15 settembre 2010

L’EDUCAZIONE, LA TRISTEZZA COLLETTIVA E GLI STRUZZI

struzzo-300x192 "Se non avessimo la Calabria, la conurbazione Napoli-Caserta, o meglio se queste zone avessero gli stessi standard del resto del Paese, l'Italia sarebbe il primo Paese in Europa…Un cancro sociale e culturale. Un cancro etico, dove lo Stato non c'è, non c'è la politica, non c'è la società". (Renato Brunetta)

Queste parole, pronunciate pochi giorni fa, hanno sollevato tante di quelle reazioni che il povero Ministro –pur già basso di suo- è stato seppellito di critiche. Beh, ci voleva poco, direte voi, è cusì mbasciu, ‘u ‘maru!

Mbasciu, ma non fissa.

Beh, le parole sì, sono state forti, ma non si può certo negare che in Calabria e nel reggino in particolare, in molti nostri conterranei manca l’idea di fondo di cosa sia la società, per non dire di cosa sia la società che suol e vuol dirsi civile.

Dite di no?

Domenico Luppino è l’ex sindaco di Sinopoli –centro preaspromontano a pochi chilometri da Scilla- nonché presidente della Cooperativa “Giovani in vita”, che gestisce i terreni confiscati alla ‘ndrangheta.

Dopo numerosissime intimidazioni subite durante il suo mandato di sindaco –carica dalla quale si è dovuto dimettere, dopo la rinuncia di alcuni consiglieri della sua stessa maggioranza- nei giorni scorsi, Domenico Luppino ha visto prima andare in fumo 30 ettari di questi terreni –tra agrumeti, uliveti e vigneti; su un altro terreno, ha trovato ad accoglierlo, impiccata a un albero, la carcassa di un cane, in avanzato stato di decomposizione; infine (almeno si spera), è di oggi la notizia che in un’altra proprietà, Domenico Luppino non ha più trovato vive circa trenta galline che facevano parte del suo pollaio.

Davanti a episodi del genere, e a ogni tipo di attentato in genere, come si può parlare di civiltà?

Nella sua omelia pronunciata ieri in Cattedrale a Reggio, Mons. Vittorio Mondello ha detto in maniera chiara e inequivocabile:

Gli attentati sono la dimostrazione di una carenza di educazione e la manifestazione di una subcultura mafiosa. Questa mentalità mafiosa, difficile da estirpare, induce molti a sentirsi dominatori degli altri e a non sopportare alcuna opposizione alle proprie richieste e al proprio interesse e predominio.”

Dunque, non ci può essere società civile senza coscienza civile. Quella coscienza che solo l’educazione civica può dare.

Alcuni, ma solo alcuni, preferiscono far parte di un altro tipo di società: quella criminale.

E a Polsi -che in greco significa “elevazione della croce”, in occasione della cerimonia dedicata appunto alla croce, Mons. Giuseppe Fiorini Morosini –vescovo di Locri-Gerace-  ai giovani e in particolare a quei giovani che credono che la scuola sia una perdita di tempo e subiscono l’attrazione del facile Eldorado che viene loro prospettato da quegli stessi soggetti che in realtà non pensano ad altro che al proprio interesse e al predominio sugli altri, ha detto:

Voglio mettere in guardia i nostri giovani. La croce di Polsi è stata affidata a voi. Onoratela, non profanatela aderendo ad associazioni che hanno alla loro base il crimine o malaffare. Il battesimo di Cristo vi salva, altri battesimi, che vogliono scimmiottare quello cristiano, vi distruggono la vita e vi perdono”.

Preso atto delle richieste di scuse -tra le quali quella dell’intero Consiglio Regionale calabro- oggi, con una lettera pubblicata su “Il Messaggero”, il Ministro Brunetta non si è certo scusato ma ha precisato il suo pensiero:

Non ho sostenuto, né mai pensato, che la soluzione del problema consista nell’amputazione dell’Italia, nel prendere parti del Meridione e portarli chissà dove.

…Si ritiene più comodo aggregaci tutti nella condanna di qualche criminale macellaio, tacendo sulle continue, ripetute e diffusissime violazioni della legge che rendono fuori controllo tante fette del nostro territorio nazionale?

….Lo chiamo “cancro”: un male che divora in continuazione, che aggredisce gli innocenti e gli onesti, riducendoli al silenzio, che rende possibile una classe dirigente di struzzi, cui la distrazione non può essere rimproverata più della connivenza.”

Mi tornano in mente le parole pronunciate a “Presa Diretta” da due giovani donne che vivono al nord: una figlia di un boss della ‘ndrangheta, l’altra moglie di un presunto affiliato a una delle ‘ndrine che operano in Lombardia, oggetto delle recenti operazioni di polizia.

Dalle loro parole è emersa una profonda tristezza: la prima, si dannava l’anima per via del cognome “pesante” che –a torto o a ragione- la condiziona; la seconda, in lacrime, si rendeva conto che i problemi del padre ricadranno inevitabilmente anche sul figlio, ancora un bambino.

In entrambe, vi era la profonda tristezza di non riuscire a staccarsi da quell’ambiente familiare che diventa una catena, un laccio, che stringe sempre più forte, fino a soffocare ogni tentativo di venirne fuori. La tristezza di vivere in una “famiglia”, piuttosto che in una famiglia.

Questo “cancro” che deforma la società, la famiglia, le istituzioni, la religione, da qualunque lato lo si osservi, sia dalla parte dei “buoni”, sia dalla parte dei “cattivi”, ci rende un Paese a “tristezza collettiva”, diviso e perciò debole.

Ribalterei quindi in maniera simmetrica l’affermazione di Brunetta.

Lì dove non c’è l’educazione, non c’è la società. Lì dove non c’è la società, non c’è la politica (intesa come arte di governare). Lì dove non c’è l’arte di governare, non c’è lo Stato.

Lo sanno e se ne rendono conto i tanti Domenico Luppino della Calabria, del Meridione, d’Italia.

Lo sanno e se ne rendono conto tante giovani donne, mogli e madri, che sanno di essere –loro malgrado- dall’altra parte e, per questo, vorrebbero attraversare il guado, una volta per tutte.

Lo sanno, ma non vogliono vederlo, i troppi che, nello Stato, vivono solo e soltanto di connivenze. Che struzzi!

11 settembre 2010

GOD BLESS AMERICA

america 11 Settembre 2001. Da quel giorno, il mondo non è più lo stesso.

Oggi, come nove anni, l’America ha ricordato il sacrificio di 3000 persone.Reggio_calabria_processione_festa_madonna

Oggi, come nove anni fa, per uno strano incrociarsi dei destini umani, a 9000 km di distanza da quello che fu il tragico teatro dell’attacco terrorista, si è rinnovato il rito della discesa del quadro della Madonna della Consolazione.

Quella consolazione che ancora sperano di trovare i parenti delle vittime e i parenti dei numerosi soldati morti in questi anni di guerra in Iraq e in Afghanistan.

 

Sono passati nove anni e gli Stati Uniti cercano ancora di riprendersi, di riguadagnare quella forza che solo l’unione d’intenti può dare.

Ne è estremamente consapevole il Presidente Obama, il quale –pur bersagliato da critiche sempre più forti- nel suo discorso di commemorazione delle vittime degli attentati fatto al Pentagono, ha ricordato:

“Quelli che ci hanno attaccato hanno cercato di demoralizzarci, di dividerci, di privarci della stessa unità, degli stessi ideali, che rendono l'America l'America - quelle qualità che hanno fatto di noi un faro di libertà e di speranza per miliardi di persone in tutto il mondo. Oggi dichiariamo ancora una volta che non gliela daremo mai vinta. Come americani, manterremo vivi le virtù e i valori che ci rendono ciò che siamo e che dobbiamo sempre essere….Che Dio continui a benedire gli Stati Uniti d’America”. (tratto dal discorso del Presidente Barack Obama al Pentagon Memorial di Arlington, Virginia)

E le parole conclusive, con le quali gli statunitensi sono soliti chiudere i discorsi più importanti, sono anche il titolo di una bella canzone, una preghiera, che fa parte della tradizione americana.

Ed in segno di vicinanza e di riconoscenza verso questo grande Paese, mi piace proprio oggi condividerla.

God bless America (Words and music by Irving Berlin)

"While the storm clouds gather far across the sea,
Let us swear allegiance to a land that's free,
Let us all be grateful for a land so fair,
As we raise our voices in a solemn prayer. "

God Bless America,
Land that I love.
Stand beside her, and guide her
Thru the night with a light from above.
From the mountains, to the prairies,
To the oceans, white with foam
God bless America, My home sweet home.

"Mentre le nuvole della tempesta si riuniscono lontano attraverso il mare,
giuriamo fedeltà a una terra che è libera,
siamo tutti grati per una terra così bella,
mentre alziamo le nostre voci in una preghiera solenne. "
Dio benedica l’America,
Terra che amo.
Le stia accanto, e la guidi
Attraverso la notte con una luce dall'alto.
Dalle montagne, alle praterie,
agli oceani, bianchi di schiuma
Dio benedica l'America, mia casa dolce casa.

05 settembre 2010

‘U PAISI RI FURISTERI

scilla night Per chi ancora non lo sapesse, Scilla è amorevolmente definito da tutti gli scigghitani suoi figli sparsi per il globo come: ‘u paisi ri furisteri.

La definizione non si riferisce certo agli abitanti, chi sunnu ‘ndigini scigghitani, ma alla loro propensione naturale non solo ad accogliere il forestiero (la qualcosa è puru bona rucazioni), ma a ritenerlo, a prescindere, sempre più colto, più preparato, insomma, cchiù megghiu di qualunque altro essere umano nelle cui vene scorre sangu ru Scigghiu.

Tale convinzione, evidentemente basata sull’altro famoso assunto secondo il quale a Scilla si spaccau ‘u saccu ri storti –da cui la famosa frase: “Ma tutti ‘i storti ccà carunu?!”- abbraccia e comprende ogni campo, ogni carica della vita sociale, civile e religiosa della comunità dello Scigghio.

Al riguardo, ristau nta storia una famosa frase pronunciata da uno zio della mia nonna materna, Rocco Morabito, alias ‘u Zzì Rroccu ‘u Trunnisi [zio Rocco detto “il tornese”].

Esaminando la realtà scillese del tempo (siamo a cavallo tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 dello scorso millennio), ‘u Zzì Rroccu ebbe infatti ad affermare:

“A Scilla? Tutti furisteri!

‘U Sindicu? Furisteri!

U speziali? Furisteri!

U previti? Furisteri!

Sant’à Rroccu? Ra Francia!”

02 settembre 2010

‘A MARONNA RA MUNTAGNA E ‘A CRAPA I BOVA

polsi Oggi è la festa ella Madonna della montagna di Polsi, il cuore dell’Aspromonte.

Questo luogo, che di recente è stato oggetto di attenzione da parte di tutti i mezzi d’informazione nazionali e non, solo per via dei summit tenuti tra i capi della ‘ndrangheta reggina, vede rinnovarsi oggi i riti di una festa che non è solo religiosa, ma anche di popolo, con musica, balli, tarantelle. Riti (religiosi e pagani), che si rinnovano da centinaia di anni.

Da secoli infatti, i calabresi della provincia di Reggio e anche i siciliani –specie della provincia di Messina- compiono un atto di fede autentica e salgono al Santuario di Polsi, a rendere omaggio alla Madonna della montagna per le grazie ricevute.

Numerose sono le storie che si raccontano, legate più o meno indirettamente alla tradizione popolare. Oggi, ne vogliamo raccontare una in particolare.

Tra i tanti pellegrini, vi era nu massaru, un pastore, di Bova –cittadina della ionica reggina e centro nevralgico della Bovesia, l’area grecanica della provincia riggitana, dove si parla il greco-calabro.

U massaru, in segno di ringraziamento alla Madonna di Polsi per una grazia ricevuta, cominciò ad allevare una piccola capretta.

Dovendo essere dono per la Madonna, ‘u massaru teneva particolarmente all’animale, tanto da dargli le erbe migliori e riservargli un trattamento particolare, tanto che ‘a crapa crisciva un iornu pi ‘n annu, vale a diri a vista d’occhio.

Arrivato il 2 settembre, giorno della festa, ‘u massaru, entrato nella stalla, guardò la capra e rimase lui stesso stupito dalla stazza dell’animale: era venuto su così bella e forte, chi nci pariva bruttu privarsene, anche per un fine così nobile.

Fattu sta che ‘u massaru, evidentemente pigghiatu da umana debulizza, si guardò attorno nella stalla e scelse un’altra capra, diversa da quella che aveva così accuratamente allevato.

Pigghiata ‘na corda, la passò attorno all’animale e già in piena notte si avviò lungo la strada che da Bova saliva al Santuario ra Maronna ra muntagna, unendosi agli altri pellegrini, per arrivare in tempo la mattina successiva.

Il viaggio proseguì, a peri e ca crapa ampestru, con una certa tranquillità fino a circa metà strada. All’improvviso però, l’animale, come pigghiatu da un’improvvisa paura, ‘mpuntau ‘i peri e si bloccò.

Tutti i tentativi di convincere l’animale a fare un passo in avanti, furono vani: ‘a crapa –in quantu crapa autentica e pirciò dispittusa pi natura- non si smuvìu mancu pi l’ordini ru Papa!

L’improvviso stop ra crapa, aveva intanto provocato un’indescrivibile coda e le inevitabili lamentele da parte degli altri pellegrini.

A un certo punto, un uomo si avvicinò o’ massaru per chiedere spiegazioni e ‘u massaru gli disse seccamente: “Non su’ fatti vostri!”

Al che, l’uomo rispose: “No, non su’ fatti mei, su’ fatti ra Maronna!”

A questa parole, ‘a crapa vutau i ponti e cominciò a correre velocissima in direzione contraria a quella del santuario. ‘U massaru, disperato, cercò di rincorrerla più che potè, ma poi si arrese: ra crapa non c’era signu!

Al massaro non restò che arrendersi all’evidenza. A quel punto, infatti, capì il senso delle parole dello sconosciuto e si convinse.

Tornò dunque alla stalla, prese la capra buona, quella che inizialmente aveva allevato con l’intenzione di offrirla alla Madonna, e si incamminò nuovamente lungo la strada che conduceva al Santuario.

La capra era così in salute e forte, che cominciò a correre sempre più forte lungo la salita, trascinandosi dietro ‘u poviru massaru.

Arrivarono a Polsi, davanti al Santuario in pochissimo tempo, superando il resto dei pellegrini che li precedevano.