Ciao
papà,
è già passata una settimana da
quando sei andato in cielo. Non ti abbiamo salutato né ti abbiamo potuto dire
grazie come avremmo voluto.
Negli ultimi giorni passati
insieme, stanco, consumato da una malattia implacabile -che, ne sono certo, un
giorno non lontano sarà definitivamente sconfitta- mi ripetevi spesso: «Figlio,
che brutto ricordo che ti lascio di me!».
No, papà, quello che hai lasciato a
me, Mariangela e mamma, non è affatto un brutto ricordo. Tutt'altro.
La lotta che hai condotto con
forza, determinazione e grande dignità contro un male che pur sapevi non ti
avrebbe lasciato scampo, ha rafforzato in noi la consapevolezza di aver avuto
la grande fortuna di averti rispettivamente come padre e marito. Pur consumato
dalla sofferenza, non hai mai perso la voglia e la forza di scherzare, di
trovare sempre il modo di farci sorridere.
In questi giorni, numerosi sono
stati i messaggi che abbiamo ricevuto con ogni mezzo, tante le mani che abbiamo
stretto, gli abbracci che abbiamo scambiato con tutti coloro che hanno voluto
esprimerci il loro cordoglio, la loro vicinanza. In tanti si sono meravigliati
del fatto che, pur se nel dolore più profondo, siamo sereni, papà.
Dopo che hai resistito giusto fino
alla fine dell'ultima preghiera prima di smettere di respirare per sempre,
quando ti hanno preparato prima di ricevere l'ultimo saluto da parte di chi ti
ha conosciuto e voluto bene, dal tuo volto è scomparsa la maschera di dolore
che, a causa della malattia, aveva trasformato, stravolto il tuo viso. Ho
rivisto, così, la tua espressione naturale, illuminata da un bellissimo
sorriso, il sorriso di chi prova una grande gioia, di chi ha ritrovato la
serenità e la pace che da tempo invocava.
Appena arrivato alla Casa della
Carità, ultima stazione del tuo lungo calvario, ti sei fatto accompagnare nella
cappella dove, rivolto al Crocefisso, con un filo di voce hai pregato così:
«Eccomi, Signore, sono pronto.»
E Gesù crocifisso, che vedevo in te
guardandoti, inchiodato al letto dal dolore, ti ha ascoltato: ha mandato San
Rocco a prenderti insieme a San Pio, che ti ha accolto in cielo proprio il
giorno della sua festa liturgica, e insieme ti hanno accompagnato da Gesù. Quel
sorriso sul tuo volto, che hanno notato in tanti rimanendone stupiti, era il
segno chiarissimo che non soffrivi più ed eri di nuovo felice.
Per me, Mariangela e mamma, quello
è stato il segno che il Signore aveva accolto le tue e le nostre preghiere. Per
questo ci siamo sentiti sollevati dopo aver cercato di aiutarti a portare il
peso della tua croce, ricambiando noi figli -pur se in minima parte- tutto
l'affetto, le attenzioni, l'amore che da padre premuroso ci hai dedicato per
tutta la vita.
In questi ultimi tre anni si sono
alternati momenti di sconforto e momenti di speranza: la notizia della
malattia, poi l'inizio della cura, delicata e difficile, in mezzo a difficoltà
di ogni genere. Li abbiamo affrontati passo dopo passo, con fiducia,
barcollando sotto il peso gravoso della malattia e delle sue implicazioni sul
normale equilibrio familiare, sbattendo contro muri alti e spessi, cadendo
nella rabbia e nello sconforto. Ma ti abbiamo aiutato a rialzarti e siamo andati avanti
nonostante tutto, accettando insieme a te le tante sfide che il destino ti ha
messo di fronte. Sfide che hai vinto tutte, facendoti carico e subendo
personalmente le conseguenze di colpe non tue.
Il sorriso che l'incontro con Gesù
ti ha disegnato sul volto, ti ha fatto dimenticare tutto il male che hai
sofferto e ricevuto durante tutta la vita, ma sento il dovere di chiederti perdono
per il male che hai dovuto subire e sopportare per causa mia. E ti chiedo scusa
per non averti saputo regalare le gioie che meritavi.
Una domanda ti tormentava: «Perché questa
malattia? Perché a me?». La mia risposta era sempre la stessa: «Perché vuol
dire che il Signore sa che sei in grado di sopportarla.»
Sì, papà, sei stato bravo a
sopportare le tante circostanze avverse che ti si sono presentate in questi
ultimi tre anni: quando sei arrivato all'Ospedale di Scilla e, invece del
medico che ti aveva visitato qualche giorno prima e con il quale dovevi
iniziare la chemio, ti sei ritrovato davanti i Carabinieri, intenti a mettere i
sigilli al reparto di oncologia, perché scelte pseudo-politiche avevano deciso
che l'ospedale di Scilla doveva chiudere. Sei stato bravo quando lo scorso
anno, d'inverno e per ben tre volte ti sei sottoposto alla chemio, ai Riuniti
di Reggio, non nella solita sala a ciò destinata ma nella quale non c'era più
posto, ma in uno squallido sgabuzzino e, per di più, sotto una finestra dalla
quale filtravano spifferi micidiali, tanto che sei tornato a casa con la
febbre, che ti ha costretto a interrompere la terapia.
Sei stato bravo a trovare la
pazienza per sopportare le interminabili ore di fila, specie quella mattina in
Ematologia, dove hai atteso il tuo turno di visita per sottoporti a un piccolo
intervento, salvo poi dovertene tornare a casa perché il medico che avrebbe
dovuto effettuarlo non sapeva che tu fossi lì.
Sei stato bravo, quasi un anno fa,
a riprenderti da un infarto, che hai potuto superare anche grazie alle prime,
fondamentali, cure ricevute quella sera al Punto di Primo Intervento dello
"Scillesi d'America". Sai papà, fosse successo quest'anno, alla
stessa ora, avresti trovato la porta dell'ex ospedale chiusa e saremmo dovuti
andare a Reggio in macchina, senza sapere se saresti arrivato in tempo per
essere operato d'urgenza e guarito, come l'anno scorso.
Sei stato bravo, infine, venti
giorni fa, quando ti abbiamo dovuto ricoverare per un nuovo problema, stavolta
al polmone. Dopo una settimana passata a girovagare per quattro reparti e una
nuova operazione, i medici ti hanno potuto mandare a casa soddisfatti. Loro sì,
erano soddisfatti, ma tu eri stanco: «Portami a casa...» -mi hai detto appena
ci hanno detto che ti dimettevano- «...voglio morire a casa.» Queste parole
resteranno per sempre scolpite nella mia memoria, perché lì ho capito che non
ce la facevi più: in cuor tuo avevi detto basta. D'altra parte, il numero 17
non ti è mai piaciuto e non ce l'hai fatta proprio a finire quest'anno che ne
porta le cifre.
Gli ultimi dieci giorni, infatti,
hai smesso di mangiare: «Dove devo andare ormai, legato qui come un cagnolino!»
mi hai detto fissando le goccioline lente della flebo che hanno scandito le ore
dei tuoi ultimi giorni.
Poi, in pochissime ore, l'ultima
stazione, l'ultima preghiera a Gesù ed hai ritrovato la pace e la serenità, che
stavolta dureranno per sempre.
Papà, dicevi sempre: «Due cose sono
importanti per l'uomo: la salute e il lavoro.» E guarda oggi: sono due elementi
di cui l'uomo "moderno", il politico "moderno" ritiene di
poter fare a meno: gli ospedali chiudono, così come i punti di primo,
essenziale, intervento; e il lavoro o te lo inventi o non ti resta che trovare
strade che portano lontano da qui. E questa realtà non ti piaceva, non poteva
piacere a te che finché hai avuto la salute, non ti sei risparmiato, hai lavorato
sempre, fin da bambino! E con il tuo lavoro hai potuto costruire una famiglia,
la nostra.
Poi, quando la salute ha cominciato
a venir meno, con la forza che ti derivava dal non aver mai nascosto la tua
umana fragilità, hai continuato a illuminare le nostre vite e quelle dei tuoi
parenti e di coloro che hanno avuto modo di conoscerti e di volerti bene,
rendendo tutti migliori.
Adesso, sei una piccola luce che
brilla intensamente e ci illumina dal cielo. E la tua luce, papà, arriva fin
qui: la vedo negli occhi di mamma e di Mariangela ogni giorno; la vedo negli
occhi dello zio, tuo fratello; negli occhi dei tuoi nipoti -con i quali siamo
cresciuti come fratelli- e dei loro figli, cui volevi un gran bene; negli occhi
di tutti i tuoi amici ogni volta che li incontro per strada.
Guidato da questa luce continuerò
il mio cammino, essendoti infinitamente grato del fatto che sarò conosciuto e
riconosciuto per sempre come figlio di Paolo Picone.
Tuo
Francesco
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