08 ottobre 2017

LO "SCILLESI D'AMERICA" NELL'OFFERTA SANITARIA DELLA CITTA' METROPOLITANA: PROPOSTA PER UN FUTURO ANCORA POSSIBILE

A Scilla torna il furore rivoluzionario? Si è svolta pochi giorni fa, nella stessa location della sala consiliare scillese, la replica dell'assemblea dei sindaci dell'area dello Stretto andata in onda il 5 ottobre del 2015, avente per oggetto la situazione dello “Scillesi d'America”.
A due anni di distanza esatti, si è “festeggiata” la ricorrenza, prendendo spunto dall'ennesima novità negativa che ha riguardato la scatola semivuota del fu ospedale scillese: la riduzione del PPI  (Punto di Primo Intervento) da 24 a 12 ore + la guardia medica.
Ma le repliche, si sa, non hanno mai la stessa audience delle prime visioni.
Così, a discutere della quasi-morte definitiva del fu ospedale sono rimasti in pochi sindaci (pare fossero solo sei). Se pochi erano i sindaci -dei paesi vicini, ma comunque furisteri- altrettanto pochi erano gli scillesi. Non è la prima volta che accade: erano in pochi anche anni fa, quando ci è cercato di mobilitare le associazioni e la cittadinanza tutta per scongiurare quello che poi, purtroppo è accaduto: la politica regionale -e non solo quella- ha deciso che la sanità calabrese e reggina poteva fare a meno in tutti i sensi della struttura di Scilla.
A nulla sono serviti le manifestazioni di popolo, i discorsi in piazza, le mille riunioni, gli inutili tentativi di mettere d'accordo maggioranza e opposizione per portare avanti un'azione incisiva. Ancora peggiori sono state le decisioni degli amministratori del tempo: firmarono un ricorso contro il decreto che disponeva la chiusura (assolutamente illegittima, e lo sapevano) dello “Scillesi d'America”, ma non chiesero la sospensiva del provvedimento. Così che, mentre altri comuni che hanno utilizzato lo stesso strumento previsto dalla legge, hanno vinto il ricorso e si sono visti riaprire gli ospedali chiusi (vedi Rogliano), il ricorso scillese sarà trattato....nella prossima generazione.
Questa è la storia, e davanti a questa storia non si può rimproverare agli scillesi la mancata partecipazione alla replica di quello che hanno già visto. Non si può, quando si erano fatte promesse che poi sono state puntualmente disattese.
In tempi più recenti, anche l'attuale Amministrazione scillese ha le sue colpe: all'indignazione di due anni fa e alle promesse rivoluzionarie, è seguito il silenzio. “Aspettavamo che il Presidente Oliverio divenisse Commissario al Piano di rientro al posto del dott. Scura” -ha detto il Sindaco per giustificare la naftalina usata in questi anni per “conservare” il problema al sicuro da occhi ed orecchie indiscrete, quali potevano essere quelle dei cittadini.
Purtroppo, però, i piani del sindaco in carica non sono andati a buon fine, perché in questi anni tanti sono stati gli scillesi che per curare la propria salute hanno avuto la sfortuna di vedersi “prigionieri” del perverso meccanismo sanitario cui è stata condannata la nostra provincia (e la Calabria intera). Un meccanismo simile a un frullatore che gira vorticoso e macina, e tu sei costretto a girare con lui, come vuole lui, se vuoi avere qualche possibilità di uscirne vivo e tornare a casa con i tuoi piedi, anche se ammaccato. Chi ha avuto la sfortuna di esser fatto prigioniero, ha urlato, ha scritto pubblicamente ciò che gli accadeva. Era l'unico sfogo concessogli per poter raccontare i ritardi, le file assurde -come quelle per il pane ai tempi della guerra!- medici sull'orlo di una crisi di nervi e che, in alcuni casi, avrebbero bisogno di altri medici per curare la loro salute (fisica e soprattutto mentale), messa a rischio da turni di lavoro e numero di pazienti che, obiettivamente, hanno superato i limiti dell'umanamente sostenibile.
Il cittadino, i cittadini scillesi, tanti, lo hanno purtroppo sperimentato in tutti questi anni e lo stanno vivendo ancora oggi: 'maru a cu' havi bisognu!
Gli appelli, i discorsi e le chiacchiere stanno a zero. Bisogna agire politicamente, con gli strumenti democratici che abbiamo a disposizione.
I nostalgici del “Che” e di Fidel Castro ed i loro moderni seguaci si mettano l'anima in pace: il popolo è disposto a seguire chi ha carisma, chi è capace di coinvolgerlo mettendosi a lottare con lui, a fianco e davanti a lui. Non può e non intende seguire chi lo prende in giro, adottando provvedimenti solamente simbolici, pi lavari a' facci, ma del tutto inefficaci, come in passato, oppure chi aspira a fare il rivoluzionario aspetta di avere il vento a favore. Questo non è furore rivoluzionario. Così, rivoluzioni non se ne possono fare e, infatti, non se ne sono fatte finora.
Ma quali sono gli strumenti democratici che abbiamo a disposizione?
La prima, potenzialmente più efficace, è proprio l'ultima in ordine di costituzione: la Città Metropolitana.
Essa, seppur ancora sconosciuta ai più, per espressa finalità istituzionale, “tutela il diritto alla salute come diritto fondamentale costituzionalmente garantito” e persegue “il miglioramento della qualità della vita delle persone che vivono sul territorio stabilmente ed occasionalmente” [art. 10 dello Statuto]. La legge istitutiva delle Città Metropolitane prevede, fra l'altro, che ad esse compete la “strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano
Ora, fino a prova contraria, quello sanitario è un servizio pubblico. E' vero, dev'essere svolto secondo le norme emanate dallo Stato e dalla Regione, ma nel rispetto di queste norme, la strutturazione e l'organizzazione del servizio competono alla Città Metropolitana.

Dunque, attraverso la Conferenza Metropolitana -cui partecipano i Sindaci di tutti i Comuni che fanno parte del nuovo ente- si potrebbe presentare una proposta che, sempre nei limiti stabiliti dall'attuale Piano di rientro -che, peraltro, dovrebbe essere quasi agli sgoccioli- e dal Piano Sanitario (elaborato più di dieci anni fa e, almeno per Scilla, inattuato perché poco rispondente agli effettivi bisogni attuali), preveda:
l'elaborazione, nell'ambito della Commissione Sanità del Consiglio Metropolitano (che sia essa già istituita o da istituire), di un Piano di Strutturazione e Organizzazione Sanitaria della Città Metropolitana, che nell'invarianza dei costi previsti dal Piano Sanitario Regionale, garantisca effettivamente la qualità della vita e la tutela del diritto alla salute previsti dallo Statuto.
A tal fine, la Commissione consiliare potrà avvalersi di una Commissione Speciale (la cui costituzione è prevista dal vigente Regolamento del Consiglio Metropolitano), che effettui studi o indagini inerenti le patologie di maggiore impatto riscontrate sul territorio Metropolitano.
Dette indagini potrebbero essere fatte coinvolgendo, in primis, i medici di famiglia e i vari istituti di diagnostica, per esempio mediante semplici schede, sulla base delle quali raccogliere i dati necessari. Sulla base dei dati raccolti e delle relative statistiche elaborate, si potrà così programmare una migliore e più efficace organizzazione funzionale delle strutture sanitarie presenti sullo stesso territorio in ragione della densità della popolazione che lo abita.
Accanto al provvedimento d'urgenza, che si ha intenzione di chiedere per il ripristino del PPI dello “Scillesi d'America” per le 24 ore, il  Piano di Strutturazione e Organizzazione Sanitaria della Città Metropolitana -strumento che il nuovo Ente è pienamente legittimato ad adottare e che potrebbe essere elaborato e redatto materialmente in tempi piuttosto brevi (due o tre mesi)- consentirebbe di poter calibrare meglio l'offerta sanitaria dal punto di vista logistico, il che comporterebbe vantaggi sia a breve che a lungo termine. Non bisogna dimenticare, infatti, che la nostra è una popolazione di età media piuttosto avanzata, alla quale è contro natura chiedere spostamenti importanti (anche fare poche decine di chilometri di chilometri, in Calabria e nella Città Metropolitana reggina, è tutt'altro che semplice) o attese improponibili anche per un soggetto giovane e sano, come sta accadendo oggi con l'esclusivo utilizzo degli ospedali Hub (a tipu aeroportu, chi bellu rrinescitu!)
Per fare l'esempio dello “Scillesi d'America” di Scilla: potrebbero, in collegamento funzionale con il G.O.M. di Reggio Calabria, essere riattivati i day hospital di oncologia e di emodialisi (l'incidenza di queste patologie sul mostro territorio ha manifestato una crescita preoccupante negli ultimi anni).
A questi, potrebbero aggiungersene dei nuovi, sulla base delle indagini di cui sopra.
In definitiva: è più logico e più conveniente per tutti che a spostarsi sia il medico (che presta servizio a Reggio, a volte senza poter usufruire di una scrivania propria!) verso i malati, piuttosto che far spostare i malati verso un medico che non sa come e dove metterli per poterli curare nel migliore dei modi.

La chiusura dei piccoli ospedali e, peggio ancora, il mancato utilizzo delle strutture rimaste vuote -come nel caso di Scilla- non ha dimostrato vantaggi diretti (nessuno ha dimostrato, dati alla mano, un effettivo risparmio) né, tanto meno, indiretti (sono stati mai calcolati i costi, in termini di tempo, benzina e, soprattutto, salute persa?!). Nessuno ha fatto una seria analisi costi-benefici, dove i costi non sono solo quelli strettamente economici delle Aziende Sanitarie, ma i costi sociali che devono affrontare i malati che, il più delle volte, vengono sballottati da una parte all'altra, invece di guarire finisce con l'aggravare il proprio stato di salute. Non lo sa di certo chi è seduto sulle poltrone dei vertici delle Aziende Sanitarie, ma lo sa benissimo, invece, chi è finito dentro l'attuale frullatore sanitario reggino e/o calabrese. Come dicevano i nostri avi: 'i guai ra pignata 'i sapi sulu 'a cucchiara!

Ecco perché strutture come lo “Scillesi d'America” non solo possono ma devono tornare a rivestire un ruolo all'interno delle nostre comunità, e può giocare un ruolo importante all'interno dell'offerta sanitaria della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Ne aveva già parlato due anni fa, a Scilla, il sindaco Falcomatà.
Chi scrive non è certo un tecnico della materia sanitaria ma la proposta sopra sommariamente delineata sia particolarmente difficile da attuare. Lo si può fare, ed in tempi brevi, in maniera da porre rimedio agli effetti nefasti prodotti dall'applicazione -peraltro abortita miseramente- di un Piano Sanitario vecchio e oramai superato. E per farlo, non servono rivoluzioni di popolo ma un modo rivoluzionario di fare politica da parte di chi ci amministra ed ha la responsabilità di adottare provvedimenti tali, da consentire che il diritto alla salute e il miglioramento della qualità della vita, per chi vive in questo territorio bello ma dannato, non rimangano solo belle parole scritte su uno Statuto ma diventino una buona volta realtà.

01 ottobre 2017

A MIO PADRE



Ciao papà,
è già passata una settimana da quando sei andato in cielo. Non ti abbiamo salutato né ti abbiamo potuto dire grazie come avremmo voluto.
Negli ultimi giorni passati insieme, stanco, consumato da una malattia implacabile -che, ne sono certo, un giorno non lontano sarà definitivamente sconfitta- mi ripetevi spesso: «Figlio, che brutto ricordo che ti lascio di me!».
No, papà, quello che hai lasciato a me, Mariangela e mamma, non è affatto un brutto ricordo. Tutt'altro.
La lotta che hai condotto con forza, determinazione e grande dignità contro un male che pur sapevi non ti avrebbe lasciato scampo, ha rafforzato in noi la consapevolezza di aver avuto la grande fortuna di averti rispettivamente come padre e marito. Pur consumato dalla sofferenza, non hai mai perso la voglia e la forza di scherzare, di trovare sempre il modo di farci sorridere.
In questi giorni, numerosi sono stati i messaggi che abbiamo ricevuto con ogni mezzo, tante le mani che abbiamo stretto, gli abbracci che abbiamo scambiato con tutti coloro che hanno voluto esprimerci il loro cordoglio, la loro vicinanza. In tanti si sono meravigliati del fatto che, pur se nel dolore più profondo, siamo sereni, papà.
Dopo che hai resistito giusto fino alla fine dell'ultima preghiera prima di smettere di respirare per sempre, quando ti hanno preparato prima di ricevere l'ultimo saluto da parte di chi ti ha conosciuto e voluto bene, dal tuo volto è scomparsa la maschera di dolore che, a causa della malattia, aveva trasformato, stravolto il tuo viso. Ho rivisto, così, la tua espressione naturale, illuminata da un bellissimo sorriso, il sorriso di chi prova una grande gioia, di chi ha ritrovato la serenità e la pace che da tempo invocava.
Appena arrivato alla Casa della Carità, ultima stazione del tuo lungo calvario, ti sei fatto accompagnare nella cappella dove, rivolto al Crocefisso, con un filo di voce hai pregato così: «Eccomi, Signore, sono pronto.»
E Gesù crocifisso, che vedevo in te guardandoti, inchiodato al letto dal dolore, ti ha ascoltato: ha mandato San Rocco a prenderti insieme a San Pio, che ti ha accolto in cielo proprio il giorno della sua festa liturgica, e insieme ti hanno accompagnato da Gesù. Quel sorriso sul tuo volto, che hanno notato in tanti rimanendone stupiti, era il segno chiarissimo che non soffrivi più ed eri di nuovo felice.
Per me, Mariangela e mamma, quello è stato il segno che il Signore aveva accolto le tue e le nostre preghiere. Per questo ci siamo sentiti sollevati dopo aver cercato di aiutarti a portare il peso della tua croce, ricambiando noi figli -pur se in minima parte- tutto l'affetto, le attenzioni, l'amore che da padre premuroso ci hai dedicato per tutta la vita.
In questi ultimi tre anni si sono alternati momenti di sconforto e momenti di speranza: la notizia della malattia, poi l'inizio della cura, delicata e difficile, in mezzo a difficoltà di ogni genere. Li abbiamo affrontati passo dopo passo, con fiducia, barcollando sotto il peso gravoso della malattia e delle sue implicazioni sul normale equilibrio familiare, sbattendo contro muri alti e spessi, cadendo nella rabbia e nello sconforto. Ma ti abbiamo aiutato a rialzarti e siamo andati avanti nonostante tutto, accettando insieme a te le tante sfide che il destino ti ha messo di fronte. Sfide che hai vinto tutte, facendoti carico e subendo personalmente le conseguenze di colpe non tue.
Il sorriso che l'incontro con Gesù ti ha disegnato sul volto, ti ha fatto dimenticare tutto il male che hai sofferto e ricevuto durante tutta la vita, ma sento il dovere di chiederti perdono per il male che hai dovuto subire e sopportare per causa mia. E ti chiedo scusa per non averti saputo regalare le gioie che meritavi.
Una domanda ti tormentava: «Perché questa malattia? Perché a me?». La mia risposta era sempre la stessa: «Perché vuol dire che il Signore sa che sei in grado di sopportarla.»
Sì, papà, sei stato bravo a sopportare le tante circostanze avverse che ti si sono presentate in questi ultimi tre anni: quando sei arrivato all'Ospedale di Scilla e, invece del medico che ti aveva visitato qualche giorno prima e con il quale dovevi iniziare la chemio, ti sei ritrovato davanti i Carabinieri, intenti a mettere i sigilli al reparto di oncologia, perché scelte pseudo-politiche avevano deciso che l'ospedale di Scilla doveva chiudere. Sei stato bravo quando lo scorso anno, d'inverno e per ben tre volte ti sei sottoposto alla chemio, ai Riuniti di Reggio, non nella solita sala a ciò destinata ma nella quale non c'era più posto, ma in uno squallido sgabuzzino e, per di più, sotto una finestra dalla quale filtravano spifferi micidiali, tanto che sei tornato a casa con la febbre, che ti ha costretto a interrompere la terapia.
Sei stato bravo a trovare la pazienza per sopportare le interminabili ore di fila, specie quella mattina in Ematologia, dove hai atteso il tuo turno di visita per sottoporti a un piccolo intervento, salvo poi dovertene tornare a casa perché il medico che avrebbe dovuto effettuarlo non sapeva che tu fossi lì.
Sei stato bravo, quasi un anno fa, a riprenderti da un infarto, che hai potuto superare anche grazie alle prime, fondamentali, cure ricevute quella sera al Punto di Primo Intervento dello "Scillesi d'America". Sai papà, fosse successo quest'anno, alla stessa ora, avresti trovato la porta dell'ex ospedale chiusa e saremmo dovuti andare a Reggio in macchina, senza sapere se saresti arrivato in tempo per essere operato d'urgenza e guarito, come l'anno scorso.
Sei stato bravo, infine, venti giorni fa, quando ti abbiamo dovuto ricoverare per un nuovo problema, stavolta al polmone. Dopo una settimana passata a girovagare per quattro reparti e una nuova operazione, i medici ti hanno potuto mandare a casa soddisfatti. Loro sì, erano soddisfatti, ma tu eri stanco: «Portami a casa...» -mi hai detto appena ci hanno detto che ti dimettevano- «...voglio morire a casa.» Queste parole resteranno per sempre scolpite nella mia memoria, perché lì ho capito che non ce la facevi più: in cuor tuo avevi detto basta. D'altra parte, il numero 17 non ti è mai piaciuto e non ce l'hai fatta proprio a finire quest'anno che ne porta le cifre.
Gli ultimi dieci giorni, infatti, hai smesso di mangiare: «Dove devo andare ormai, legato qui come un cagnolino!» mi hai detto fissando le goccioline lente della flebo che hanno scandito le ore dei tuoi ultimi giorni.
Poi, in pochissime ore, l'ultima stazione, l'ultima preghiera a Gesù ed hai ritrovato la pace e la serenità, che stavolta dureranno per sempre.
Papà, dicevi sempre: «Due cose sono importanti per l'uomo: la salute e il lavoro.» E guarda oggi: sono due elementi di cui l'uomo "moderno", il politico "moderno" ritiene di poter fare a meno: gli ospedali chiudono, così come i punti di primo, essenziale, intervento; e il lavoro o te lo inventi o non ti resta che trovare strade che portano lontano da qui. E questa realtà non ti piaceva, non poteva piacere a te che finché hai avuto la salute, non ti sei risparmiato, hai lavorato sempre, fin da bambino! E con il tuo lavoro hai potuto costruire una famiglia, la nostra.
Poi, quando la salute ha cominciato a venir meno, con la forza che ti derivava dal non aver mai nascosto la tua umana fragilità, hai continuato a illuminare le nostre vite e quelle dei tuoi parenti e di coloro che hanno avuto modo di conoscerti e di volerti bene, rendendo tutti migliori.
Adesso, sei una piccola luce che brilla intensamente e ci illumina dal cielo. E la tua luce, papà, arriva fin qui: la vedo negli occhi di mamma e di Mariangela ogni giorno; la vedo negli occhi dello zio, tuo fratello; negli occhi dei tuoi nipoti -con i quali siamo cresciuti come fratelli- e dei loro figli, cui volevi un gran bene; negli occhi di tutti i tuoi amici ogni volta che li incontro per strada.
Guidato da questa luce continuerò il mio cammino, essendoti infinitamente grato del fatto che sarò conosciuto e riconosciuto per sempre come figlio di Paolo Picone.

Tuo
Francesco