“Non muoio neanche se mi ammazzano” è frutto della scrupolosa ricerca condotta da Letizia Cuzzola su una delle vicende meno note della Seconda Guerra Mondiale, quella degli IMI –gli Internati Militari Italiani.
Furono definiti così dai tedeschi quei soldati che, dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, vennero catturati, rastrellati e deportati nei territori della Germania. Traditi dall'inadeguatezza dello Stato monarchico italiano che fino a quel momento avevano servito, da quel momento, non furono più uomini.
Erano dovuti
passare ben dieci anni, prima che il mondo scoprisse il vero volto di Hitler, colui
che il 20/7/1933, dopo soli quattro mesi dalle elezioni che lo portarono ad
appropriarsi del potere assoluto, fece firmare per suo conto il Concordato tra
la Santa Sede e il Reich germanico. A sottoscriverlo per il Vaticano fu il
Cardinale Eugenio Pacelli –poi eletto Papa nel 1939 con il nome di Pio XII- e
per la parte tedesca Franz Von Papen (un nome, un destino!?). Nel testo dell’accordo,
che è riportato in appendice al libro, mi ha colpito l’art. 32,nel quale è
scritto testualmente:
«A causa delle attuali particolari circostanze della
Germania…»
Beh, mi è
parso un modo diplomaticamente fin troppo elegante per dire: lo sappiamo che Hitler
è un buono a nulla che farà solo danni, ma è meglio mettersi d’accordo lo
stesso.
Torno al
tema centrale del libro, i soldati italiani prigionieri dei tedeschi. Subirono
anche loro le deportazioni nei carri-bestiame, sopravvissero nei campi di
prigionia, si videro considerati come semplici Stücke, ovvero
pezzi di una catena di montaggio. Vennero, infatti, utilizzati nelle fabbriche
tedesche che rifornivano l’industria bellica germanica.
Fu un perverso meccanismo di
disumanizzazione, nel quale quei soldati furono per prima cosa privati dei loro
nomi, sostituiti da numeri, il loro codice a barre, come –nota l’autrice- «se
fossero i nostri nomi l’ingombro.»
Durante la prigionia, tanti
sono gli episodi narrati nei quali la disumanizzazione prende forma. Ne riporto
un passaggio che fa comprendere tutto l’orrore di quella condizione:
«Accadde
un giorno che in baracca alcuni degli altri internati si mettessero a urlare
festanti che stava passando il carro del pane, addirittura un carro pieno; in
realtà erano cadaveri accatastati dei poveri russi decimati come mosche.
Chiedemmo ai compagni come fosse venuto loro in mente di ridere e scherzare
sulla morte e sul pane, ci risposero che quelle ormai non erano più bocche da
sfamare e che le loro razioni, forse, si sarebbero aggiunte alle nostre.»
In questo perverso ed
orrorifico meccanismo, tuttavia, si intravede sempre la luce che spinge i
nostri soldati prigionieri a sperare, sognare, intravedere e, infine, godere
della libertà, il bene più prezioso.
E basta quella luce, seppur
offuscata anche dalla lontananza dalle famiglie, dal dolore di sapere che non
conosceranno mai i loro figli –nati e morti durante la guerra, con i padri al
fronte, prigionieri- a farli sentire pur sempre uomini.
Respirava attimi di libertà il
soldato compagno di prigionia del nonno dell’autrice, ogni volta che annotava
su un libretto con un mozzicone di matita le brevi note di giornata che, a
distanza di sette decenni sono state il diario che ha aiutato a ricomporre il
puzzle di queste vicende sconosciute ai più. La scrittura è esercizio di
libertà.
Quei prigionieri respiravano
libertà ogni qualvolta scrivevano il loro NO! sul foglio con il quale i
tedeschi cercavano di arruolarli in quello che avrebbe dovuto essere il nuovo
esercito che Mussolini voleva ricostituire. Era un NO! «..Sufficientemente
grande da sfregiarlo e renderlo inservibile….bastava quel rifiuto a concederci
un respiro.»
Si sentirono uomini liberi nei
rapporti con il loro datore di lavoro che, nonostante le finalità belliche
della produzione- cercò di instaurare relazioni umane che fossero il più vicino
possibile alla normalità.
Respirarono e gustarono di
nuovo il sapore della libertà, quando dopo essere stati liberati dalla
prigionia, assaggiarono per la prima volta le gomme da masticare americane,
offerte loro dai liberatori. Così «…la libertà aveva il sapore della menta.»
Riacquistarono la libertà,
ritrovando in quella terra così lontana dalla loro Patria, dalle loro famiglie,
uomini con le stesse loro radici:
«Ogni
soldato americano che incontravamo apriva il suo zaino e ci regalava
qualcosa…la maggior parte di loro aveva origini italiane, erano figli e nipoti
di emigrati soprattutto dalla Calabria e dalla Sicilia…lontani da casa avevano
la possibilità di poter dire qualche parola nella lingua dei loro padri e dei
nonni, erano ancora più soddisfatti di aver liberato una parte del loro sangue.»
La ritrovata umanità dopo l’incontro
con quei soldati, diede poi ai prigionieri la forza di tornare a casa, solo dopo, però,
aver dovuto affrontare un altro lungo viaggio.
Ecco, la lettura di questo
libro lascia la consapevolezza che ogni essere umano che opera con l’intento di
sopraffare gli altri per mezzo del male anche più tremendo e disumano, non potrà
mai soffocare del tutto il desiderio di libertà di chi quel male subisce.
Ci insegna e ci ricorda di apprezzare sempre quello che abbiamo, per quanto poco ci possa sembrare.
Ci conferma il dovere dell'ammirazione totale per una generazione, quella dei nostri nonni, per la forza che hanno avuto nel rialzarsi dopo essere caduti vittime di sopraffazioni, tradimenti e lutti provocati da un regime infausto. Sono da ringraziare per la capacità che hanno avuto di sopportare, di portarsi tutto dentro, raccontando poco o nulla degli orrori che avevano vissuto. Oggi sappiamo che ciascuno di coloro che ha combattuto, che è stato prigioniero, ha certamente sofferto di quella che i medici chiamano PTSD - Disturbo da stress post-traumatico. Ebbene, sono stati talmente forti e senza l'aiuto di nessun medico, da non farci accorgere di niente e farci vivere tempi di libertà e felicità come mai si erano visti prima nella storia d'Europa.
Il dolore, patito sotto diverse forme, lo hanno saputo avvolgere nella loro dignità ritrovata, lo hanno serbato nelle loro menti, dietro il loro sguardo profondo, severo ma buono, che vediamo ancora oggi nei loro ritratti –come quello che fa da copertina al libro- che teniamo in casa, in segno di affettuoso perenne ricordo e riconoscenza.
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