30 dicembre 2015

IL CANTO DEGLI SCILLESI

musicanero1_thumb1Scilla è un paese strano, dalla memoria corta.
E’ risaputo, tra noi scigghitani, che Scilla è ‘u paisi ri furisteri. La definizione non si riferisce certo agli abitanti, chi sunnu ‘ndigini scigghitani, ma alla loro propensione naturale non solo ad accogliere il forestiero (la qualcosa è puru bona ‘rucazioni), ma a ritenerlo, a prescindere, sempre più colto, più preparato, insomma, cchiù megghiu di qualunque altro essere umano nelle cui vene scorre sangu ru Scigghiu.
Al riguardo, ristau nta storia una famosa frase pronunciata da uno zio della mia nonna materna, Rocco Morabito, alias ‘u Zzì Rroccu ‘u Trunnisi [zio Rocco detto “il
tornese”]. Esaminando la realtà scillese del tempo (siamo a cavallo tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 dello scorso millennio), ‘u Zzì Rroccu ebbe infatti ad affermare:
 
 
A Scilla? Tutti furisteri!
‘U Sindicu? Furisteri!
‘U speziali? Furisteri!
‘U previti? Furisteri!
Sant’à Rroccu? Ra Francia!

 

E la storia si è puntualmente ripetuta ancora una volta. Mi riferisco, in particolare, alla vicenda nota al volgo nostrano come l’Inno di Scilla, che si può ascoltare in questi giorni (anche se un po' male, a dire il vero) dagli altoparlanti che adornano i lampioni dell'isola pedonale in piazza San Rocco.
C'è da fare subito una precisazione. Si parla tanto, infatti del brano, dal titolo “
Scilla”, scritto e musicato dal prof. avv. Antonio Albanese (che non ha niente a che vedere con il comico, è giusto precisarlo) e interpretato da Iskra Menarini, voce ai più nota per la sua collaborazione artistica con il compianto Lucio Dalla. Il brano è stato presentato ufficialmente nei giorni scorsi in una cerimonia pubblica al castello Ruffo, ed è stato definito “Canzone ufficiale di Scilla” e non inno (com’è invece stato veicolato dalla vulgata scigghitana), il che fa una certa differenza.
Il termine “canzone ufficiale” rimanda, per semplice associazione del mio cervello, più alle sponsorizzazioni, allo “sponsor ufficiale di....” che tante volte ci bombarda da radio, giornali e tv. E' un'espressione che sa tanto di jingle, da utilizzare esclusivamente a scopo pubblicitario, un po' come l'arcinoto “The champiooonsss!...” della musichetta che accompagna ogni partita della Champions League di calcio.
La parola “inno”,
per stessa definizione data dalla lingua italiana è , deve essere, qualcosa in più di una canzone o, addirittura, di un jingle pubblicitario. Insomma, perché una canzone possa essere definita “inno”, occorre la presenza di determinati requisiti. L’esempio per noi più noto è l’inno di Mameli, il cui titolo ufficiale è “Il Canto degli Italiani”, inno nazionale “di fatto” della nostra Repubblica italica, sancito implicitamente dalla legge nº 222/2012, la quale ne prescrive l'insegnamento nelle scuole insieme agli altri simboli patri italiani.
Ora, fermo restando che dal punto di vista artistico la nuova composizione è certamente apprezzabile, in particolare nel testo (la musica, almeno per i miei gusti, non è il massimo dell'esaltazione) che può essere considerato un inno, quello che ha lasciato attoniti i più –anche chi scrive- è stato il fatto che questa “elezione” a “canzone ufficiale di Scilla” sia stata fatta dagli eletti ad amministrare attualmente il nostro bel paesello senza il dovuto coinvolgimento della cittadinanza.
Nasce dunque legittima la domanda: in base a quali criteri è stata scelta questa canzone e non altre, scritte da altri autori, anche scillesi?
Di canzoni, poesie e componimenti teatrali su Scilla la storia ne ha registrati diversi. Sono, tutti, espressioni d'amore verso un luogo unico al mondo (non lo scrivo per vanto scigghitano, ma per oggettivo riconoscimento di quanto hanno conosciuto lo Scigghio).
In questi giorni, in particolare su facebook e sui giornali, si sono registrati alcuni interventi di autori e poeti scillesi che negli anni passati hanno espresso il loro attaccamento viscerale a Scilla attraverso le loro opere. Ricordo qui, la Sig.ra Giuseppina Melidoni -artista scillese, pluripremiata in diverse manifestazioni culturali- e il suo “Inno a Scilla”, la quale in una dichiarazione a “Scilla Pagina ufficiale”, su facebook, ha precisato: "Non vorrei essere presuntuosa però la canzone "Inno a Scilla" (questo è il titolo) l'ho scritta circa 25 anni fa, poi musicata e registrata alla SIAE. Allegra e vivace come siamo noi scillesi. questo è il testo. Mi auguro che un giorno verrà acclamata dagli scillesi.


INNO A SCILLA [di Giuseppina Melidoni]
Oh quanta gioia ho dentro nel mio cuore
e canto sempre sempre con amore.
Io sono di un paese bello
è Scilla con il suo castello
E tutti amano il patrono San Rocco
e la sua festa si svolge in agosto!
Tutto il paese in allegria
Tutti con gioia la festa si farà
Lallallala lallallala…
Ma come è bello stare in compagnia
con questa spiaggia, mare, azzurro, viola!
Noi con Scilla e la sua storia
Tutti virtuosi allegri e belli.
Oh quanti amori sbocciano nei cuori
La Chianalea suggestiva splende!
La gente cammina e non si arrende
in allegria il paese brillerà
Lallallala lallallala…


Il-Cantore-di-Scilla_thumbMoneta-scillesi-dAmerica_thumb4

Un altro artista -che si è rivolto direttamente alla redazione del Malasito- è il poeta scillese Pino Rodà, scrittore, autore e compositore di musical e di opere teatrali nonché vincitore del 1° premio nel primo concorso di poesia a Scilla e di numerosi altri premi. Tra le sue numerose opere, oltre al libro “Il cantore di Scilla” -un viaggio “tra i labirinti dei suggestivi ricordi, delle sensazioni, delle emozioni che suscita l'antico borgo marinaro” [dalla presentazione del libro, del prof. Enzo Zorlea]- vi è anche il musical “Scilla, amore mio!”, ispirato alla storia d'amore tra Glauco e Scilla, con i Bronzi di Riace che, come statue, hanno una parte importante nella trama. Qui di seguito, pubblichiamo il testo della canzone che dà il titolo al musical, scritta nel 1970:

SCILLA-AMORE-MIO_thumb1
Questa canzone, poco più di un decennio fa, ha ricevuto –tra gli altri- un importante riconoscimento anche dal Comune di Scilla!
Credo bastino questi due esempi contemporanei, ma potrei citare poetesse come le compiante
Alba Florio e Concettina Putortì e tanti altri.
Insomma, di inni a Scilla ne sono stati scritti diversi, prima del più recente, che è appunto quello scritto dal prof. Albanese. So bene (perché mi diletto a scrivere anch'io, ogni tanto) che un'opera, una poesia, anche la più semplice, è il frutto di un lavoro, di un'elaborazione interiore, che richiede tempo perché possano essere trasferite sulla carta le sensazioni e i sentimenti di chi scrive. Perciò, è fuor di dubbio che tutti, pur nelle naturali e variegate differenze espressive, meritano la dovuta considerazione.
Ma c'è un punto importante da sottolineare: ci possono essere, come ci sono, numerosi Inni a Scilla ma ci potrà essere un solo Inno di Scilla.
Non per fare polemica, ma solo per ricordarlo a me stesso: la scorsa primavera, durante la campagna elettorale, l’attuale Sindaco aveva ribadito in diversi incontri pubblici la sua volontà di coinvolgere la cittadinanza intera nelle scelte che la sua (allora eventuale) Amministrazione avrebbe intrapreso nel corso della sua attività. L’intento era certamente positivo, atteso che lo Statuto comunale prevede espressamente diverse forme di partecipazione dei cittadini (consultazioni, petizioni, referendum). Ma, si sa, ‘a pratica rumpi ‘a grammatica.
Che chi ha Scilla nel cuore, qualunque sia la sua provenienza, le dedichi una canzone, una poesia, un quadro, un’opera d’arte in genere, è sicuramente qualcosa degna di merito, di attenzione, riconoscenza e rispetto sia da parte di noi stessi scillesi che, in primo luogo, di chi ci rappresenta. Va da sé, però, che alcune scelte e/o decisioni non possono e non devono essere fatte o prese nel chiuso di una stanza o all’interno di comitati più o meno ristretti. La scelta di un inno–di qualcosa, cioè, in cui ciascuno degli scillesi dovrebbe potersi naturalmente identificare- è una di quelle decisioni da prendere dopo averne garantito la massima pubblicità e partecipazione da parte di tutti.
Dunque, questa vicenda, più che per fare inutili polemiche, può sicuramente servire da stimolo.
Sì, perché se nelle intenzioni dell'Amministrazione c'è anche quella di dotare Scilla di un proprio INNO UFFICIALE che la rappresenti in ogni genere di manifestazione e che ne diventi il simbolo (al pari del castello, della spiaggia delle sirene o di Chianalea), allora si può pensare a un concorso pubblico, un bando, aperto a tutti gli artisti -scillesi e non- che hanno dedicato o intendono dedicare una loro opera a Scilla; si può pensare a nominare a una giuria qualificata (costituita da scrittori e poeti, anche di rango nazionale o internazionale), che giudichi le opere partecipanti, proponendone poi due o tre all’approvazione degli scillesi per mezzo di un semplice referendum; l'ultimo atto, infine, sarebbe una delibera Consiglio Comunale che, ratificando la decisione presa dai cittadini scillesi, adotti l'opera prescelta come INNO UFFICIALE, come “Canto degli scillesi”.
Sarebbe sicuramente una maniera bella, simpatica, oltre che pienamente legittima dal punto di vista strettamente formale, per coinvolgere tutti i cittadini scillesi, fornendo loro un ulteriore elemento di riconoscimento ed identificazione culturale e di coesione sociale.
E' una proposta che rendiamo pubblica qui, con l'auspicio che possa concretizzarsi nell'anno che sta per arrivare.






























05 ottobre 2015

L’OSPEDALE DI SCILLA E IL PIANO DI RIENTRO: SCALA, CHI VINDI.

1443251157633.jpg--la_protesta__mala[1]Siamo giunti alle catene.

Non si sa per quale strana legge, in Italia -e in Calabria in particolare- per vedersi riconosciuto un sacrosanto diritto, ci si deve arrampicare sui tetti dei palazzi comunali, sulle torri, o ci si deve incatenare come gli schiavi. Probabilmente perché è quando si rende palese la propria condizione di schiavi, che chi sta dall’altra parte si crede più forte, onnipotente e, quindi, abbassa le difese.

Ebbene, all'ospedale “Scillesi d'America -mi ostino a chiamarlo e lo chiamerò sempre così!- i malati si sono dovuti incatenare per riaccendere le luci su una struttura che era già al buio, aund’aiva scuratu e non c’era bisognu mi Scura.

Il trasferimento del reparto di oncologia è -finora- l'ultimo atto di spoliazione consumatasi ai danni della struttura scillese.

Completa un'operazione “chirurgica” mirata, molto più precisa dei bombardamenti americani a Kunduz, in Afghanistan, ma altrettanto tragica.

A dire la verità, il trasferimento del reparto è dovuto al fatto che a Scilla, in virtù delle previsioni del Piano Sanitario, non è possibile mantenere i codici ospedalieri. Ciò non toglie, però, che contro lo “Scillesi d'America” vi sono stati una serie di atti illegittimi che hanno dell'incredibile.

Prima la Regione ha ammesso-con un proprio decreto- di non essere proprietaria dei terreni sui quali sorge la parte realizzata in ampliamento (sei piani!). Ciò non ha impedito, però, al Commissario ad acta Giuseppe Scopelliti di emanare una serie di decreti allucinanti. Il Piano Sanitario prevedeva la riconversione dello “Scillesi d’America”, perciò il decreto che ne ha disposto la chiusura  (emanato due giorni prima rispetto alla data in cui la riconversione doveva essere ultimata!) è doppiamente illegittimo. Ne consegue che tutti gli altri decreti successivi, che disponevano il trasferimento dei reparti -ivi compreso quello di oncologia- sono altrettanto illegittimi!

Per tornare agli ultimi avvenimenti, una Delibera del Direttore Generale f.f. Dr. Tripodi del 05 Dicembre 2014 -attenzione alle date!- su proposta del Direttore d'Area Dr. Domenico Calabrò, che ne dichiara la regolarità tecnica e amministrativa, dispone il trasferimento della Struttura Complessa di Recupero e Riabilitazione Funzionale ad indirizzo cardiorespiratorio di Scilla, presso l'ospedale di Melito Porto Salvo.

Se la motivazione tecnica è sempre quella -cioè a Scilla non sono utilizzabili i codici ospedalieri- il Decreto da cui essa discende -D.P.G.R. n° 106/2012- disponeva in maniera diversa: come a Melito, anche a Scilla erano stati assegnati 20 posti letto per la riabilitazione, con il codice ospedaliero 56!

Dunque, anche se potrebbe essere tecnicamente corretta (non sono un medico, quindi non posso esprimermi dal punto di vista tecnico), la Delibera era totalmente contraria alle disposizioni del Decreto che riordinava la rete ospedaliera, vigente al momento in cui essa è stata formulata!

Per tappare questa clamorosa “falla”, nell'ambito del Decreto del Commissario Ad Acta n° 9 del 2 Aprile 2015, con il quale è stato approvato il nuovo “Documento di riorganizzazione della rete ospedaliera, della rete dell'emergenza urgenza e delle reti tempo-dipendenti”, i 20 posti-letto per la riabilitazione che erano stati previsti a Scilla, scompaiono magicamente! Ma va? Che strano!

Nello stesso Documento di riorganizzazione, si afferma che il consumo di prestazioni (così lo definiscono, a scanso di facili ironie) è diminuito a 171 ricoveri per mille abitanti (nel 2008 era di 224), mentre la mobilità passiva (calabresi che vanno a curarsi fuori regione) del numero totale di ricoveri è aumentata da 15% a 19%.

L'obiettivo fissato dalla media nazionale, è di 160 ricoveri per mille abitanti, mentre quello “appropriato” per la Calabria (stando alla proiezione dei dati registrati nel periodo 2008/2012)sarebbe  di 145.

Con questo parametro, la popolazione normalmente gravitante attorno allo “Scillesi d'America” avrebbe diritto a usufruire di 20 posti-letto, che salgono a 28 se consideriamo l'affluenza da località turistica nel periodo estivo.

Quei 20/28 malati, invece, sono costretti a bivaccare nei corridoi dei Riuniti.

Il Documento fissa come “obiettivo di produzione appropriata da raggiungere” 240.000 ricoveri, per cui ne deriva che i calabresi dovrebbero essere 1.655.172.

Purtroppo per i ragionieri della Regione, invece, nel 2012 in Calabria nel 2013 eravamo 1.958.238. Significa che ci sono più di trecentomila calabresi (il 15,5%, sempre che la popolazione non diminuisca) che vengono automaticamente “invitati” ad andarsi a curare fuori, quasi a rendere cronica la migrazione anche per motivi di salute. Tra gli “emigranti”, la percentuale dei malati oncologici, in particolare, sale al 37%.

Nel nuovo Documento viene scritto: «...la mobilità è un'inevitabile libera scelta del cittadino, è pur vero che essa si manifesta sempre come distorsione di una domanda dettata dallo squilibrio nel rapporto tra domanda stessa, bisogni e offerta interna. Tra gli obiettivi di riduzione della mobilità passiva relativa alla cura dei tumori, bisognerà pertanto "ricostruire" il giusto rapporto tra le precedenti istanze anche modulando la quantità e/o qualità dell'offerta

In pratica, è esattamente l'opposto di ciò che sta accadendo nella realtà. Ecco perché non mi fido dei numeri di questo Piano di Rientro, non c'è da fidarsi.

Non mi fido, visto e considerato le illegittimità plurime che si sono registrate in questi ultimi cinque anni, sopra ricordate, a futura memoria.

Non mi fido di chi ha cancellato i numeri positivi che l'ospedale scillese aveva registrato fino al 2010.

Non mi fido di chi ha tecnicamente giustificato la “riconversione” dello “Scillesi d'America” a Casa della Salute, scrivendo nella relazione tecnica che non esistono elaborati grafici relativi alla struttura scillese e, pertanto, si è dovuto sobbarcare l'onere di andare a fare un rilievo completo. Non posso fidarmi, visto e considerato che con una semplice ricerca presso l'Archivio di Stato, mi sono stati fatti vedere tre faldoni pieni di documenti relativi ai lavori di ampliamento dell'ospedale scillese, completo di tutte le tavole: dalle fondazioni, fino ai particolari costruttivi degli infissi!!

Non mi fido di chi vuole attuare questa fantomatica riconversione spendendo milioni e milioni di euro, quando poi non potrà nemmeno essere autorizzato a fare i lavori perché non ha un titolo di proprietà. Sappiate fin d'ora che se dovesse succedere nelle condizioni attuali, sarebbe un'altra, l'ennesima illegittimità.

Nessun documento è riuscito a dimostrare che un medico costi di più a Scilla e di meno a Reggio; nessun documento ha dimostrato che un posto-letto a Scilla sia più dispendioso per le casse dell'Azienda Sanitaria, rispetto a una barella nel corridoio dei Riuniti. E se anche i costi diretti della barella sono inferiori a quelli dei posti-letto, che mi dite dei costi indiretti, sopportati dal malato -costretto in una condizione che di umano ha ben poco- e anche dai suoi familiari?! Qualcuno si è preso la briga di quantificarli? Credo proprio di no.

rifiuti-mercato-piazza-matteotti_thuHo come l'impressione che i numeri che ci sono stati proposti -dal 2010 fino a oggi- siano stati redatti solo per fare bella figura a Roma, al Ministero: ad ogni aggiornamento, abbassiamo i numeri, “vendiamo” un'immagine positiva della sanità calabrese, dimostriamo di aver saputo svolgere il compitino di ragioneria che è divenuto il Piano di Rientro. Insomma, un po' come al mercatino: scala, chi vindi.

Se diminuisci il prezzo della merce, avrai più domanda: più dimostri di saperci fare con i numeri, più ti daranno ragione e ti lasceranno fare. Così è avvenuto per Scopelliti, così sta avvenendo per Scura.

Ma come al mercatino, arriva un momento in cui puoi abbassare il prezzo quanto vuoi, ma la merce non la vendi, perché è divenuta di pessima qualità e non la vuole più nessuno. Mai sfidare l'intelligenza del cliente!

Ecco, con la sanità calabrese è avvenuta un po' la stessa cosa: ci si è ostinati a continuare ad abbassare il prezzo della sanità, finendo col vendere un prodotto sanitario di qualità pessima, perché -come accade per la frutta al mercatino- è venuto fuori tutto il marciume che in questi anni si era depositato sul fondo della cassetta. Un prodotto che non è più commestibile né tanto meno digeribile.

Questo Piano di Rientro è stato “calibrato” su un Piano Sanitario la cui impostazione risale al lontano 2007/2009 (il Presidente della Regione Calabria era Loiero). Già da allora, si prevedeva a Scilla la Casa della Salute, esattamente come oggi.

E' un Piano Sanitario marcio, oramai vecchio di quasi dieci anni, inattuale e inattuabile. E tale è il Piano di Rientro che ne è scaturito.

barelle-Riuniti_thumb1Nonostante i numeri che ci hanno fatto ingoiare, calpestando la dignità dei malati e, almeno per quel che riguarda l'ospedale di Scilla, attraverso atti la cui illegittimità è evidente, questo Piano di Rientro alla prova dei fatti si è dimostrato fallimentare perché non rispondente ai reali bisogni dei calabresi.

Non lo si fa dimostrare ai numeri perché i numeri “devono” dire il contrario. Lo dimostrano, ahimè, gli sfortunati “clienti” di questo prodotto sanitario: i malati oncologici che si curavano a Scilla; i malati in dialisi che, invece di poter utilizzare i posti per la dialisi promessi da Scopelliti e mai installati, sono costretti a fare a ping-pong tra le due rive dello Stretto; i tanti, troppi malati che si sono visti costretti a giacere sulle barelle nei corridoi dei Riuniti, invece di poter usufruire di un posto-letto a Scilla.

Reggio_calabria_mappa_urbana_metropoE' un Piano di Rientro che deve essere necessariamente rivisto e aggiornato tenendo conto che tra pochi mesi non muterà soltanto l’assetto istituzionale della nostra Provincia, ma muteranno i rapporti d'interazione sociale e, quindi, il rapporto che i cittadini avranno con tutte le strutture a servizio di questo nuovo agglomerato sociale, prime fra tutte quelle sanitarie. Non si avrà a che fare con singoli Comuni, bensì con un'area metropolitana che conterà più di 565.000 abitanti. I servizi sanitari dovranno quindi essere sì coordinati con il più ampio contesto regionale ma, allo stesso tempo, non potranno essere concentrati in un unico punto di quest'area così vasta e così densamente popolata, bensì distribuiti su tutta la sua estensione e con criteri tali da assicurare ai calabresi che ci vivono, quel diritto alla salute che da cinque anni a questa parte viene loro negato.

Non è un compito che potranno assolvere i ragionieri di Stato. No, è un compito essenzialmente politico, quella politica che finora è rimasta sorda ai tanti segnali provenienti dal territorio, alle proposte fatte e rimaste nei cassetti del Consiglio Regionale: il disegno di legge che prevedeva l’accorpamento funzionale di Scilla con i Riuniti è ancora lì, è necessario riprenderlo, rileggerlo e aggiornarlo alla luce del nuovo assetto sociale in cui ci apprestiamo a vivere.

E’ un compito primario, un dovere ineludibile, da assolvere con attenzione, oculatezza e rispetto, per il malato e per il cittadino di questo territorio, che del marciume visto finora ne hanno proprio abbastanza.

03 settembre 2015

AYLAN, GALIP E LA FORZA IMMORTALE DEI BAMBINI

17499-3ysvn_thumb4Era il 31 luglio scorso, quando in una casa di Nablus –in Cisgiordania- Alì Dawabsheh, un bimbo palestinese di 18 mesi morì bruciato nel sonno, a causa di un attentato ad opera di terroristi ebrei, che incendiarono la casa di una tranquilla famiglia palestinese. Qualche giorno dopo – il 4 Agosto, avevo scritto SETT'ANGILI FIGGHIOLI - Libera trasposizione di “Seven Spanish Angels” –una canzone di  Ray Charles & Willie Nelson, scritta da Troy Seals & Eddie Setser.

Nel riscriverla, ho pensato al pianto disperato della mamma di Alì e di tutte le mamme dei bimbi che, come Alì, sono andati in cielo perché creature troppo belle per restare qui in terra in posti terribili come alcuni paesi dell’Africa o in paesi dilaniati dalla guerra (come la Siria), dove si muore ancora per fame o come il Medio Oriente e la Palestina, insanguinata da un conflitto che dura da quasi 70 anni. Ho immaginato che ci siano in cielo sette angeli, bambini, che vanno a scegliere altri bimbi da portare in cielo a giocare con loro.

A distanza di meno di un mese, con i sette angeli e con Alì, in cielo di angeli ne son volati altri due: Aylan e Galip Kurdi, di tre e cinque anni. Son volati in cielo insieme alla loro mamma, il cui pianto dev’essere stato talmente forte da convincere Dio a farle accompagnare i suoi due piccoli. Per loro, dovrei scrivere un’altra strofa, ma

Le loro foto hanno fatto il giro del mondo in meno di 24 ore. Quella di Aylan, in particolare, è divenuta il manifesto dell’immane tragedia che da anni si consuma nelle acque del Mediterraneo. Scappavano da Kobane, città simbolo della resistenza siriana, sognando il Canada, terra che li ha rifiutati e che, purtroppo, non vedranno mai.

Eppure, in questi anni di guerra in Siria, di bambini ne sono morti a migliaia e c’è un sito intero che tiene la “contabilità” dell’ennesimo genocidio che si consuma impunemente; in Africa o in Palestina, altrettanti. Solo che non si sono visti, o meglio, non sono arrivati sulle prime pagine dei giornali. Poi è arrivata la foto del corpo di Aylan, disteso sulla spiaggia abbandonato, dopo che le onde del mare lo avevano cullato per l’ultima volta in un abbraccio mortale. E’ arrivata quella foto, scattata da Nilüfer Demir –fotografa turca dell’agenzia DHA. Nilüfer ha dichiarato di essere rimasta pietrificata davanti a quel corpicino rimasto immobile sulla spiaggia, ma che l’unica arma per urlare al mondo questo ennesimo episodio di una scandalosa tragedia umana era quella di aprire l’otturatore della macchina fotografica e immortalare –sì, proprio nel senso di rendere immortale!- il piccolo Aylan e, con lui, tutte le migliaia di disperati annegati nelle acque del Mediterraneo.

Due giorni prima della morte dei fratellini Kurdi, il 30 Agosto, su Facebook, una giovane mamma di Reggio Calabria scriveva sulla sua bacheca alcune riflessioni che, rilette oggi a cronaca ben nota, fanno riflettere ancora di più:

<<Ed eccoci tutti di ritorno dalle vacanze, milioni di foto sulla scheda sd, centinaia di post su facebook, baci, abbracci, sorrisi, paesaggi incantati, colazioni abbondanti, mare cristallino, spiagge assolate, giochi, tutto perfetto, ma non solo le vacanze, tutta l'estate è stata perfettamente "infiocchettata" in un grande imbroglio, e si, perché è questo che abbiamo fatto un po tutti con i nostri figli, li abbiamo illusi, per non generare in loro paure, incertezze o qualsivoglia irrazionale incapacità di gestire l'orrore al quale invece noi siamo stati costantemente sottoposti. L'orrore di quegli occhi privi di alcuna emozione, che ogni giorno ancora oggi ci guardano increduli di come possa essere diversa la vita da una sponda all'altra, l'orrore della morte gratuita in ogni luogo.
Sono stata brava, l'ho fatto per tre mesi, come un saltimbanco, evitando semafori,centri di accoglienza, radio, televisioni, post su facebook, banchine portuali,stazioni,ospedali,video su YouTube...ma quanto ancora sarò brava, fino a quando e a che prezzo riuscirò a preservare mio figlio dall'orrore, fino a dove dobbiamo spingerci prima che la legalità e la dignità trovino posto, prima che si smetta di depredare gli altri arricchendosi a dismisura senza ritegno, quanto ancora dovrò inventare prima che mio figlio non si scontri con la terribile realtà che fuori dalla sua stanza, dalla sua scuola, dalla sua palestra,dalla sua lezione privata, dai suoi sogni, dai suoi viaggi, dai suoi musei, c'è un mondo di merda???

E quando scoprirà che gli ho mentito, capirà? Fino a che punto i genitori di tutto il mondo, dovranno mentire e quando sarà il momento giusto per smettere, prima che sia troppo tardi, prima che i nostri figli non crescano illusi, quando il mondo smetterà di spettacolarizzare l'orrore? di fare affari, fingendosi indignato? quando saremo davvero "tutti" al sicuro?.....ogni domanda resta sospesa nel vuoto e mentre lotto per la tranquillità dei sogni di mio figlio mi carico di paure, cercando nuove bugie, creando nuove illusioni.>> [di Rossana Crucitti]

Domande legittime, domande di una mamma che lotta, giustamente, perché il figlio possa coltivare e far crescere i propri sogni, stando al sicuro da tutto il male che è oggi fuori dalla porta. Vale davvero il detto: lontano dagli occhi, lontano dal cuore? Stando ai fiumi di parole e d’inchiostro [compreso il nostro!] consumati riguardo alla vicenda di Aylan e della sua famiglia, mi viene da rispondere: sì, ce ne stiamo tranquilli nel nostro orticello, incuranti di tutto, finché la verità non ci sbatte in faccia, finche il mondo di merda in cui viviamo non arriva nelle nostre case, non esce fuori dallo schermo della tv o del computer a prenderci a schiaffi, a risvegliare le nostre coscienze di tranquilli inconsapevoli.

Ma per quanto ancora si potrà far finta di niente, o nascondere la verità, anche ai bambini? <<E quando scoprirà che gli ho mentito, capirà?>>, si chiede giustamente Rossana.

Sono domande troppo difficili a cui poter rispondere, specie per tutt’altro che filosofo come me. Lo faccio,  però, prendendo “in prestito” –perché lo condivido in pieno- quello che oggi ha scritto il direttore de “La Stampa” Mario Calabresi per spiegare ai suoi lettori il perché ha deciso di pubblicare la foto del piccolo Aylan, morto sulla spiaggia di Kos:

<<Si può pubblicare la foto di un bambino morto sulla prima pagina di un giornale? Di un bambino che sembra dormire, come uno dei nostri figli o nipoti? Fino a ieri sera ho sempre pensato di no. Questo giornale ha fatto battaglie perché nella cronaca ci fosse un limite chiaro e invalicabile, dettato dal rispetto degli esseri umani. La mia risposta anche ieri è stata la stessa: «Non la possiamo pubblicare». 

Ma per la prima volta non mi sono sentito sollevato, ho sentito invece che nascondervi questa immagine significava girare la testa dall’altra parte, far finta di niente, che qualunque altra scelta era come prenderci in giro, serviva solo a garantirci un altro giorno di tranquilla inconsapevolezza.

Così ho cambiato idea: il rispetto per questo bambino, che scappava con i suoi fratelli e i suoi genitori da una guerra che si svolge alle porte di casa nostra, pretende che tutti sappiano. Pretende che ognuno di noi si fermi un momento e sia cosciente di cosa sta accadendo sulle spiagge del mare in cui siamo andati in vacanza. Poi potrete riprendere la vostra vita, magari indignati da questa scelta, ma consapevoli.

Li ho incontrati questi bambini siriani, figli di una borghesia che abbandona tutto – case, negozi, terreni - per salvare l’unica cosa che conta. Li ho visti per mano ai loro genitori, che come tutti i papà e le mamme del mondo hanno la preoccupazione di difenderli dalla paura e gli comprano un pupazzo, un cappellino o un pallone prima di salire sul gommone, dopo avergli promesso che non ci saranno più incubi e esplosioni nelle loro notti. 

Non si può più balbettare, fare le acrobazie tra le nostre paure e i nostri slanci, questa foto farà la Storia come è accaduto ad una bambina vietnamita con la pelle bruciata dal napalm o a un bambino con le braccia alzate nel ghetto di Varsavia. E’ l’ultima occasione per vedere se i governanti europei saranno all’altezza della Storia. E l’occasione per ognuno di noi di fare i conti con il senso ultimo dell’esistenza.>>

Penso che le parole di Calabresi siano la risposta migliore alle domande della giovane mamma di Reggio –che rappresenta un po’ tutte le mamme del mondo.

Non ci sono mamme, papà o bambini siriani o curdi o palestinesi o africani o italiani, il mondo non è una barzelletta. Siamo tutti esseri umani, proviamo tutti gli stessi sentimenti e siamo chiamati a coesistere in un unico pianeta, chiamato Terra, un mondo che deve globalizzarsi non solo nei consumi o nel divertimento, ma in ogni aspetto dell’esistenza umana. Un mondo destinato a vedere interi Stati formati non da una, ma da una moltitudine di nazioni al loro interno.

Questo è il mondo di domani che si sta già profilando ai nostri occhi ma che fingiamo di non vedere o preferiamo ignorare; questo è il mondo in cui saranno grandi i bambini di oggi. Rendiamoli partecipi e consapevoli di ciò che li circonda. Perché la loro forza è immortale, come hanno dimostrato al mondo prima Alì, poi Aylan e Galip; perché con i loro occhi e i loro cuori di bambini, riusciranno a rendere questo nostro mondo un po’ migliore di quanto oggi non sia.

*N.B.: la vignetta è riportata dal seguente link: http://i100.independent.co.uk/article/the-cartoon-that-sums-up-the-worlds-migrant-crisis--g12atJpSWZ

04 agosto 2015

SETT'ANGILI FIGGHIOLI


Libera trasposizione di “Seven Spanish Angels” –di Ray Charles & Willie Nelson
scritta da Troy Seals & Eddie Setser


'A vardau ddrittu nta l'occhi e dissi: “Mamma, preia pi mia”
iddha su' 'mbrazzau forti e, ruci: “ Chi Diu sia cu tia”
Sintiva forti 'a fami, nci dissi: “Ora comu fai?”
“Sta’ tranquillu, passa, 'chì non c'è fami aundi vai”


Ci su' sett'angili figghioli, chi van pu cielu e sannu
truvar figghi troppu belli, pi star nda terra 'undi stannu.
Quandu ciangi 'na mamma e cu cor grira,
ru cielu pigghia e spara 'n tronu
e cu sett'angili figghioli c'è 'n'atr'angiuleddhu bonu.


”'Nda casa m'u brusciaru, durmiva, non s'è accortu  'i nenti,
basta Diu poi m'i pirduna, 'stu cor non poti né 'sta menti.
E ora iddhi su' cuntenti, mala genti chi morti vindi,
preiu a Diu e mi mi senti, ciangiu e griru, cusì scindi.”


Ci su' sett'angili figghioli, chi van pu cielu e sannu

truvar figghi troppu belli, pi star nda terra 'undi stannu.
Quandu ciangi 'na mamma e cu cor grira,
ru cielu pigghia e spara 'n tronu
e cu sett'angili figghioli c'è 'n'atr'angiuleddhu bonu.


Ci su' sett'angili figghioli, chi van pu cielu e sannu

truvar figghi troppu belli, pi star nda terra 'undi stannu.
Quandu ciangi 'na mamma e cu cor grira,
ru cielu pigghia e spara 'n tronu
e cu sett'angili figghioli c'è 'n'atr'angiuleddhu bonu.


Ci su' sett'angili figghioli, chi van pu cielu e sannu,

truvar figghi troppu belli, pi star nda terra 'undi stannu.
Quandu ciangi 'na mamma e cu cor grira,
ru cielu pigghia e spara 'n tronu
e cu sett'angili figghioli c'è 'n'atr'angiuleddhu bonu.



                                                                                                      Per Alì

Traduzione italica:

SETTE ANGELI BAMBINI


La guardò dritto negli occhi e disse: "Mamma, prega per me"

lei lo abbracciò forte e, dolce: "Che Dio sia con te".
Sentiva forte la fame, le disse: "Ora come fai?"
"Sta' tranquillo, passa, ché non c'è fame dove vai".

Ci sono sette angeli bambini, che vanno per il cielo e sanno

trovar figli troppo belli per star nella terra dove stanno.
Quando piange una mamma e con il cuore grida,
dal cielo allora spara un tuono
e con sette angeli bambini c'è un altro angioletto buono.

"Dentro casa me l'hanno bruciato, dormiva, non s'è accorto di niente,

poi basta Dio a perdonarli, questo cuore non può, né questa mente.
E adesso loro sono contenti, gente cattiva che morte vende,
prego Dio e perché mi ascolti, piango e grido, così scende.

Ci sono sette angeli bambini, che vanno per il cielo e sanno

trovar figli troppo belli per star nella terra dove stanno.
Quando piange una mamma e con il cuore grida,
dal cielo allora spara un tuono
e con sette angeli bambini c'è un altro angioletto buono.

Ci sono sette angeli bambini, che vanno per il cielo e sanno

trovar figli troppo belli per star nella terra dove stanno.
Quando piange una mamma e con il cuore grida,
dal cielo allora spara un tuono
e con sette angeli bambini c'è un altro angioletto buono.

Ci sono sette angeli bambini, che vanno per il cielo e sanno

trovar figli troppo belli per star nella terra dove stanno.
Quando piange una mamma e con il cuore grida,
dal cielo allora spara un tuono
e con sette angeli bambini c'è un altro angioletto buono.









15 marzo 2015

FRA LE NUVOLE

 

Mi ritrovo con il corpo fra le nuvole, sospeso, tra quelle in basso, scure, che nascondono il Paese che gli scorre sotto e quelle alte, che ogni mattina giocano col sole.

Le guardo, sono isole bianche che galleggiano in un mare di cielo ed è bello saltare da una all’altra, accarezzarle con ali metalliche.

Sono isole disabitate, dalle forme strane e diverse, cesellate dall’immaginazione, prima che dal vento.

Ed è il vento l’unico suono che si ode, il vento è l’unico compagno di viaggio e al vento mi affido, come a un amico d’infanzia, quello che non tradisce.

Fra le nuvole, nella luce del sole, e nonostante la velocità, quei batuffoli bianchi scorrono lentamente. Mi piace la lentezza, ti fa assaporare la vita.

E’ vero ciò che  ha scritto uno scrittore napoletano: “Noi meridionali siamo insolenti, perché nella parola stessa il sole è al centro.” Da meridionale, confermo e aggiungo: siamo insolenti, lenti nel sole, e ci piace.

Guardo il cielo fra le nuvole, quasi non mi accorgo delle altre figure che mi stanno accanto: non hanno nome per me, né conosco cosa fanno o quale sia il motivo per il quale si ritrovano insieme a me, a condividere il mio stesso spazio in questo stesso tempo. Saranno medici, avvocati, casalinghe, studenti…non c’è differenza, tra le nuvole siamo tutti uguali. Fra le nuvole si realizza l’uguaglianza: non ci sono forti o deboli, superiorità o inferiorità, furbi o stupidi, ricchi o poveri, i meglio o i peggio. Fra le nuvole siamo tutti uguali, perché fragili di fronte a qualcosa che è molto più grande di noi: è fra le nuvole l’anticamera del Paradiso.

Non dura a lungo, come tutte le cose belle.

Dapprima le intravedo, poi si fanno via via più vicine, diventano più nitide: sono le strade, modellate poche volte in armonia, più spesso in sfregio al profilo della Natura.

Rivedo i percorsi lungo i quali si intrecciano gli scambi, i destini degli uomini, che da qui sono soltanto piccole formiche impazzite.

Riprendo contatto con la realtà: il posto dove riscopro l’inferiorità accettata ed ammessa; il posto in cui “nessuna abilità in qualcosa” potrà correggere “la notizia di scarsità che ho di me stesso”. La realtà, il posto dove niente è come sembra, dove l’evidenza è un errore, dove tutto ha un doppio fondo,un’ombra. Il posto dove, nel cuore, ho confuso la luna con il sole.

Non sono fatto per intrecciare il mio destino con quello di nessun altro a fianco del quale non mi sia ritrovato fin dalla nascita, perché inadeguato per legge di Natura, quella che regola l’evoluzione della specie umana.

Ma mi ritrovo qui, in questo posto, e per liberarmene, per liberarmi dalla mia inadeguatezza, pur con i piedi saldi a terra, preferisco stare con la testa fra le nuvole, dove sono uguale agli altri, dove il giorno è giorno e la notte è notte, dove il sole è sole e la luna è luna. Fra le nuvole, dove non ci sono intrecci, non c’è possibilità di confusione.

08 febbraio 2015

IGNARA EGOISTA

 

Occhi nta l'occhi cu scuru ra notti
li distraìa sulu pochi mumenti.
Poi vinni 'u iornu, chi cusì mi vitti:
cu l'occhi 'perti, non penzu cchiù nenti.

Comu s'avissi cangiatu 'i vistiti,
'chì ormai sta' passandu puru 'stu mbernu,
ch'i nuvuli e 'u suli in cielu già iati,
comu rintra 'n armadiu nta testa scaternu.

Non cercu cravatti, né fracchi, 'né nguanti
né 'na cammiscia, o giacchi o birritti.
Pi tia cercu mi mentu in modu eleganti,
pinseri e paroli comu mai furu scritti.

Fors’ è 'u postu ‘undi sugnu ch'è 'n pocu stranu,
pi 'stu tipu di caccia propria non mbali,
ma chista sula è 'a cura chi può farmi sanu
no, non c'è mericina, non c'è propriu 'spitali.

Alla fini però, stancu, m'arrendu,
propriu non trovu 'n cacch' cosa di novu,
ma ‘undi è iari? chi vaiu sturiandu?
Sulu frasi banali rinesciu mi trovu.

Battiva forti, poi chianu 'u me' cori,
comu 'n motori chi 'a benzina finìu.
Mi sentu nu strambu, pacciu inventori
chi l'acqua cadda, alla fini, scoprìu.

Un latru di frodu, ch'all'urtimu pisca
frasi già fatti, chi non dinnu nenti,
comu nte ciucculati o nda l'ovu di Pasca,
ma non hannu sapuri, su' di marca scarenti.

Grazi di cori p’u pinzeru” fu la to' risposta,
curta, diretta, non menu e non cchiù.
Ma t' 'u ricisti da sula, da ignara egoista,
'chì ru me' cori 'u pinzeru, ogni iornu, si' tu.

Traduzione italica

Occhi negli occhi col buio della notte,
li ho distratti solo pochi momenti.
Poi è arrivato il giorno che mi ha visto così:
con gli occhi aperti, non penso più niente.

Come se avessi cambiato i vestiti,
'ché ormai sta passando pure questo inverno,
con le nuvole e il sole già alti nel cielo,
come dentro un armadio nella testa rovisto.

Non cerco cravatte, né frac, né guanti
né una camicia, o giacche o berretti.
Per te cerco di mettere in modo elegante,
pensieri e parole come mai sono stati scritti.

Forse è il posto in cui sono che è un po’ strano,
per questo tipo di caccia non è buono affatto,
ma questa sola è la cura che può guarirmi
no, non c'è medicina, non c'è proprio ospedale.

Alla fini però, stanco, m'arrendo,
proprio non trovo qualcosa di nuovo,
ma dove penso di andare? che penso di escogitare?
solo frasi banali riesco a trovare.

Batteva forte, poi piano il mio cuore,
come un motore che ha finito la benzina.
Mi sento uno strambo, pazzo inventore
che alla fine ha scoperto l'acqua calda.

Un ladro di frodo, che alla fine pesca
frasi già fatte, chi non dicono nulla,
come nei cioccolatini o nell’uovo di Pasqua,
ma non hanno sapore, sono di marca scadente.

Grazie di cuore per il pensiero” è stata la tua risposta,
corta, diretta, non di meno né di più.
Ma te lo sei detto da sola, da ignara egoista,
’ché del mio cuore il pensiero, ogni giorno, sei tu.

27 gennaio 2015

LA DIFESA DELLA MEMORIA E IL DIRITTO ALLA DIFESA

27_01Oggi, 27 Gennaio, come ogni anno, è stato il giorno della memoria. E’ il giorno in cui si fa memoria del massimo orrore che l’uomo abbia conosciuto, almeno finora, perché purtroppo non si possono mettere limiti alla stupidità umana.

Giustamente, lo striscione che vedete nella foto avverte: “Non ricordate gli ebrei morti se non difendete quelli vivi”. Ora, bisogna capire cosa s’intende per “difendere gli ebrei”.

Oggi ricordiamo sì il sacrificio di tanti ebrei innocenti, ma lo facciamo perché orrori del genere non si ripetano più, non solo contro gli ebrei, ma contro ogni altro essere umano. Perché così come in passato i nazisti hanno trovato la scusa e il modo di compiere il genocidio degli ebrei, allo stesso modo abbiamo assistito e assistiamo ancora oggi, ad altri genocidi che non hanno nulla di meno raccapricciante di quello compiuto dai nazisti. Ne abbiamo avuto prova, purtroppo, in Bosnia, o in Africa, oppure in Afghanistan o in Iraq: i nazisti hanno usato il pretesto della razza, negli altri casi si è usato e si usa il pretesto della religione. Il risultato, terribile, non cambia.

Dunque, vittime degli orrori perpetrati dall’uomo contro altri uomini non sono stati e non sono solo gli ebrei, ma tanti altri popoli e culture. Perciò, bisogna fare attenzione a chi difendere.

Difendo gli ebrei vivi, quando subiscono minacce, intimidazioni o attentati solo perché professano una fede o sol perché appartengono a una razza diversa dalla mia. Ma non difendo gli ebrei “a prescindere”,  né quando (ed è capitato diverse volte) fanno leva sul vittimismo generalizzato in maniera del tutto strumentale.

Non mi sento di difendere quegli ebrei dello Stato d’Israele che da 65 anni hanno messo e continuano a mettere in atto politiche finalizzate esclusivamente al predominio e alla conquista dei territori palestinesi, con metodi molto simili a quelli utilizzati dai nazisti. So che molti rabbrividiranno, ma è così. I carri armati israeliani, non sono diversi dai panzer tedeschi; i bombardamenti aerei effettuati per un mese intero nello scorso luglio sulla striscia di Gaza, non hanno avuto effetti diversi da quelli fatti dalla Luftwaffe durante la seconda guerra mondiale; gli abitanti della striscia di Gaza continuano a vivere oggi in condizioni non molto diverse da quelle in cui hanno vissuto i deportati nei campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale. Certo, almeno nel caso dei palestinesi sembra essere scongiurato l’orrore dei forni crematori, ma ci sono tanti altri modi altrettanto tragici e non meno subdoli per riprodurre lo stesso risultato.

Per la verità, nemmeno da parte di alcuni palestinesi si è andato tanto per il sottile: gruppi organizzati hanno fatto ricorso ad atti terroristici eclatanti ed inumani, che in quanto ad orrore non sono di sicuro secondi a nessun altro. E i dirigenti politici palestinesi hanno dimostrato tutta la loro incapacità nell’isolare ed eliminare i responsabili di questi atti, finendo con l’apparire -agli occhi degli israeliani- come loro complici.

Pur nell’orrore comune, c’è però una differenza sostanziale: i palestinesi che compiono attentati sono solo una minoranza, un gruppo terroristico ristretto e ben identificabile. Le azioni compiute dagli israeliani tramite i loro apparati istituzionali e non (Amministrazione Civile, il servizio di sicurezza dello Shin Bet, ecc.) sono il frutto della politica di quello che si definisce Stato di diritto. Ma è uno Stato di diritto parecchio sbilanciato, visto e considerato che i diritti civili (e in molti casi anche quelli umani) dei palestinesi vengono regolarmente, sistematicamente calpestati, in nome di un imprecisato “diritto di difesa” degli israeliani. Non mi sento di difendere gli ebrei israeliani, quando nel nome di questa loro interpretazione di tale diritto, finiscono in realtà con l’imporre <<la supremazia di una nazione convinta di avere il diritto di interferire e danneggiare la vita di una nazione palestinese più debole – il suo futuro, il passato, la sua economia, la moneta, le sue risorse e le relazioni familiari e sociali.>> –come spiegato in questo bell’articolo del principale giornale israeliano, Haaretz. [Per la traduzione italiana  clicca qui]

Non mi sento di difendere chi, fin da subito dopo la fine dell’orrore nazista, ha avviato una politica di supremazia fondata esclusivamente sul “diritto divino”, dimenticandosi non solo degli insegnamenti divini ma, soprattutto, di ciò che aveva vissuto poco tempo prima sulla propria pelle. Da parte mia, ricordo e ricorderò sempre il sacrificio degli ebrei morti, ma vorrei solo che se ne ricordassero davvero anche gli ebrei israeliani. Non solo visitando lo Yad Vashem –il Museo dell’olocausto o pregando nelle sinagoghe. Vorrei che ne facessero memoria sempre, ogni giorno, non concedendo fiducia a politici, amministratori o militari –ebrei come loro-  che hanno costruito le loro rispettive carriere sulla violenza e sulla sopraffazione sistematica del popolo palestinese.

Non si deve mai confondere la difesa della memoria, con il diritto alla difesa, come invece mi pare succeda. Per questo, ricorderò sempre gli ebrei morti e difenderò sempre gli ebrei vivi e il loro diritto a vivere in pace. Ma non potrò mai difendere quegli ebrei vivi che, nei fatti, si sono dimenticati del sacrificio dei loro stessi morti e, nascondendosi vigliaccamente dietro di loro, continuano indiscriminatamente a negare il diritto all’esistenza di un altro popolo.

10 gennaio 2015

LA LIBERTA’


Matite_2Ci sono date che sono destinate a rimanere per sempre nel ricordo di tutti, sono le date che hanno fatto e che fanno la storia di questo nostro sempre più strano mondo.
L'11 Settembre 2001 è una di queste. Dopo quel lunghissimo pomeriggio, credevo, mi auguravo, di non dover assistere mai più ad avvenimenti simili. Un augurio che...è andato a male. Se a New York tutto si consumò in un giorno, a Parigi il terrore è “andato in onda” per tre giorni consecutivi. Così, accanto all'11 Settembre, il giorno delle Torri Gemelle, da adesso in avanti ricorderemo il 7-8-9 Gennaio 2015, i giorni di Parigi.
Ammetto di essere confuso, stordito, come tutti credo. In questi giorni miliardi di parole hanno descritto, raccontato, su tutti i mezzi di informazione, quel che è accaduto, con analisi, spiegazioni e motivazioni varie.
Dopo l'attentato al Charlie-Hebdo, la domanda che mi è rimbombata in testa è: che cos'è la libertà?
L'unica risposta che mi sono dato è che la libertà è quanto di più prezioso un essere umano possa desiderare, ma in quanto prezioso, non è illimitata. Sono convinto, infatti, che aveva ragione Martin Luther King: la libertà di ciascuno di noi inizia dove finisce quella degli altri.
Se così è, come credo che sia, va bene la libertà di stampa, va bene il diritto e la libertà di satira, non si discutono, ma entrambe hanno dei limiti.
Vent'anni fa, quando ho iniziato a lavorare, una volta iscritto all'ordine professionale, il presidente, consegnandomi il timbro e una rollina -i ferri del mestiere- mi disse: “Bravo! Auguri di buon lavoro, ma stai attento: questo -brandendo il timbro che teneva ancora in mano- è un'arma!
E così come il timbro, anche la penna per un giornalista, un quadro per un pittore, una matita per un vignettista di satira, tutti questi oggetti sono un'arma. E quando si ha un'arma in mano, penna, quadro, matita o timbro che sia, è necessario maneggiarla con cura, da lì si vede la professionalità, l'agire con coscienza.
Ora, nel caso del settimanale francese, è indubbio che molte delle vignette e degli articoli pubblicati, siano stati pezzi di forte impatto, tanto da suscitare proteste, e scandalo anche in passato. So bene cosa significhi fare satira, essendo stato negli anni scorsi tra i fondatori di un giornalino, “Pre-occupati”, che fu il progenitore dell'odierno sito www.malanova.it. So bene quali sono i rischi che si corrono quando si scrivono cose tanto sacrosante, quanto scomode per l'ingessata sensibilità delle comunità di queste latitudini. So bene che il giornale colpito è sempre stato, storicamente, il simbolo della massima libertà d'espressione, per di più nel Paese -la Francia- che ha nella libertà uno dei principi fondativi.
Faccio mia la considerazione della redazione del Malasito: ‪#‎siamotutticharlie‬ col Dio degli altri. provate a far pubblicare una vignetta satirica su San Rocco a ‪#‎Scilla‬ da un musulmano. Non ti spareranno.. Certo..
Con questo non s'intende di certo giustificare le azioni terroristiche messe in atto col pretesto dell'offesa alla religione. La considerazione è però utile a far capire che anche in una piccola comunità come Scilla, davanti a una vignetta satirica sul Santo patrono, non tutti reagirebbero allo stesso modo, non tutti la prenderebbero bene -diciamo così- senza, per questo, essere necessariamente terroristi. Se questa considerazione la estendiamo alla comunità mondiale, dovrebbe essere facile prevedere che vi possano essere reazioni diverse e oltre misura.
Dal mio punto di vista, la questione è semplice, quanto complicata allo stesso tempo: non ignoro e cerco di non dimenticare mai la regola d'ora dell'etica della reciprocità. E' una regola filosofica, che tutte le religioni condividono:
-il cristianesimo: Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro;
-il buddismo: Non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te stesso;
-l'ìIslam: Aheb li akheek ma tuhibu li nafsik -Desidera per il tuo prossimo ciò che desideri per te stesso.
Se ci pensate, l'assunto di questa regola filosofica, trasposta anche nelle religioni, non è altro che “La mia libertà finisce dove comincia la vostra”, l'affermazione di Martin Luther King che, nella pratica civile dei paesi occidentali, si esprime con tutto il sistema di leggi che regolano la nostra vita civile.
Dunque, l'azione dei terroristi non mira tanto a un obiettivo religioso -come affermano- contro chi è cristiano o di religione ebraica o buddista, quanto piuttosto a imporre una “civiltà” diversa dalla nostra. Una civiltà nella quale a comandare è un così detto “imam”, che in realtà non è altro che uno spregevole, sanguinario dittatore. E la storia insegna a che fine sono destinati i dittatori.
E' una civiltà non civile quella cui mirano i terroristi, perché nella loro idea di mondo manca un elemento fondamentale: la libertà. C'è una canzone, che da tempo mi ronza in testa, che dice:
Libertà è solo un'altra parola per nulla da perdere“
E chi non è libero, chi non ha la libertà, non ha proprio nulla da perdere, perché non ha niente, perché non è niente.
Non è un caso, infatti, se tutti i terroristi che si sono “immolati” nell'ingannevole speranza di future ricompense celesti, hanno in comune tra loro situazioni familiari e/o soggettive molto difficili. E' gente che non parla con nessuno, che sembra innocua perché si fa i fatti propri, ma che proprio per il disagio in cui vive, è un vulcano pronto ad esplodere in qualunque momento. Non hanno contatti con la società che li circonda, non hanno amici (al massimo qualche conoscente), sono, nella sostanza, come scatole vuote. E sono proprio le scatole vuote quelle che possono essere riempite più facilmente. Riempite da coloro il cui vero disegno strategico è quello di comandare, di divenire dittatori, in primo luogo della propria stessa gente, e del mondo intero. Sono gli imam estremisti, che esaltati per le loro mire di conquista e coperti dalla carica religiosa che rivestono, sono così liberi di “indottrinare”, di riempire le scatole vuote.
E la prima cosa con la quale si riempiono queste scatole vuote, è Dio, ma lo si fa in maniera distorta, così che Egli appaia come l'unico in grado di riscattare questi soggetti dalla marginalità in cui vivono, ma attraverso l'odio per gli altri, cui viene imputata la responsabilità del loro stato. Non sono certo uno psicologo, ma per chi non ha nulla, avere inculcato in mente di avere Dio dalla propria parte, per menti così fragili e influenzabili, può voler dire aver tutto, ed essere disposti a tutto per averlo, anche ad uccidere.
Matite_1Se questa è la realtà, contro queste scatole imbottite di odio, penso che non potranno mai bastare tutte le misure di sicurezza di questo mondo per prevenire atti terroristici come quelli di New York o, in ultimo, di Parigi.
Da un lato, la civiltà occidentale, non può cadere nella falsa trappola del fondamentalismo religioso. Non può, a meno che non lo voglia! Troppi sono stati -per le Torri Gemelle- e sono -a Parigi- gli elementi contraddittori o poco chiari, che hanno fatto pensare a omissioni, infiltrazioni di servizi deviati e speculazioni da parte di centri di potere il cui gioco preferito è fare la guerra, all'unico scopo di arricchirsi, non importa quanto tragicamente.
Dall'altro lato, tutti reclamano un intervento da parte della comunità islamica. Ora, da quanto ho avuto modo di vedere, gran parte della comunità islamica è inorridita tanto quanto ogni altro essere umano -terroristi esclusi- davanti a quanto accaduto a Parigi. Dunque, non è la comunità islamica -che vede la propria religione oltraggiata, distorta, vilipesa- ma le autorità religiose della comunità a dover intervenire praticamente e con urgenza.
All'interno della religione islamica non esiste un clero organizzato come nella religione cristiana, esiste però una “casta sacerdotale”, i cui membri sono in realtà giuristi che fanno anche da guida spirituale, come gli imam che sono capi di movimenti politico-religiosi.
Nella cultura occidentale, la separazione tra Stato e Chiesa è avvenuta, di fatto, solo a partire dal XIX secolo e in tempi diversi.
Sarebbe oltremodo opportuno che tale separazione fosse fatta anche all'interno dell'islam, almeno in quello sunnita, che ne costituisce la gran parte. Ma non solo. Così come non tutti possono fare i preti, credo sia naturale non tutti possono fare gli imam, a maggior ragione quando la loro figura può essere un pericoloso mix tra religione e politica. Ecco, dovrebbe esserci una migliore selezione, o un meccanismo di controllo e di verifica di chi sono i soggetti incaricati a ricoprire un ruolo così importante all'interno di intere comunità. Certo, esisteranno sempre gli estremisti, ma così come all'interno della chiesa cattolica esiste la scomunica, essa dovrebbe esistere anche nell'islam ma non soltanto per i musulmani che magari si convertono ad altre religioni, come è capitato finora. Dovrebbero essere scomunicati anche quegli imam che predicano l'odio e la violenza come mezzo per “imporre” il loro Dio, semplicemente perché odio e violenza non fanno parte dell'islam, come di nessun altra religione. Occorre dunque una riforma dell'islam, perché nessuno può difenderlo più e meglio delle autorità che ne fanno parte.
In secondo luogo, rimanendo all'interno dei confini italiani, penso che un passo importante verso la comprensione di cosa siano il cristianesimo, l'ebraismo, l'islam e il buddismo, possa essere fatto nella nostra scuola. Per esempio, al posto delle ore di religione, vedrei molto meglio delle ore dedicate alla storia delle religioni: sarebbero utili a comprenderne non solo i principi, ma anche e soprattutto come esse si sono sviluppate, evolute e trasformate nel corso della storia. Ciò aiuterebbe le future generazioni a non ripetere quanto stiamo vivendo in questo nostro sempre più strano tempo.
Mi rendo conto che quanto sopra non sia facilmente realizzabile, ma non è di certo impossibile. Dunque, dobbiamo provarci, dobbiamo provare a ricostruire quanto questi atti hanno distrutto, cioè la fiducia nel prossimo –inteso proprio come chi ci sta vicino.
Se non ci proviamo, non saremo liberi, non vivremo più e correremo il serio rischio di dover aggiornare il calendario, ricordando i giorni non per le feste o per le stagioni, ma come tragica memoria di azioni che portano solo sofferenza, lacrime, sangue, morte.