Sul tavolo del salotto di casa mia, c'è una
teiera con un paio di tazzine, tutte in porcellana fine di colore bianco e
rosso. Era il "servizio buono" di mia nonna Angela. Raccontava, la
mia nonna paterna, di averlo salvato durante la Seconda Guerra Mondiale.
Sotto la minaccia dei bombardamenti che
colpirono parte del centro abitato di Scilla e zone limitrofe, tutta la
famiglia di mio padre -marito, moglie e tre bambini piccoli (il maggiore dei
quali aveva quasi dieci anni, il più piccolo, mio padre, solo sei)- scappò, a
piedi, e salì a Melia, percorrendo la vecchia strada comunale ( circa dieci
chilometri), fino a raggiungere la vallata di Pannato.
Qui vi
rimasero fino all'arrivo degli Alleati, ospitati da una famiglia di
"sangiu'anni", con i quali condivisero praticamente tutto, nutrendosi
di ciò che offriva loro terra che coltivavano e dormendo in un fienile, su
"brande" di paglia.
Tra le poche cose che riuscirono a portare
con loro, c'erano: i materassi, qualche piccolo gioiello di mia nonna e il
"servizio buono" in porcellana, che mia nonna non voleva venisse
rubato qualora i soldati fossero entrati nella casa che furono costretti ad
abbandonare per via della guerra.
Ho pensato al "servizio buono" di
mia nonna, ieri sera, mentre vedevo scorrere in TV le immagini provenienti
dall'Ucraina assediata dai russi da circa tre mesi ormai.
Nelle immagini della coraggiosa reporter
Francesca Mannocchi, si vedeva una bimba costretta ad abbandonare casa sua per
colpa della guerra, ma contenta di aver potuto salvare i suoi conigli, chiusi
in delle scatole di cartone con delle piccole feritoie per l'aria.
Si
vedevano i palazzi bombardati, anneriti dal fumo, all'interno dei quali vivono
ancora delle persone. Sì, in quelle case sventrate, semidistrutte e pericolanti,
è rimasto anche chi non ha la forza di scappare perché costretto a letto da una
malattia; chi ha scelto di sacrificarsi, preferendo essere lasciato solo dai
propri familiari, lì, a morire, pur di sapere salvo il resto della famiglia.
Queste anime fragili sono coloro che la reporter ha giustamente definito
"i Sacrificati", in quanto hanno rinunciato a salvarsi per il bene
altrui, per non essere di peso agli altri della famiglia.
Ecco, ho pensato, ottant'anni fa, pur
nell'orrore di cinque anni di guerra, la famiglia di mio padre fu fortunata,
riuscendo a sopravvivere e mia nonna riuscì a salvare perfino il suo
"servizio buono" che, ad eccezione di alcuni pezzi che si ruppero
durante il trasporto, non fu sacrificato.
Nella guerra in corso in Ucraina, invece, a
essere sacrificati non sono solo le cose, ma gli esseri umani, i più indifesi,
le anime fragili. A prima vista, la loro vita vale meno dei conigli di quella
bimba o del "servizio buono" di mia nonna Angela. In realtà, a ben
vedere, la loro vita non vale meno di quella di un soldato che combatte al
fronte, solo il coraggio e la forza sono diversi: il soldato ha il coraggio e
la forza di imbracciare un fucile o un missile anticarro; i Sacrificati hanno
il coraggio e la forza di offrire per gli altri la loro fragilità.
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