il suo zaino e ci regalava qualcosa…la maggior parte di loro aveva origini italiane, erano figli e nipoti di emigrati soprattutto dalla Calabria e dalla Sicilia…lontani da casa avevano la possibilità di poter dire qualche parola nella lingua dei loro padri e dei nonni, erano ancora più soddisfatti di aver liberato una parte del loro sangue.»

La ritrovata umanità dopo l’incontro con quei soldati, diede poi ai prigionieri la forza di tornare a casa, solo dopo, però, aver dovuto affrontare un altro lungo viaggio.

Ecco, la lettura di questo libro lascia la consapevolezza che ogni essere umano che opera con l’intento di sopraffare gli altri per mezzo del male anche più tremendo e disumano, non potrà mai soffocare del tutto il desiderio di libertà di chi quel male subisce.

Ci insegna e ci ricorda di apprezzare sempre quello che abbiamo, per quanto poco ci possa sembrare.

Ci conferma il dovere dell'ammirazione totale per una generazione, quella dei nostri nonni, per la forza che hanno avuto nel rialzarsi dopo essere caduti vittime di sopraffazioni, tradimenti e lutti provocati da un regime infausto. Sono da ringraziare per la capacità che hanno avuto di sopportare, di portarsi tutto dentro, raccontando poco o nulla degli orrori che avevano vissuto. Oggi sappiamo che ciascuno di coloro che ha combattuto, che è stato prigioniero, ha certamente sofferto di quella che i medici chiamano PTSD - Disturbo da stress post-traumatico. Ebbene, sono stati talmente forti e senza l'aiuto di nessun medico, da non farci accorgere di niente e farci vivere tempi di libertà e felicità come mai si erano visti prima nella storia d'Europa.

Il dolore, patito sotto diverse forme, lo hanno saputo avvolgere nella loro dignità ritrovata, lo hanno serbato nelle loro menti, dietro il loro sguardo profondo, severo ma buono, che vediamo ancora oggi nei loro ritratti –come quello che fa da copertina al libro- che teniamo in casa, in segno di affettuoso perenne ricordo e riconoscenza. 

08 giugno 2024

ELEZIONI EUROPEE: A CACCIA DELL'ULTIMO VOTO TRA FALSE CANTANTI E FRUTTIVENDOLE

 Un mese fa, alla presentazione delle liste per le elezioni europee che si svolgeranno in questo weekend, è venuta fuori la genialata.

Per votare la nostra (per me è ancora una donna) Presidente del Consiglio Meloni sarà sufficiente scrivere sulla scheda soltanto "Giorgia", perché nelle liste elettorali la onnipresente presidente del Consiglio dei Ministri si è registrata come Meloni Giorgia, detta Giorgia.

In passato, i casi più famosi furono quelli di Giacinto Pannella detto Marco e di Domenico Minniti, detto Marco. La precisazione era d'obbligo poiché i due erano conosciuti con il nome di Marco, pur avendo un nome diverso all'anagrafe.

Anche a Scilla ci sono diverse persone che non vengono chiamate con il loro nome ma con il nome del loro padre -spesso perché deceduto quando loro erano in tenera età.

Ora, se putacaso mi venisse mai la gana di candidarmi, il mio nome sulla lista sarebbe Picone Francesco Rocco detto Francesco, perché moltissimi mi conoscono solo con il primo nome di battesimo e pochissimi sanno che ho due nomi. Perciò, la precisazione sarebbe perfettamente logica.

Ma se tu ti chiami Giorgia Meloni, non c'è nessun motivo logicamente spiegabile a un soggetto dotato di normale intelletto, per cui ci sia la necessità di precisare il "detta Giorgia". Ti chiamassero Giorgina o Giorgiuzza, allora sì che dovresti precisare "detta Giorgina" o "detta Giorgiuzza", a tipu Gigino e Gigetto.

Ma....la verità viene sempre dopo il ma, la logica è una cosa, la politica è un'altra: lì, tutto è possibile, per qualche voto in più. Senza vergogna.

E così, oggi e domani, troveremo sulle schede il "detta Giorgia". Ora, pensavo una cosa: non è che molti la confonderanno con la cantante e, siccome è brava e piace a molti -la cantante, intendo- in tanti le daranno il voto pensando che sia quella che ha vinto Sanremo nel 1995?

Forse, per evitare omonimie ingannevoli sarebbe stato meglio usare il sostantivo con il quale la stessa Presidente del Consiglio si è autodefinita presentandosi al Governatore campano, l'ineffabile Vincenzo De Luca. In quella occasione, poche settimane fa, Giorgia-Giorgina-Giorgiuzza ebbe il (per lei sola) simpatico ardire di autodefinirsi "la stronza della Meloni". 

Ecco, credo che siccome a chiunque piace sentirsi chiamare per come effettivamente si sente, sarebbe stato meglio se sulla scheda invece che "detta Giorgia" ci fosse stampato "Meloni Giorgia detta La Stronza". Forse hanno evitato perché avrebbe saputo molto di romanaccio boccaccesco -pur essendo il termine "stronzo", etimo di origine longobarda (poteva essere altrimenti?!)- e trattandosi di elezioni europee, al di là delle Alpi non tutti avrebbero afferrato l'inaspettata autoironia della nostra -ahimè!- Presidente del Consiglio. 

Sono certo, però, che in molti avrebbero messo il segno di croce su "La Stronza", solo per togliersi lo sfizio di aiutare Giorgia-Giorgina-Giorgiuzza a comprendere che non è solo un'autodefinizione ma, in effetti, lo scrivo con tutto il dovuto rispetto, è il modo in cui Ella, Sig.ra Presidente del Consiglio, viene percepita da gran parte della popolazione italica (avente e non avente diritto di voto).

Ah, un'altra cosa ho pensato. Nel giorno che precedette lo scorso turno elettorale che poi la portò a capitanare l'attuale Governo, giorno che avrebbe dovuto essere di silenzio per riflettere,  Giorgia-Giorgina-Giorgiuzza si fece fotografare con in mano due meloni -di quelli buoni col prosciutto crudo, per intenderci. Oggi, sui social, è spuntata un'altra foto, nella quale  Giorgia-Giorgina-Giorgiuzza è a fianco di un banco di ciliegie, qualità "Giorgia". Ecco, un'alternativa a "detta Giorgia" che fosse meno volgare de "La Stronza", avrebbe potuto essere "detta La Fruttarola d'a Garbatella", Probabilmente lo userà per le prossime elezioni politiche.

Intanto, preferisco persone che la precisazione nel nome ce l'hanno per motivi seri, come per esempio Domenico Lucano, detto Mimmo. Mi suona logico, ci riconosco la storia personale di un uomo che vive con un'idea precisa della società e mi viene facile guardare da quella parte delle liste, anche perché da mancino naturale -ra testa e' peri- l'altra metà della scheda elettorale non l'ho mai nemmeno guardata. 

A voi che avete avuto la pacenzia di leggere fin qui, comunque la pensiate, auguri di buon voto.




01 aprile 2024

SOLDATINI IN UNA SCACCHIERA

 Netanyahu sta ripetendo a Gaza ciò che Sharon aveva fatto con l'OLP. All'epoca, però, il popolo palestinese, i giovani palestinesi reagirono tutti insieme e fu Intifada, ovvero Rivolta.
Ne parlò il poeta palestinese Mahmud Darwish in un colloquio con la traduttrice e editrice israeliana Helit Yeshurun, tenutosi ad Amman nel febbraio del 1996 e che trovate per intero nel libro "Con la lingua dell'altro".

Ne riporto qualche stralcio.

 
"Io sono il risultato di tutte le culture che sono passate su questa terra: quella greca, romana, persiana, ebraica, ottomana. Tutte contribuiscono a fare l'essenza della mia lingua. Ogni cultura forte è passata da qui e ha lasciato qualcosa. Io sono figlio di tutti questi padri ma appartengo a una sola madre. Questo fa di mia madre una prostituta? Mia madre è questa terra che ha accolto tutti e che di tutti è stata testimone e vittima. Sono figlio anche della cultura ebraica che era in Palestina... Però la tensione politica ci impone di credere che se Israele esiste i palestinesi devono sparire, e se i palestinesi sono qui, è Israele a dover scomparire. È a causa di questa tensione che non abbiamo ancora accettato di essere figli di una stessa condizione, ed è per tale motivo che esiste una "competizione" a chi sia più vittima."
"È con la forza del fucile che avete vinto, ed è con la forza delle pietre che anche i palestinesi sono riusciti ad affermare la loro presenza."
"Abbiamo la sfortuna di avere come nemico Israele, che ha così tanti sostenitori nel mondo, e abbiamo la fortuna di avere come nemico Israele perché gli ebrei sono il centro del mondo. Ci avete donato sconfitta, debolezza e popolarità."
"Aspirate al ruolo di vittima. Adorate essere vittime. Siete gelosi di chiunque, a livello mondiale, sia riconosciuto come tale. Credete che lo status di vittima sia un monopolio ebraico...Tra noi c'è una competizione a chi è più vittima."
"Noi siamo i due popoli più stupidi del mondo. Siamo così piccoli, bistrattati, come due "Giuseppe" che odiano i loro stessi fratelli. L'ideologia dello Stato e delle carte di identità è ciò che ha creato il conflitto.
Siamo dei popoli nati per essere soggetti poetici. Giunti al gioco politico, abbiamo iniziato a litigare. Quando faremo pace, rideremo di tutto questo, ma fino ad allora c'è una questione che mi preoccupa: noi, siamo veramente noi? Siamo liberi di fare guerre indipendenti e di siglare una pace indipendente, o siamo soldatini in una scacchiera?"
"... Proviamo invece a essere normali, è così necessario, per ognuno di noi, andare oltre alle varie storie e ai miti, altrimenti questo luogo finirà per inghiottirci."

Lo perquisirono - trovarono un cuore
perquisirono il cuore - trovarono un luogo
perquisirono la sua voce -trovarono un dolore
perquisirono il dolore - trovarono un esilio
perquisirono l'esilio - trovarono se stessi.
[da "La terra",
Mahmud Darwish, 1976]