26 dicembre 2021

TEMPO DI REGALI E REGALI DI UN TEMPO

Natale, tempo di regali. Ogni anno, è il rito pagano che affianca -e spesso supera, fino a sopraffarlo- quello religioso.

Si fa a gara a chi ne riceve di più e di più belli, nelle case si fatica a trovare loro il posto, perché sono troppi per stare nel paniere posto strategicamente sotto l'albero. Ci vorrebbe un contenitore più capace, a tipu 'n cofunu o 'na cufunetta.

Per chi non li conoscesse, sono i contenitori che si usano durante la vendemmia, per raccogliere temporaneamente l'uva che viene poi trasportata -oggi su mezzi motorizzati, una volta a piedi, in equilibrio sulla testa di donne esperte- verso il palmento per la successiva pigiatura.

Sono cesti a forma di tronco di cono, fatti di stretti fasci di legno sapientemente intrecciati, con apposite maniglie per agevolarne la presa e si differenziano tra loro per diametro e altezza. 'U cofunu raggiunge i 60-70 cm di altezza, mentre 'a cufunetta, più piccola, si ferma a circa 40-50 cm.

Parlando di regali, cofunu e cufunetti, mi è tornata in mente una storia di regali di un tempo, raccontatami qualche giorno fa.

C'era una volta (non è una fiaba ma una storia vera, però mi piace iniziare così) un padre, grande lavoratore, che ogni anno portava avanti la sua attività anche durante i caldi giorni dell'estate scillese. Da quando aveva iniziato a lavorare, fin da giovanissimo, e pure in seguito, dopo il matrimonio e la nascita dei figli, non aveva mai preso una settimana di ferie.

Un'estate, però, quando i figli erano abbastanza grandicelli per poter viaggiare con una certa serenità, decise che era giunto il tempo per loro di conoscere le bellezze della nostra meravigliosa Italia. Fu così che, finalmente, prese una settimana di riposo dal lavoro e insieme alla famiglia fece un rapido giro della penisola italica: i freschi paesaggi montani del Trentino, per riprendersi dalla calura scigghitana; poi Venezia,la Chianalea del nord; continuando a scendere, fu la volta di Firenze, coi suoi tetti tutti uguali e, infine, la capitale Roma, ché, si sa, le strade tutte lì portano.

Per i figli, che non si erano mai allontanati troppo da Scilla fino ad allora, fu un'esperienza bellissima, tanto che ancora oggi, a tanti anni di distanza, la ricordano con dovizia di particolari.

Un episodio, però, rimase impresso nella loro mente più degli altri. Mentre si trovavano a Venezia, il padre volle portare la famiglia a visitare la cattedrale di San Marco e, quindi, l'omonima piazza antistante. Una volta completata la visita, poiché era ora di pranzo, il padre volle offrire a moglie e figli il privilegio di pranzare in un noto ristorante di piazza San Marco. La moglie fece qualche obiezione, ma alla fine fu d'accordo col marito: i propri figli avrebbero ricordato di essere stati, proprio lì, in quel posto esclusivo al mondo, ogni volta che avrebbero avuto occasione, in futuro, di tornare nella Serenissima.

Entrati nel ristorante, i figli restarono subito colpiti e affascinati dall'arredamento ricercato del locale e dall'eleganza dei camerieri, in livrea e guanti bianchi. Preso posto a un tavolo già apparecchiato di tutto punto, un cameriere si avvicinò e riempì d'acqua i loro bicchieri. Quindi, prese le ordinazioni. Dovendo proseguire il giro turistico, decisero di evitare di 'mpanzarsi, così ordinarono un secondo: cotolette.

Mentre aspettavano che arrivassero le pietanze ordinate, ingannando l'attesa in una tranquilla conversazione familiare, sorseggiavano l'acqua e ogni volta che il bicchiere si svuotava, il cameriere provvedeva sollecitamente a versarne dell'altra. Ciò attirò l'attenzione dei bambini e una di loro si domandò: Ma chistu -cioè il cameriere- pirchì continua mi ndi inchi 'i biccheri, se nui mbivimmu ora-ora!?

Finalmente, arrivarono le cotolette: una ciascuno e manco molto grande, al contrario di come siamo abituati nelle case calabresi. La famiglia consumò il pasto, serena e tranquilla, godendosi quel momento di riposo e spensieratezza.

Finito il pranzo, arrivò il momento di pagare il conto. Il padre andò a pagare e tornò al tavolo. La moglie, in quanto fimmina e madre risparmiatura calabrisi scigghitana, non resistette alla curiosità di chiedere al marito quanto avessero pagato.

Il marito, in quanto masculu e padre orgoglioso lavoratore calabrisi scigghitanu, rispose: Pavammu, iamanindi.

Secondo voi, la moglie si accontentò di quella risposta? Certo che no! In maniera risoluta, come solo le mamme calabresi sanno esserlo, disse subitanea al marito: E no, ' u vogghiu sapiri!

Ora, poiché l'amore, tra le tante sue forme, spesso assume quella del compromesso, il marito decise di rivelarglielo, ma in modo discreto e strettamente confidenziale: per non svelare ai bambini quell'aspetto materiale che avrebbe spezzato la magia di quel giorno particolare per loro, sussurrò il totale del conto all'orecchio della consorte.

Una volta usciti dal ristorante, la madre, che dentro il locale era rimasta impassibile dopo aver udito il sussurro numerico-economico del marito, si fermò, lo guardò dritto negli occhi ed esclamò perentoria e definitiva: Oh figghiu! Cu chiddhu chi spindimmu, ndi faciva 'na cufunettata 'i cutuletti!!

Oggi, nel ricordare a distanza di tanti anni quell'episodio, quei figli rinnovano -pure nell'espressione del volto e degli occhi che accompagna il loro racconto- la gratitudine e la riconoscenza verso i sacrifici fatti dai propri genitori, perché consapevoli del dono ricevuto anche con quella vacanza per loro inaspettata.

Ah, un'ultima cosa: non seppero mai quale fosse stata la cifra pagata in quel ristorante di Piazza San Marco. Non ha importanza, perché l'amore di un padre e di una madre non hanno prezzo.