29 dicembre 2013

REGGIO E LA CULTURA... DEL “FUTTIRI CUMPAGNU”

 

museopienomuseovuotoDopo aver letto l'analisi fatta nell'articolo "Facce da Bronzi" di Claudio Cordova su ‘Il Dispaccio’–che condivido in pieno, non posso non rilevare che anche in questa occasione abbiamo avuto la conferma di due cose:

1) Il reggino non si tira mai indietro quando ha l'opportunità di usufruire di qualcosa gratis. Che si tratti della sagra del "pani cu l'ogghiu e cu rriniu", della "frittolata di Natali o capudannu" o dei bronzi di Riace, non fa alcuna differenza: si partecipa. Ma solo per poter dire agli amici: "Ancora n'e viristi i bronzi?....Ah, ieu ia quandu non si pavava, e chi su' fissa?"

Potrò sembrare brutale, ma questo non significa fare cultura ma continuare a giocare a "futtiri cumpagnu".

2) Che i mestieranti della politica parlino di una rinascita non stupisce, ma tutti sappiamo che una città non è né un gatto né una fenice.

Forse a loro (ai mestieranti intendo), basterà avere i titoli sui giornali locali o nei tg nazionali; basteranno le inquadrature di quelle che non sono code per la cultura ma banali code del gratis -come davanti ai negozi quand' è tempo di saldi. E' solo fumosa propaganda.

La verità è che, se proprio vogliamo essere buoni, Reggio ha confermato di essere una città turistica buona da visitare o da gustare (vedi l'ennesima riapertura del Cilea) per un solo giorno.

Dalla cultura vera, fatta di teatri e musei che siano anche fonte di ricchezza e di risorsa economica reale, siamo -ahinoi!- ancora molto lontani.

*N.B: foto tratta da http://www.ildispaccio.it/

25 dicembre 2013

I CERVELLI IN FUGA E MASTRU NATALI

 

b_falegnameL'aria festiva non riesce a distogliermi dal dovere di tenermi impegnato, perciò ho deciso ti raccontarvi una storia, anzi, il prosieguo di una storia iniziata ben cinque anni fa.
A farmela tornare in mente è stato proprio il Natale.
C'era infatti una filastrocca che faciva cusì:

Serra serra, Mastru Natali,
chi 'i 'na chianca
non pigghia 'n mandali.

Ora, per i non indigeni, è bene dar qualche spiegazione. Il Mastru Natali della filastrocca è un falegname che...tantu mastru non è. Egli, infatti, nonostante l'impegno che ci mette, sega oggi e sega domani, da un'intera tavola (la chianca), non riesce a ricavare nemmeno una semplice maniglia della porta (il mandali).

Diciamolo subito:  il Mastru Natali della nostra storia è nientepopodimeno che la Regione Calabria, la quale ha deciso di spendere (sarà vero?) gli ultimi spiccioli dei fondi POR CALABRIA FSE 2007 – 2013 per “Iniziative di politica attiva a favore di laureati calabresi già impegnati nel’’ Programma Stages’’ di cui all’art. 10 della Legge Regionale 22 Novembre 2010, n. 32”
Fuori dal linguaggio burocratico, stiamo parlando della norma con la quale la Regione assicurava un contributo (€ 10.000,00) a favore dei Comuni e degli Enti che stipulavano contratti di lavoro con i giovani impegnati nel Programma Stages" -meglio noti come i “Cervelli in fuga” calabresi- al nobile fine di non disperderne il patrimonio di conoscenza già acquisito.
L'iniziativa, per quanto lodevole, era però a tutti gli effetti altrettanto effimera, visto e considerato che i contratti duravano appena un anno, dopo di che....va' troviti pani!

Dalla scadenza di quella norma (peraltro ricca di aspetti paradossali, che fanno a pugni col diritto), più nulla, tutto morì, a stento.

Son passati oramai due anni, un tempo durante il quale ciascuno degli stagisti, proprio perché dotato di proprio autonomo e ben funzionante organo cerebrale, è andato dritto per la sua strada, a trovarsi da solo il pane che merita.

Sennonché, con un annuncio pubblicato -anzi, ripubblicato, visto che anche a luglio si era provato a giocare la stessa carta- sul sito istituzionale “Calabria formazione lavoro” il 20 dicembre, la Regione si pregia annunciare all'urbe e all'orbi è in corso di registrazione il Decreto di Approvazione dell'Avviso pubblico relativo alle iniziative di cui sopra.
Ora, va bene che siamo sotto Natale e che è tempo di regali; va bene che, come recita un nostro detto “cu' non 'ccetta, non merita” (ovvero, chi non accetta ciò che gli viene offerto, vuol dire che non lo merita); va bene tutto, insomma, ma leggere certe cose sapendo come si sono svolte le calabre “vicende cervellifere”, scusate la franchezza ma, con decenza parlando, suona come una vera presa per il culo, per una serie di motivi.

Primo: annunciarlo a pochi giorni dal Natale, è come dire: hei, guardate che bel regalo vi stiamo per fare!
Secondo: anche in questo ennesimo avviso, vi è la solita formula:  “al fine di non disperdere il patrimonio di conoscenza già acquisito dai giovani impegnati nel “Programma Stages”. Intento già andato allegramente a farsi strabenedire nel recentissimo passato.
Terzo: anche in questo avviso si ripropongono esperienze di lavoro formative mediante voucher, incentivi sotto forma di prestiti d'onore (rispolverando il principio di una vecchia legge statale che in Calabria, in molti casi, è stata sfruttata a mo' di semplice futtisteriu di soldi pubblici) e -sintiti! sintiti!- doti occupazionali in aziende calabresi.
In merito a quest'ultima possibilità, viene semplicemente da ridere (per non piangere), atteso che di aziende sul territorio regionale non è che ve ne siano chissà quante e, per di più, le poche che ci sono, non sono generalmente in grado di far fronte ad assunzioni con contratti a tempo indeterminato. Inoltre, il concetto stesso di “dote occupazionale” lascia piuttosto perplessi. Siamo per caso tornati agli anni '50, quando per sposare una figlia, il padre o la madre erano soliti donarle in dote la casa che era stata dei nonni?
Nel caso dei “Cervelli in fuga”, le doti occupazionali non sono il frutto di regali o donazioni, ma il frutto di un lavoro vero e proprio (ho le prove di ciò che scrivo), portato avanti per due anni e oltre.

Non mi soffermo poi su altre questioni di carattere legale inerenti la regolarità di alcune delle procedure previste nell'avviso. Costituiranno materia per gli avvocati e i tribunali amministrativi regionali, come gran parte delle norme regionali sfornate negli ultimi dieci anni.

Mi chiedo soltanto: come può pretendersi o anche solo immaginarsi che 300 giovani e forti, nel pieno della vigoria fisica, rimangano fermi per due anni, in attesa dell'ennesima elemosina che la Regione è disposta ad offrire, in cambio della loro “fedeltà istituzionale”?
No, contrariamente a quanto pensano a Catanzaro, non c'è stata la riedizione in salsa calabra della “Spigolatrice di Sapri”. Gli stagisti erano 300, giovani e forti, sì, ma non sono morti. Hanno semplicemente trovato altre strade: chi si è inventato un lavoro; chi è emigrato quasi-definitivamente; chi si è buttato a capofitto nei più svariati concorsi e con esiti molto positivi.

Insomma, le 300 giovani piante, i 300 alberi del sapere hanno cercato, stanno ancora cercando, di ramificarsi e mettere radici su altri terreni, ben più fertili e disposti a consentirne la loro crescita, finalmente produttiva.
Non potevano certo rimanere nel ristretto spazio dell'orticello della Regione Calabria, accontentandosi di diventare delle “chianche”, ovvero delle semplici tavole lisce, che Mastru Natali – Regione Calabria- avrebbe continuato a piallare e ripiallare a suo piacimento, nella vana speranza di darle ogni volta una forma diversa, con l'unico risultato di sprecare tutto il materiale a disposizione e a non riuscire a realizzare manco un mandali.

Viene solo il forte sospetto che il Mastru Natali calabro ha dovuto solo giustificare in qualche modo la spesa (obbligata) di nuove tavole, con le quali non potrà far altro che ripetere sempre la stessa canzone:

Serra serra, Mastru Natali,
chi 'i 'na chianca
non pigghia 'n mandali.

10 dicembre 2013

LA COMMEMORAZIONE DI MANDELA. OBAMA: “UN GIGANTE DELLA STORIA”

Discorso di Obama alla commemorazione di Mandela: "Un gigante della storia"

A Graça Machel e alla famiglia Mandela; al Presidente Zuma e ai membri del governo; ai capi di stato e di governo, passati e presenti; distinti ospiti è un onore singolare essere con voi oggi, per celebrare una vita diversa da ogni altra. Al popolo del Sud Africa -popolo di ogni razza e cammino di vita- il mondo vi ringrazia per aver condiviso con noi Nelson Mandela. La sua lotta è stata la vostra lotta. Il suo trionfo è stato il vostro trionfo. Le vostre dignità e speranza hanno trovato espressione nella sua vita, e la vostra libertà, la vostra democrazia è la sua eredità che serbate nel cuore.
E' difficile fare l'elogio di qualunque uomo -catturare nelle parole non solo i fatti e le date che fanno una vita, ma la verità essenziale di una persona- le loro gioie e i loro dolori privati; i momenti di tranquillità e le qualità uniche che illuminano l'anima di qualcuno. Quanto è più difficile fare questo per un gigante della storia, che ha spinto una nazione verso la giustizia, e nel processo ha spinto miliardi di persone nel mondo.

03 dicembre 2013

Nessuno ama Reggio e la Calabria?...Ancora qualcuno c'è...

Leggendo l’articolo di Antonio Calabrò dal titolo “Reggio e la Calabria? Nessuno le ama, neanche i calabresi” nella mia mente si è formata l’immagine di un giovane reggino che tra 50-60-90-100 anni, per sua fortuna, riuscisse a recuperare dagli archivi internettiani questa testimonianza dolorosa di quella che oggi è la nostra realtà.
<<Vivevano davvero così a Reggio 100 anni fa?>> Credo sarà questa la prima domanda che si porrà il giovane lettore del 2113.
Non so dove sarà quando lo leggerà, se a Reggio, in una città che tornerà ad essere bella e gentile come poco più di un decennio fa, oppure lontano mille migliaia di chilometri, lontano dalle rovine che questa nostra generazione rischia seriamente di lasciargli in eredità.
E’ verissimo, non è colpa della ‘ndrangheta, non solo.
Non è solo colpa di un serpente che –a dire il vero- ogni giorno che passa dimostra di avere molto più che due teste soltanto. Non è solo colpa di questo mostro, all’ombra del quale molti calabresi –altrettanto colpevolmente- si sono nutriti e sono cresciuti come e peggio della peggiore specie di parassiti esistente in natura.
La colpa è anche nostra, che col mostro e i suoi parassiti non abbiamo niente a che fare. Stiamo perdendo l’amore, la passione e il sentimento per questa nostra terra che, non dimentichiamolo, è e sarà sempre (che ci piaccia o no) nostra madre. Ma se perdiamo amore, passione e sentimento, non saremo altro che figli ingrati.
So che, in realtà, molti di noi non accettano questa deriva (che a lungo andare ci porterà all’autoestinzione) e combattono.
Molti di noi non si rassegnano a starsene inoperosi, correndo il rischio di diventare definitivamente incapaci di risolvere le equazioni matematiche, la cui soluzione viene oramai affidata al proprio computer più che al proprio cervello.
Sono molti, siamo in molti, i calabresi che non si rassegnano a far la fine del tacchino come negli Stati Uniti nel giorno del ringraziamento, perché consapevoli che se ci rassegnassimo, se ne salverebbe solo uno, ma solo perché graziato.

04 novembre 2013

LA STORIA NON PUO’ ESSERE BRUCIATA

 

museodellostrumento2Sono incazzato. Sì, incazzato. Permettetemi uno sfogo.
In questo momento, mentre sto scrivendo, a Reggio Calabria è in corso un'assemblea spontanea e pubblica davanti al Museo dello Strumento Musicale. Forse sarebbe meglio dire quel che rimane del museo, visto e considerato che la scorsa notte è stato dato alle fiamme (l'origine dolosa non sembra essere in discussione) e danneggiato in maniera significativa se non irrimediabile.

Da quando ho appreso la notizia, la mia mente è tornata al tempo in cui ero bambino.

Ho rivisto mio nonno materno insegnare le note a mia sorella, seduta sulle sue ginocchia. Ho risentito la sua voce dettare i tempi segnati sullo spartito appoggiato su quello che era il suo tavolo di lavoro di un tempo, quando faceva il calzolaio. Ho rivisto i suoi occhi, dai quali traspariva netta, profonda e inequivocabile, la gioia di tramandare un'arte antica e nobile, forse la più antica e nobile: la musica.
Mio nonno, la cui famiglia era letteralmente “impregnata” di musica, a detta di tutti coloro che lo hanno conosciuto, era un bravissimo suonatore di tromba nella banda di Scilla, un suo fratello -purtroppo poi deceduto in guerra- era un abilissimo suonatore di clarino.
Conservo ancora un'immagine, una foto scattata a Taranto il giorno in cui prestò giuramento e iniziò il suo servizio in Marina: anche lì fu subito reclutato a far parte della banda.
Ho rivisto i capodanno passati accanto a lui ad ascoltare il concerto trasmesso in tv da Vienna; confusi e resi ormai incomprensibili dal troppo tempo trascorso da quando non c'è più, ho riascoltato i suoi tanti aneddoti, le sue critiche per una marcia troppo “pomposa”, troppo “tedesca”. E a lui i tedeschi non piacevano, non potevano piacere, essendo stato prigioniero di guerra.
Ho rivisto la sua tromba, pulita, lucida, nella sua custodia, anche se ormai non utilizzata da tempo, ma che ci mostrava gelosamente orgoglioso.

Queste immagini mi son passate in mente come un lungo flash. Le conservo nella memoria, il mio museo personale. Le conservo come qualcosa che faranno sempre parte di me, di quello che sono, pur se -per uno degli strani scherzi della Natura- quell'arte musicale non sono stato in grado di portarla avanti come forse mio nonno avrebbe desiderato che qualcuno dei suoi nipoti facesse.

E' vero, non ho imparato a suonarla la musica, non ci sono portato, ma certamente con gli insegnamenti di mio nonno ho imparato ad apprezzare la buona musica, di qualunque genere essa sia.
Penso -e mi auguro vivamente- di non essere il solo in queste ore a provare forte rabbia, direi quasi dolore. In ogni contrada, in ogni paesino c'è una banda. L'Italia è un Paese fatto di musica, nato con la musica.
Nella nostra provincia, negli ultimi anni, tanti sono stati i riconoscimenti ricevuti dai ragazzi che fanno musica: dalle bande ai gruppi musicali, ai singoli cantautori. Un patrimonio culturale che dobbiamo difendere ed incrementare.

Ironia del destino, proprio oggi ho finito di leggere “Verdi, l'italiano. Ovvero, in musica, le nostre radici”. E' il libro con il quale il Maestro Riccardo Muti -che tanto a cuore ha la formazione musicale dei giovani, specie calabresi- ripercorre le opere del Maestro Giuseppe Verdi, la cui musica giocò un ruolo fondamentale per l'indipendenza italiana dagli austriaci. Fu la musica di Verdi ad esprimere al meglio il temperamento italiano e ad incoraggiare il sussulto d'orgoglio nazionale che portò all'unità d'Italia. Questa è storia, e come dice il Maestro Muti, “...La storia è testimonianza di tante situazioni e non può essere bruciata”.

Chi ha agito nel buio della notte, avrà potuto distruggere il luogo fisico in cui venivano custoditi gli strumenti, ma non potrà mai distruggere quel patrimonio di conoscenze che ognuno di noi -anche in minima parte, come per il sottoscritto- porta dentro di sé e che è chiamato a tramandare alle future generazioni, come mio nonno ha fatto con me. Ma non basta la memoria di ogni singolo cittadino. E' giusto e sacrosanto che ci sia un luogo che costituisca il centro della memoria collettiva. Reggio, città sede di uno dei più apprezzati conservatori a livello nazionale, l'ha avuto fino a ieri e merita di averlo anche in futuro.
Per questo dobbiamo fare in modo che il Museo dello strumento musicale rinasca, più grande e più bello di prima, ma al più presto, perché quello di ieri resti solo un episodio (profondamente negativo) e non diventi storia, lasciato lì a farsi incancrenire dal tempo. L’episodio della notte scorsa la storia non la merita.

*N.B: foto tratta da http://www.strill.it/index.php?option=com_content&view=article&id=180052:reggio-in-fiamme-museo-dello-strumento-musicale-la-storia-della-musica-in-cenere-le-foto&catid=40:reggio&Itemid=86

19 ottobre 2013

TI VARDU

*TRASPOSIZIONE IN DIALETTO SCILLESE DI “TESTARDO”, DI DANIELE SILVESTRI

E se ti vardu,
non sacciu s'è 'na cura
e poi se dura oppuru forsi s'è 'n azzardu,
'a to' presenza,
ndo cori, in cunfidenza, è com' a 'n dardu.

E se ti vardu,
'n pinser mi veni in menti
ma se si' davanti non su' Re Riccardu
e non fà nenti,
sì, su' cuntentu, ma esti già tardu.

Ndo cor ti tegnu,
nci fu viatu accordu,
pirchì si' nu suli accussì bellu
chi certu non ti scordu,
assorta tu pari 'n disegnu.

Ma ieu mi trorciu,
quandu ti viru, 'u sacciu,
comu 'n 'mbriacu su', chi va' p’a strata
e a stentu 'a manu teni,
caminu comu veni veni,
stortu.

Pirchì è sicuru,
puru se sugnu accortu, dintra ra me' menti
c'è 'u scuru,
e la me' vita è attesa e spilu,
tu dici no?, cririnci.

Però, 'stu cori non ha paci,
sa' comu 'nfoca 'a braci,
'chì 'i 'n angilu ha' l'anima
e 'a beddha facci tua.

Ieu sugnu empiricu,
non so parrari iperbolicu,
spessu su' melancolicu,
nenti 'i misticu,
e qual è 'u me' statu fisicu,
ieu non t'u dicu, tu, deducilu.

E su' di straci,
mi 'nfocu su' capaci
e non fà nenti se non sugnu bellu,
tu ridi, già, surniuni
e se ti vardu
amica, nd'ha' ragiuni.

Ieu sugnu carmu
ma tu m'hai castrariatu,
pirchì se ti vardu fazzu accuntu
chi si' 'i marmu assai pregiatu,
pirchì tu no, non ha' suratu
- (ma com' è fari cu chista...)
- m'haiu 'nguaiatu!

Però, 'stu cori non ha paci,
sa' comu 'nfoca 'a braci,
'chì 'i 'n angilu ha' l'anima.
e 'a beddha facci tua.

 

TRADUZIONE ITALICA

E se ti guardo,
non so se è una cura
e poi se dura oppure forse s'è un azzardo,
la tua presenza,
nel cuore, in confidenza, è come un dardo.

E se ti guardo,
un pensier mi viene in mente
ma se mi sei davanti non son Re Riccardo*
e non fa niente,
sì, son contento, però è già tardi.

Nel cuore ti tengo,
c’è stato presto accordo,
perché sei un sole così bello
che certo non ti scordo,
assorta tu sembri un disegno.

Ma io mi contorco,
quando ti vedo, lo so,
sono come un ubriaco, che va per strada
e tiene a stento la mano,
cammino come viene viene,
storto.

Perché è sicuro,
anche se sto accorto, dentro la mia mente
c'è il buio,
e la mia vita è attesa e voglia improvvisa,
tu dici no?, credici.

Però, questo cuore non ha pace,
sai come prende fuoco la brace,
perché di un angelo hai l'anima
e il tuo bel viso.

Io sono empirico,
non so parlare per iperboli,
spesso son melancolico,
niente di mistico,
e qual è il mio stato fisico,
non te lo dico, tu, deducilo.

E sono di terracotta,
sono capace di prendere fuoco
e non fa niente se non sono bello,
tu ridi, già, sornione
e se ti guardo
amica, c’hai ragione.

Io sono calmo
ma tu m'hai fatto perder tempo,
perché se ti guardo faccio finta
che sei di marmo assai pregiato,
perché tu no, non hai sudato
- (ma come devo fare con questa...)
- mi sono inguaiato!

Però, questo cuore non ha pace,
sai come prende fuoco la brace,
perché di un angelo hai l'anima
e il tuo bel viso.

*N.B.: Riccardo I d’Inghilterra, detto Cuor di leone

16 ottobre 2013

LA SCUOLA PRIMA DI INTERNET: 5° PUNTATA

Viaggio semiserio tra i ricordi di scuola, nell'epoca pre-internettiana e pre-mms, quandu non c'era la possibilità di documentare con filmati o immagini le valentizze scolastiche compiute dagli alunni o le stranezze dei professori. Eppuru, il materiale (se nd'aviti, mandatilu) di certo non mancava.....

Anno scolastico 1988/89, III classe del Corso sperimentale -sezione A dell'Istituto Tecnico per Geometri “A. Righi” di Reggio Calabria.
Invito ai genitori prof Curia -originaleInvito ai genitori da pare dell'insegnante di costruzioni Curia Antonio
Sono l'insegnante di costruzioni (e se Dio lo vorrà lo sarò fino al quinto anno) dei vostri figlioli, detto gli appunti sugli argomenti che svolgo, non è necessario un libro di testo, ma qualunque libro di costruzioni anche obsoleto va bene, un manuale tecnico del geometra meglio ancora. Serve un quaderno a quadretti usato per la stenografia che deve essere portato a scuola tutte le volte che in orario c'è la mia disciplina e va aggiornato rapidamente in caso di assenza dell'allievo, questo quaderno viene controllato e valutato in occasione delle interrogazioni e verifiche ed in qualsiasi momento della lezione. Occorrono ancora due penne di colore diverso per scrivere ed eseguire schizzi sul quaderno degli appunti.
Un secondo quaderno simile al primo serve per gli esercizi. Io farò tutti i tentativi per aiutare i vostri figli nella evoluzione della loro personalità e nel miglioramento della loro cultura, per fare questo ho assoluto bisogno del vostro aiuto costantemente incontrandovi a scuola o a casa e sentendovi per telefono se siete impossibilitati. Deteriorerà il nostro rapporto pulito la cosidetta <<raccomandazione>> che mi offende perchè degrada e svilisce il mio lavoro onesto e mi costringe a mortificare chi la porge.
Giudico meravigliosi quei genitori che si occupano del miglioramento dei loro figli e collaborano con gli insegnanti per raggiungere questo fine; biasimo quelli che usano il loro <<prestigio>> per loschi contrabbandi per conquistare, loro genitori, la <<promozione>> del loro figliolo che resterà sempre un infante perchè gli è vietato di essere se stesso e finalmente adulto senza pannolino e biberon.
Il corso scelto dai vostri ragazzi richiede maggiore impegno, costanza e pazienza in quanto il tempo a scuola è maggiore ed il numero di discipline pure, di conseguenza l'impegno a casa dovrà essere maggiore per ottenere risultati validi.
Reggio Calabria lì 20/9/1988
                                        i genitori:
=====================================================
NON TI P’OI MANGIARI NU BOI NDA ‘NA SETTIMANA!
itg righiL'anno precedente, Settembre 1987. Prima ora di 'Elementi di scienza delle costruzioni', detta familiarmente (ma impropriamente) 'Costruzioni!.
Il professore -statura media, occhiali con montatura marrone chiaro e lenti piuttosto spesse, giacca grigia a quadri larghi, senza cravatta- entra, saluta la classe con un “Buongiorno” di severa formalità, appoggia la sua agenda sulla cattedra e si avvia a passo sostenuto verso la lavagna. Prende il cancellino e con mano ferma e sicura la pulisce completamente.
Poi, con calma, inizia a far scorrere il gessetto sulla pietra verde appesa al muro, e dopo pochi secondi in una bella calligrafia appare scritto: ing. Antonio Curia.
Il Professor Curia fa quindi qualche passo verso il centro dell'aula, con gesti calmi prende un pacchetto di sigarette, ne sfila una, la porta alla bocca, la accende e fa un lungo tiro. Espira una grande nuvola di fumo, dietro la quale la sua faccia scompare per qualche secondo. Poi, preso il registro di classe, tenendo la sigaretta tra l'indice e il medio della mano destra -la cui parte interna è ingiallita per via del fumo smodato-  dice:“<<Allora ragazzi, quando vi chiamo alzatevi in piedi e presentatevi: chi siete e da quale scuola venite...>> e giù a snocciolare l'appello.
Così ho conosciuto l'Ingegner -con la 'I'- Antonio Curia. L’anno successivo (evidentemente a causa di “’interferenze’ esterne) ci dettò l'”Invito ai genitori”che avete letto sopra, e che ho voluto recuperare e proporre su questo blog, dopo aver ritrovato il quaderno degli appunti sul quale ho poi annotato tutte le sue lezioni.
Devo dire che, contrariamente alle sue previsioni, e alle nostre speranze, purtroppo non è stato nostro professore fino al quinto anno, a causa di alcuni...dissidi interni tra colleghi.
Tuttavia, il suo modo di spiegare le lezioni (con tanto di disegni con gessetti di diverso colore a sottolineare gli aspetti più importanti della materia), con l'immediata applicazione pratica negli esercizi d'esempio; i suoi esempi pratici; il suo modo di interrogare, con le domande in ordine di difficoltà, dal cinque (per quelli che nella materia zoppicavano) fino al dieci (ma poi, nda pagella al massimo ti mintiva ottu!).
Era il suo modo diretto, semplice, forse un po' brutale, di farci comprendere che anche se a tutti viene data la stessa possibilità, non tutti abbiamo le stesse capacità.
Tutto di questo straordinario Professore, è ancora stampato a chiare lettere nella mia mente. Così come alcune delle sue frasi più celebri:
1) “La costruzione più perfetta è il corpo umanoNon a caso, ogni suo esempio prendeva spunto dal corpo umano. Quando inizio a parlarci del cemento armato, per farci comprendere la funzione dell'acciaio e la differenza tra la zona di una trave soggetta a compressione e quella soggetta a trazione, chiamò un mio compagno, lo fece mettere sull'attenti e poi gli disse di piegare il busto leggermente in avanti. Capimmo così qual era la differenza tra zona in trazione e zona in compressione in una trave inflessa. Comprendemmo, con due anni d'anticipo sul programma, che il ferro nel cemento armato svolge la stessa azione che la colonna vertebrale svolge nel corpo umano: è lei la nostra armatura.
O ancora, ci spiegò il motivo per cui nel fare il calcolo delle fondazioni, si presume che esse abbiano un peso pari a un decimo del peso che sono chiamate a sopportare. Il motivo? Semplice: <<Perché i nostri piedi pesano un decimo del nostro peso corporeo!>> Pesare per credere.
 2) “Non siete ragionieri!
Dopo aver spiegato la lezione, il Professore ci faceva svolgere immediatamente un esercizio applicativo sotto la sua supervisione. Una volta, per calcolare le dimensioni di un pilastro, il risultato che veniva fuori dalla formula era un lato di 27,5 cm. Si fermò, ci guardo attraverso il fumo della sigaretta e disse:
<< Se siete in cantiere, nessun mastro realizzerà mai un con un lato pilastro di 27,5 cm. Se glielo chiedete, vi prenderebbe per pazzi. Ricordatevi una cosa: non siete ragionieri!....In favore della stabilità, adotteremo una sezione con un lato di 30 cm., così il mastro non ci prenderà per pazzi.>>
 3) Per favore, non fatevi chiamare ‘ngigneri’
In un'altra occasione, narrandoci del periodo passato all'università di Padova, ci disse: << Ragazzi, lo so che appena uscirete da questa scuola e andrete a lavorare, vi chiameranno tutti 'ngigneri'.
Per favore, a chi vi chiama così, dite: sono geometra, non ingegnere. Non fate i furbi, non fatevi chiamare ‘ingigneri’, perché non lo siete e perché... so io cosa significa diventare ingegnere. E se qualcuno di voi lo diventerà, potrà capirmi.>>
Beh, non sono diventato ingegnere, ma ho sperimentato di persona cosa significa diventarlo, e quelle parole, profondamente vere, non le ho dimenticate.
 4) “Non ti p'oi mangiari nu boi nda 'na settimana!”Come tutti gli uomini intelligenti e seri, il Professore Curia non mancava di dispensare perle di sano umorismo.
Durante le interrogazioni, mentre gli interrogati sudavano freddo alla lavagna cimentandosi con le domande da 5, da 6, da 7...., il Professore era solito intrattenere la classe con i racconti della sua vita. Venimmo così a sapere che dopo la laurea in ingegneria all'università di Padova, aveva lavorato con una ditta in Africa. Poi in Russia, dove scorrazzava per le strade, sfidando discese e -soprattutto- le salite portandosi dietro una fidanzata 'i bon pisu'.
Infine il ritorno a Reggio, l'insegnamento al “Geometri” la mattina, e poi, nel pomeriggio, il suo dedicarsi alla campagna, al suo orto e alle sue galline.
Un giorno, verso la fine dell'anno scolastico, dopo aver constatato lo sforzo con cui un mio compagno cercava di mettere insieme una risposta decente che gli consentisse di recuperare e non finire rimandato a Settembre, lo guardò dritto negli occhi e con la faccia più seria del mondo, con tono garbato, gli disse: <<Vedi, caro....Non ti p'oi mangiari nu boi nda 'na settimana!>> Partì una risata generale.
Traduzione: non puoi recuperare in una settimana tutto quello che non hai studiato in un anno.

Tanti altri sono i ricordi delle sue lezioni che potrei citare: quella sul baricentro, con il racconto del giorno che il Sig. Piaggio inventò la Vespa, dopo aver ritrovato un pezzo di carrozzeria di un vecchio aereo abbattuto durante la seconda guerra mondiale, e il motivo per cui era riuscito a farla stare in piedi senza cavalletto (perfetta distribuzione dei pesi); quella sullo sforzo di taglio, con l'esempio degli sci messi sotto la pedana della cattedra.
In particolare, ricordo però la sua ultima lezione alla nostra classe.
Eravamo già al quinto anno, oramai prossimi agli esami di stato, e l'Ing. Curia non era più il nostro professore. Un giorno però, in un'ora di supplenza, lo vedemmo comparire davanti alla porta. Entrò e con un sorriso paterno ci salutò, informandosi sulla parte del programma di costruzioni che stavamo svolgendo. Ci chiese se avevamo bisogno di qualche spiegazione. L'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Alla nostra risposta affermativa disse: “Cosa volete che vi spieghi?
In quel periodo studiavamo il calcolo dei muri di sostegno. In poco meno di tre quarti d'ora, ci illustrò tutta la teoria sui muri di sostegno e i diversi metodi di calcolo, verifiche comprese.
Questo il modo in cui ci fece capire cos'è l'angolo di attrito del terreno: mise il cancellino sulla cattedra, si alzò, andò su un lato della cattedra, ne afferrò i piedi e cominciò ad alzarla piano piano. Quando il cancellino cominciò a scivolare si fermò con la cattedra sospesa per aria, ci guardò e facendo un cenno del capo ad indicare lo spazio compreso tra la pedana e la parte della cattedra che era alzata da terra, annunciò: quello è l'angolo d'attrito del cancellino.
Infine, essendo uomo pratico e dovendo insegnare a dei futuri geometri che avrebbero operato in cantiere, ci suggerì qual era l'attrezzatura necessaria per poter calcolare un muro di sostegno: un secchio, o anche un bicchiere, due assi di legno e un chiodo. Il secchio serviva per metterci una piccola parte del terreno che il muro avrebbe dovuto sostenere. Poteva essere pesato (e quindi, conoscendo il volume del secchio, si ricavava il peso proprio del terreno); le due assi di legno, collegate tra loro da un chiodo a mo' di cerniera, servivano da goniometro. Una volta rovesciato il secchiello, il terreno si sarebbe disposto a cono. Le due assi sarebbero servite per misurare l'angolo d'inclinazione dei lati del cono e quindi il suo angolo d'attrito. Avevamo tutti i dati che ci servivano per poter calcolare il nostro muro.
Finita la sua ora di lezione –-altro che supplenza!- si accese una sigaretta, prese la sua agenda, e ci salutò così: << Tanti auguri, ragazzi>>. Uscì dall’aula e si incamminò lungo il corridoio, con la testa avvolta in una nuvola di fumo.
Fu l'ultima volta che ho avuto la fortuna di incontrarlo. Son passati ventidue anni da allora, e adesso il Professore non insegna più. Mi piace immaginarlo a godersi la vecchiaia, dedicandosi al suo orto e alle sue galline.
Mi farebbe piacere rivederlo. Penso che sarà contento di sapere che un suo allievo, non solo ha conservato i suoi appunti, ma soprattutto, ha tenuto e tiene ancora ben presenti, nel lavoro e nella vita di tutti i giorni, i suoi insegnamenti straordinariamente illuminanti.

05 ottobre 2013

ARROCCATI IN UNA FORTEZZA DI NOME EUROPA

 

croce nel mare 2(1)Ci sono giorni in cui le parole sono inutile ed è meglio tacere. Oggi è stato uno di questi giorni.

Tante volte, troppe, erano accaduti naufragi di povera gente disperata. Ma non facevano notizia se non per poche ore, giusto il tempo di fare da titolo ai telegiornali. Poi quei morti sono caduti nell’oblio, nascosti, per sempre, sotto le onde del mare.

Ieri no. La tragedia di ieri non possiamo, non dobbiamo dimenticarla.

L’Europa, questa fortezza inespugnabile, protetta da muri invalicabili i cui mattoni sono le leggi assurde ed incomprensibili che si è data, non può più rimanere indifferente.

Abbiamo creato un bel giardino noi europei, dove prima abbiamo fatto circolare le merci e il denaro e poi ci siamo spostati noi, in lungo e in largo attraverso 27 Paesi, senza alcuna difficoltà. Ci siamo dati il diritto, noi europei, di andare a cercare condizioni di vita migliori in un Paese diverso dal nostro, possiamo cercarci la parte di giardino che per noi è più bella.

Ci siamo riempiti la bocca  di libertà (commercio, scambi, circolazione di uomini e mezzi), ma non ci siamo accorti di averla negata agli altri.

Il risultato: loro, morti in un mare di onde impietose. Noi, vivi, in un mare di vergogna.

Vergogna, perché neghiamo la libertà a chi –per destino, per volontà divina o non so che altro- è nato al di là del nostro bel giardino. Li identifichiamo come “extra”, cioè quelli che stanno “al di fuori” delle mura della nostra fortezza. Vergogna perché l’Europa è divenuto un pianeta a sé.

Vergogna, perché li chiamiamo “migranti”, con un termine che sa tanto di forzata compassione e che sta assumendo un significato dispregiativo. Ma noi che ci spostiamo liberamente, non siamo migranti anche noi?

Vergogna, perché abbiamo fatto leggi e regolamenti per ogni tipo di merce, di prodotto. Abbiamo fatto leggi che proteggono la flora e la fauna, l’acqua, il mare. Ma ci siamo dimenticati dell’uomo che quel mare lo ha sempre utilizzato: per trarne sostentamento ma anche, e soprattutto, come via di comunicazione tra i popoli, primo mezzo di scambio culturale –prim’ancora che commerciale.

Vergogna, perché l’Europa che si vanta delle sue radici cristiane, non può comportarsi in maniera tale da fare agli altri ciò che essa ha cercato, in tutti questi anni, di non fare ai Paesi che ne fanno parte, cioè a sé stessa. Chi ci ha dato questo diritto?!

Vergogna, perché ci siamo chiusi nel nostro bel giardino –negli ultimi tempi, a dir la verità piuttosto malandato- in cui nessuno può entrare a disturbarci, a meno che non siamo noi a decidere di aprirgli la porta. Ogni tanto, attratti dalle urla, dal rumore o dalle fiamme, diamo un’occhiata distratta a ciò che accade al di fuori della nostra fortezza, nella quale ci siamo arroccati.

Poco importa se là fuori, quel mare si sta trasformando in un cimitero liquido; se le antiche rotte che dall’Africa o dal Medio Oriente portavano fino alle nostre coste, sono segnate dalle croci dei tanti caduti di una vera e propria guerra: la guerra per la vita.

Quei caduti sono uomini, donne, bambini, che avevano solo un sogno: vivere, non sopravvivere. E’ per inseguire il sogno di avere una vita che sono morti. Chi ci ha dato il diritto di negare agli altri i loro sogni?!

Erano i sogni di una vita, di una vita insieme, fatta di affetto e di amore. Come quello cantato da Tesfay Mehari (detto Fihira), un famoso cantante eritreo, che ha dedicato una canzone dal titolo “Bahri” alla donna che ha perso nel mare italiano.

L’ho ripresa da “Fortesse Europe” (il nome non è un caso), il sito che da anni segue puntualmente il triste fenomeno e aggiorna le tremende statistiche di questa vera e propria strage umana.

Ecco il testo, che ho tradotto dall’inglese che vedete nel video:

BAHRI –di Tesfay Mehari (detto Fihira)

Vicino alla spiaggia bagnata, in mezzo all’oscurità silenziosa
sono qui con il rollio delle onde del mare
Oh mare agitato! Vuoi chiedere alle tue creature?
Dentro di te sono sparse le ossa del mio amore
lei stava sbocciando, tenera e dolce;
Luccicava con il suo amore, la luna sopra di lei
dentro di te è il mio amore, la sua anima, il suo cuore.
Oh mare! Riportala alla spiaggia, lascia che le parli
ricordando la sua gioventù, fammi un incantesimo;
Mentre il sole tramontava lei mi ha detto addio, annegando.
Vedendo la barca gli abitanti del mare hanno danzato di gioia
celebrando il loro solenne accordo dell'amore forte, con la morte.
Una grande festa, accompagnata da rumori attutiti
e il sigillo conclusivo della morte è stato l'addio finale.

Guarda ovunque, trovala per me
Oh mare! Restituiscimi l'amore della mia anima.

Con i suoi compagni pellegrini, compagni di destino,
oh creature marine, testimoni della favola,
cos'ha detto nel suo ultimo addio?
Non sei il mare? Allora rispondimi.

Guarda ovunque, trovala per me
oh mare! Restituiscimi l'amore della mia anima.

Non te l'ho detto molte volte e ti ho pregata?
Ma invece ti sei arresa ai sussurri della tua gioventù.
Perché non mi hai ascoltato, non ero più grande di te?
Ma non ha reso triste solo me,
tua madre è pazza di dolore
quella che amavi e di cui ti prendevi cura, la tua unica e sola.
Ancora peggiori sono le condizioni della tua sorellina,
amore mio sai dov'è?
Lascia che ti dica, il tuo nome è costantemente sulle sue labbra, la sua canzone,
sta perdendo la testa, si sta allontanando da noi, quasi come te.

Con i suoi compagni pellegrini, compagni di destino
Oh creature marine, testimoni della favola,
cos'ha detto nel suo ultimo addio?
Non sei il mare? Allora rispondimi.

Non te l'ho detto, no?
Ti ho implorata, o no?
La pazienza è stata messa alla prova, la confusione tenuta lontano?
E' suonata la campana quando è giunta l'ora?
Potevo vederla lottare tra la vita e la morte.
Troppo tardi, è stato dopo che è arrivato il giudizio?

Guarda ovunque, trovala per me
oh mare! Restituiscimi l'amore della mia anima.

*N.B: foto tratta da http://www.michelenardelli.it

29 settembre 2013

IL GIRAFRITTATE

ricorso3_bigHo ancora negli occhi la prima pagina del ricorso alla corte di Strasburgo, all’indomani della sentenza di condanna da parte della Cassazione. Sul frontespizio, stampato in lettere cubitali, era scritto: “Silvio Berlusconi c. Italia”, dove quella “c.” sta per CONTRO.

Pensavo fosse stato l’ultimo suo atto contro l’Italia. Mi sbagliavo.

Che questa esperienza di governo nato contro natura fosse destinata a saltare in tempi relativamente brevi lo si sapeva. In fondo, è stato un po’ come mischiare l’acqua con l’olio: li puoi mettere nello stesso recipiente e provare a girare per mischiarli quanto vuoi, ma niente da fare. Ognuno rimane quello che era: l’olio con l’olio e l’acqua con l’acqua.

Nel gioco delle parti, l’identificazione è facile: l’acqua è il partito liquido, inconsistente, che vorrebbe rappresentare la sinistra ma non ci riesce. E’ un’acqua stantìa, oramai melmosa, che non riesce a rinnovarsi, a tornare fresca.

L’olio è invece in mano al padrone del frantoio, che lo usa a suo piacimento per ungere meccanismi istituzionali attraverso i quali si esercita il potere. Meccanismi che ogniqualvolta è necessario, devono essere forzati al fine di consentire al padrone di passarla liscia, come l’olio appunto.

Dunque, prevedibile, quasi atteso, è arrivato l’ordine perentorio, unico, indiscutibile: via l’olio dall’acqua!

Che l’ordine sia legato alle questioni personali del padrone e non a questioni di scelte di politica economica –come tenteranno inutilmente di convincerci- è dimostrato dal fatto che esso sia calato su Roma dall’alto della residenza padronale, sconosciuto quindi a coloro che si affannano giornalmente a genuflettersi, indefessi ma fessi, davanti a lui per abbassargli financo i calzini.

Un tempo, quando ancora esistevano partiti in grado di esercitare correttamente la democrazia, i comunicati erano discussi nelle direzioni, nelle assemblee. Se questa discussione avviene a casa del padrone, tra il padrone stesso e i suoi avvocati, allora dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta, ancora una volta, di una manovra il cui fine è solo quello di salvaguardare un personaggio oltremodo dannoso, distruttivo per la tenuta istituzionale italiana.

E invece no. Salvo qualche timida voce isolata, gli invertebrati pecoroni che girano nella corte del padrone, si sono precipitati ai suoi piedi a porgergli l’estremo, ennesimo atto di sottomissione. Hanno ancora una volta abbassato la gobba e chiuso gli occhi, incapaci di vedere che prima del frantoio, c’è davanti a loro un precipizio.

Emblematica è la frase di un sottosegretario: <<Consegnerò le dimissioni nelle mani del presidente Berlusconi>>.

Basta questo ad indicare l’immane e totale rincoglionimento conseguente al completo lavaggio del cervello subito, e la tragica mancanza di spina dorsale di chi ci dovrebbe rappresentare. Chi lo ha nominato sottosegretario è il Presidente del Consiglio che, fino a prova contraria, non è Berlusconi (almeno sulla carta). Eppure, il dimissionario sottosegretario e tutti gli altri seguaci, vedono solo lui: il padrone del frantoio. E’ lui la guida, il faro. Senza la sua luce, questi invertebrati con il cervello in panne si ritroverebbero al buio, incapaci di muovere un passo, destinati a sprofondare nell’oscuro anonimato di cui hanno una paura terribile.

frantoioIl padrone del frantoio con la sua macina ha frantumato tutto e tutti, riducendo la politica di questo Paese a una poltiglia indistinta che, a differenza della sansa, è divenuta inservibile.

Tenetevi pronti: come sempre, dirà se l’olio è stato costretto a separarsi, è per colpa dell’acqua. E’ l’ennesima frittata che il padrone del frantoio ha regalato all’Italia. Ma prima che qualcuno se ne accorga, si affretta a rigirarla, come d’abitudine, da bravo girafrittate –come l’ha definito Enico Letta- in maniera da nasconderne il lato oramai bruciacchiato.

Il suo atto d’imperio, dirà lui, è servito ad impedire l’aumento delle tasse voluto dal partito liquido.

Strana giustificazione che sa tanto di presa in giro, perché proviene da un signore che è tra i pochi a non aver problemi a pagarle le tasse. Nonostante ciò, ha fatto di tutto per non pagarle. Alla fine, è stato scoperto, processato, giudicato colpevole e condannato.

Al padrone del frantoio, accertato delinquente, non è rimasto altro che mettere in atto lo sporco ricatto: non solo mi avete condannato perché non ho pagato le tasse, volete aumentarle ancora? E io non ve lo consento. Non vi do più l’olio, vi blocco la macchina, addio motore!

E così l’Italia si ferma, proprio mentre stava per superare l’ultimo tratto della ripida risalita dalla crisi per accingersi poi alla discesa di una ripresa economica che si annunciava in arrivo per i primi mesi dell’anno prossimo..

Il Paese si ritrova così fermo, col motore in panne e per di più con i freni consumati, che non ce la fanno a trattenerla. Siamo pronti a scivolare rovinosamente verso il basso, col serio rischio di farci molto male.

girafrittataPoco importa al padrone del frantoio. Lui è riuscito a far meglio dei condannati di un carcere sudamericano: loro si sono ribellati e hanno tenuto in ostaggio le guardie carcerarie. Il padrone del frantoio, delinquente, condannato, tiene in ostaggio un Paese intero e continua a fare il girafrittate.

Non gli importa nulla, né se perde un po’ d’olio né se rompe le uova. Sa che l’olio e le uova non gli mancheranno: come non gli sono mancati in questi vent’anni. Avrà sempre un esercito di smidollati pecoroni, pronti a continuare a raccogliere le olive per lui, a continuare a far girare la macina e a rifornirlo di uova, le cui scorte annuali sono ben conservate nel segreto dell’urna.

Per questo non si preoccupa di aver fatto l’ennesima frittata agli italiani. Non gli importa nemmeno che l’abbia girata male, facendola cadere per terra.

Ma invece di preoccuparsi del fatto di aver lasciato digiuni gli italiani, il padrone del frantoio rimpiange la sua padella, rovinata, perché rimasta sul fuoco, vuota.

08 settembre 2013

CHIANALEA NON E’ DI SCILLA, CHIANALEA E’ SCILLA

ChianaleaTurista per una sera. Come capita spesso quando parlo di Chianalea, ieri sera ho voluto trasformarmi in turista e percorrere le stradine dello storico borgo marinaro scigghitano, in occasione della manifestazione “Chianalea in festa –Sapori, Tradizioni e Colori di Chianalea”.

A scanso di equivoci e fraintendimenti e senza voler fare polemica, dico subito che l’iniziativa è riuscita, con una partecipazione di pubblico molto buona. D’altra parte c’era da immaginarselo: quando si parla di Chianalea, chi lo sa perché, si entra subito in un’atmosfera speciale: camminare per quelle stradine ti fa quasi toccare con mano il mito e la leggenda di Scilla; le case sul mare, letteralmente “ch’i peri a moddhu” in uno specchio d’acqua che, quand’è cheto sembra un grande lago; le luci delle casuzze a tipu prisepiu; le luci dei locali che si smorzano nell’acqua, attirando i pesci a galla, in cerca di qualche briciola di pane.

Queste scene si sono ripetute anche ieri sera, ed è stato ancora più speciale passare per quei vicoli e vedere quadri, foto e filmati che illustravano la pesca al pescespada col “luntri”; i “bbandiaturi” che dalle postazioni ubicate sulle colline circostanti segnalavano alla barca il percorso del pesce in mare; l’uomo pronto con la fiocina, a dare al pescespada il colpo mortale e ai pescatori la giusta ricompensa per la loro fatica.

E poi l’artigianato e i prodotti locali, la musica, elementi che avevano già ravvivato e fatto riscoprire i vicoli del centro storico di San Giorgio a fine Luglio nel “Vicoli festival” e che hanno trovato nuovo spazio e arricchito le strade chianaliote con la loro presenza. Strade che, per una sera, sono state chiuse al traffico e trasformate in un’isola pedonale apprezzatissima da tutti. Non è mancato però, in verità, chi ha cercato di fare il furbo e di arrivare allo scalo grande attraverso la via Zagari. E va boh.

Una manifestazione riuscita e che, proprio per questo, ritengo vada replicata anche negli anni, magari con una frequenza maggiore. Immagino, per esempio, manifestazioni simili replicate nei fine settimana da Luglio a Settembre.

Se però dobbiamo trovare il pelo nell’uovo, non abbiamo difficoltà. Mi sia permessa qualche annotazione. Prendetela come una speciale attenzione –che a qualcuno potrà sembrare eccessiva- dettata dall’amore che ho verso lo Scigghio. Un po’ come un fidanzato che poti aviri ‘a megghiu zzita ru mundu, ma quando la guarda trova sempre non dico un difetto, ma qualche particolare da migliorare, perché sia ancora più bella.

1) La manifestazione ha interessato la parte di Chianalea dal porto fino allo scalo, lasciando perciò la via Annunziata fuori dal contesto festaiolo. Credo che ciò sia stato dovuto ad esigenze di carattere pratico, al fine cioè di lasciare un corridoio libero raggiungibile con i mezzi per eventuali emergenze. Ma Chianalea è tutta, dal porto fino alla chiesa di San Giuseppe. D’altra parte, non credo sarebbe difficile, visto e considerato che la Statale 18 è giusto a un passo e quindi comodamente raggiungibile da eventuali mezzi di soccorso.

2) scategnaNon è la prima volta né sarà l’ultima, che sento parlare o scrivere tutti di “Chianalea di Scilla”. Anche sulla locandina che pubblicizzava l’evento, era scritto “Borgo Chianalea di Scilla”. Mi è capitato spessissimo, specie con amici di Reggio. L’ultimo episodio di cui sono stato testimone diretto: un’amica ha scattato e mandato in diretta sul web via Facebook la foto che vedete, con tanto di didascalia: “Scilla”. Dopo nemmeno un paio di minuti è arrivato il seguente commento ammirativo:  “Wow, l avevo confusa per chianalea” [perdonate la sintassi, ma l’apostrofo pare non si usi più (anche se non mi risulta sia stato abolito) e le lettere maiuscole per i nomi propri pare sia divenuta opzionale]

Ora, senza voler fare “il saputo”, ma in quanto scigghitanu ndo sangu, mi corre l’obbligo di precisare agli amici riggitani e ai turisti tutti, le seguenti nozioni di geografia scigghitana.

 

- Il centro urbano di Scilla ha oggi quattro quartieri: due nella parte bassa, Chianalea (a Est rispetto al castello Ruffo), Marina Grande (a Ovest); San Giorgio nella parte alta, compreso tra il vallone Livorno (a Ovest) e il vallone Annunziata (a Est); Ieracari, sempre nella parte alta, ma a Est  rispetto a San Giorgio (lato Bagnara Calabra, per intenderci), compreso tra lo stesso vallone Annunziata e il vallone Oliveto;

- Il comune di Scilla ha tre frazioni: Favazzina di Scilla, a metà strada tra Scilla e Bagnara Calabra; Melia di Scilla, nella parte collinare, salendo verso Gambarie. Un’altra parte di Melia è compresa nel territorio del comune di San Roberto; Solano Superiore di Scilla nella parte compresa tra le colline e i piani d’Aspromonte, a Est di Melia. Un’altra parte di Solano (inferiore), è compresa nel territorio del comune di Bagnara Calabra.

Dunque, l’espressione “di Scilla” è riferita esclusivamente alle frazioni ma non ai quartieri. Dire “Chianalea di Scilla” è un po’ come dire, per intenderci, “Santa Caterina” o “Gebbione” o “Sbarre” di Reggio Calabria oppure “Garbatella di Roma”.

Allora, se la lingua italiana non è un’opinione, dire “Chianalea di Scilla” è errato. Chianalea non appartiene al territorio amministrativo di Scilla (come le frazioni), né esiste un’altra Chianalea da nessun altra parte in Italia e nel mondo, per cui è necessario specificare di quale Chianalea si stia parlando. Chianalea è Scilla, in quanto ne costituisce fisicamente il centro urbano. Dunque, l’espressione più corretta, dovrebbe essere: Scilla - quartiere Chianalea oppure Scilla –borgo di Chianalea.

Nella speranza di aver chiarito il problema, mi auguro che in futuro anche noi scillesi non continuiamo a valorizzare il nostro territorio ingenerando e favorendo interpretazioni geografiche errate.

 

19 agosto 2013

SAN ROCCO E SCILLA: UN’EMOZIONE CHE SI RINNOVA

Scilla-20130817-00223‘A festa finìu. Anche quest’anno, Scilla si è riunita attorno al suo Santo Patrono, San Rocco.

Lo ha fatto, come ogni volta, con fede e con un attaccamento particolari. Nei due giorni in cui il Santo francese si è fatto pellegrino per le strade del paese, non sono certo mancati i momenti particolari e toccanti.

 

Scilla-20130817-00231Il sabato, per le viuzze di Chianalea, bellissime, tortuose, strette, ma larghe al punto giusto da permettere il passaggio della statua che, nel suo cammino sfiora le piante di cappero, poi entra quasi nelle case dei pescatori, lasciate illuminate e aperte, come si fa con il mare, per accogliere un amico, uno di famiglia.

 

Scilla-20130817-00225E’ vero, ammettiamolo. Noi scigghitani abbiamo un rapporto familiare con San Rocco: quell’espressione del volto sofferente, il bastone a cui si appoggia, quell’indice puntato a mostrare il bubbone della peste, quegli occhi rivolti al cielo, uniti all’andatura lenta e barcollante, quasi ondeggiante, sulle spalle dei portatori, tutto questo insieme di elementi invitano a soccorrere quel pellegrino, a dargli assistenza, aiuto, conforto, proprio come narra il vangelo di Matteo che viene letto nei giorni della festa.

IMG-20130817-00234Vederlo passare in riva al mare, dal porticciolo di Chianalea, fa andare la mente a tutti quegli uomini e quelle donne che quotidianamente affidano al mare e al cielo le loro vite e sbarcano sulle nostre coste. Nei loro occhi, nella loro carne, rivive la sofferenza e il dolore vissuto da San Rocco e testimoniato in quell’opera d’arte che gli scillesi portano in processione da secoli.

Sono africani, siriani, egiziani, sono i pellegrini del mondo moderno che noi, con un termine che personalmente mi suona dispregiativo, definiamo “extracomunitari”, come fossero un corpo estraneo, un’anomalia da tenere lontana, separata e distinta dal “nostro” mondo indistinto.

Non è così che dovrebbe essere, e questi giorni di festa, San Rocco in particolare, ce lo ricordano. Sta a noi far sì che la memoria non si esaurisca in tempi brevi, come purtroppo spesso accade.

IMG-20130817-00238Vedere San Rocco passare lungo la galleria sotto la rupe del castello, lì dove sono più forti i vortici e il rimescolìo delle correnti marine dello Stretto, lì dove passò Ulisse, fa riflettere. Viene spontaneo chiedere al Santo di darti la forza di resistere, di affrontare gli ostacoli, di sorreggerti tutte le volte che ti ritrovi –tuo malgrado- a dover andare controcorrente.

Poi si passa dall’altra parte: Marina Grande.

IMG-20130817-00242Scilla è un paese bello e strano, dove in pochi metri si passa dal passato al presente, come se si fosse dentro una macchina del tempo. Il passato testimoniato dalle vecchie case dei pescatori della Piana delle Galee (la Chiana-lea), dal mito del mostro marino (i gorghi sotto il castello), fino al presente: le luci del lungomare, il luogo della “movida” estiva scigghitana.

La processione la attraversa silenziosa, quasi a non voler disturbare e, una volta raggiunto il confine Ovest del centro urbano, torna indietro lungo la strada nazionale: sulla strada illuminata dalle ‘ntrocce,  inizia la risalita verso la chiesa.

A sera oramai inoltrata, ti ritrovi testimone, lì in mezzo, della fatica dei portatori. La statua sale piano, arranca, sbanda, prova un zig-zag, un po’ come fanno i ciclisti sulle rampe più dure. Il peso della statua si trasmette alle spalle, attraversa tutto il corpo, fino ai piedi. E quella mano del portatore, quel pugno chiuso appoggiato alla vara con forza delicata, è il segno della fatica: sono stanco -dice quella mano- sono stanco, ma continuo a portarti con tutte le forze che ho.

E’ un peso dolce che, seppur piano piano, li spinge ad andare avanti, quasi a far presto per riportare il Pellegrino nella Sua casa, dove possa riposare fino all’indomani.

Scilla-20130818-00269La domenica è il turno del quartiere “San Giorgio”.

Si parte che il sole è quasi già tramontato. La via Umberto I è un fiume umano che scorre tra le bandierine festose agitate da una brezza leggera.

 

 

Scilla-20130818-00274Si sale quindi verso l’ex Asilo (antico carcere), oggi struttura assistenziale gestita dalle suore Veroniche del Volto Santo.  Ex carcere, struttura assistenziale, posti familiari (perché subiti ingiustamente o visitati) a San Rocco.

Per questo viene portato fin sull’uscio, a dare conforto e speranza alle anziane ospiti della struttura che aspettano di incontrarlo da un anno.

Scilla-20130818-00277A seguire, si sale verso le palazzine di via Tripi, dove si fa una sosta imprevista: il buio della sera inoltrata è squarciato dal pianto di dolore e dall’invocazione a San Rocco da parte di una madre che proprio il giorno prima, mentre il paese tutto si preparava a festeggiare, ha perso il proprio giovane figlio, da ieri in cielo, accanto a San Rocco.

 

IMG-20130818-00282Poi si scende verso l’ospedale –o quel che ne resta, ma non è il momento delle polemiche- al buio. Non erano posti mondani quelli frequentati da Rocco di Montpellier, e ogni sosta, ogni momento di pausa ce lo ricorda.

Si continua lungo via Matteotti, poi la discesa di via Roma. Ogni sosta volante è indice che lì dove il Santo si ferma anche solo per brevi istanti, c’è qualcuno che soffre, che ha bisogno del Suo aiuto, ma anche del nostro come comunità.

IMG-20130818-00286Dopo via Stretto, si sale lungo via Libertà, via Parco e via Rinnovamento, ‘u “Quarteri ‘ndiginu”, addobbato a festa come sempre, quindi la sosta nda “Cresiola”, lì dove solo poche ore prima, nel caldo primo pomeriggio, un emigrato si gira a guardare la statua piccola di San Rocco che vi è custodita in questi giorni e, in un commovente slancio d’affetto esclama: “’U ‘maru Sant’à Rroccheddhu, a ‘sta ura sta’ squagghiandu!”. Il tempo di una preghiera e via, in discesa verso la via Nucarella, poi ndo “Stratuni”, con deviazione fino alla Casa della Carità, altra struttura assistenziale di prim’ordine presente a Scilla.

IMG-20130818-00293Sono le 21:40 –orario anomalo- quando la processione giunge in piazza, dove nel frattempo la folla si è radunata, alla ricerca del posto migliore per assistere allo spettacolare “Trionfino”.

Dopo pochi minuti, la statua raggiunge, a fatica come sempre, il punto di partenza. Foto di rito per i portatori e le varie associazioni, definizione degli ultimi dettagli per la sicurezza del percorso e poi….l’accensione dei fuochi!

Il fuoco illumina la fiaccolata, poi mette in moto i “roteddhi” (le girandole), la statua di San Rocco parte, di corsa per il mezzo giro di piazza fin davanti alla chiesa. Sono pochi secondi che lasciano tutti con il fiato sospeso, sia chi vi assiste per la prima volta, sia chi lo vede da una vita. Un’emozione sempre nuova, 30 secondi che celebrano il trionfo del Santo pellegrino, sul fuoco della peste che divampò a quei tempi –e anche fino a qualche secolo dopo- in mezza Europa. Un male fatale, da cui Rocco della Croce guariva chi vi si era ammalato con il solo segno della croce, lo stesso che portava stampato sul petto fin da bambino.

 

(video realizzato da Tonino Sanfedele)

Negli occhi e nel cuore, le immagini: un bambino, un anziano, che si avvicinano alla statua per un bacio, una carezza, una preghiera particolare, incessante, che si trasmette di generazione in generazione; il pianto soffocato di una madre; le persone affacciate ai balconi (alcuni dei quali drappeggiati con la coperta della festa, come una volta) o che sbucano dalle persiane e seguono il passaggio di San Rocco con gli occhi; gli anziani, impossibilitati a muoversi, che aspettano che passi davanti al loro vicolo, davanti alla porta della loro casa, per vederlo e affidarGli una preghiera; la fatica, il sudore e la sofferenza dei portatori; l’entusiasmo della banda, che con la musica allevia la fatica e dà il segno della festa; il Trionfino, l’atto finale, commovente come sempre.

IMG-20130818-00294La festa di San Rocco significa, in fondo, riscoprire la fragilità della nostra condizione di uomini. E’ il nostro continuo bisogno di avere figure cui ispirarci –da cristiani- nella vita di tutti i giorni. L’esempio di San Rocco, è ai giorni nostri più attuale che mai. Abbiamo voluto registrare le immagini, le impressioni, le sensazioni, che portiamo nel cuore con gioia.

15 agosto 2013

DEAFEST 2013: A PODARGONI, TRA PASSATO E FUTURO

podargonilogoMemori del successo del 2012,  anche quest’anno siamo ritornati nella vallata del Gallico, partecipando alla tappa di Podargoni del DEAfest 2013, tenutasi lo scorso 14 Agosto.

Il titolo di questa edizione era TRASH & CLEAN ​​LATERRANONSPORCA, ovvero la contrapposizione tra “Il mondo della spazzatura, della insostenibilità, del consumare l’ambiente, del disperdere le tradizioni e l’identità dei luoghi, dell’abusivismo edilizio, della scarsa attenzione per i diritti e la solidarietà” e “il mondo della buona gestione dell’ambiente, della programmazione attenta alla persona, della conservazione del patrimonio identitario, del rispetto delle regole, della valorizzazione dei prodotti locali e delle tipicità, della fruizione responsabile dei luoghi”.

Il programma è stato molto ricco, con l’allestimento per le vie del piccolo borgo di opere d’arte contemporanea dal titolo “Absence, tra riciclo creativo e scarti d’autore” –a cura dell’Associazione Nonsense. Vi hanno partecipato undici artisti, che hanno messo in mostra le loro personali elaborazioni che conducono dall' abbandono e dal rifiuto a molteplici modi di produrre, creare, innovare e far riflettere.

Poi è stata la volta dello spettacolo teatrale itinerante “Mattone dopo Mattone -Un on the road cacio e pepe” di Emiliano Valente. Curiosa la trama, che vede protagonista un uomo alla guida della sua Panda che resta bloccato ma, pur non potendosi muovere fisicamente, inizia a percorrere con la mente le vie di Roma, osservando le opere incompiute, la miriade di nuove costruzioni di una città che continua a espandersi, senza regole e limiti.

Da buoni calabresi, non poteva mancare la satira, con la presentazione del progetto “Lo Statale Jonico -Ci rifiutiamo di rassegnarci” con Isidoro Malvarosa e Antonio Soriero, ovvero l’uso dell’ironia non solo come forma di autodifesa ma piuttosto come arma di denuncia della condizione del nostro meridione.

maxmaber-orkestar-gruppo-per-stradaA chiudere la serata e ad accompagnare la consueta degustazione di prodotti enogastronomici tipici della vallata del Gallico, il concerto della MAXMABER ORKESTAR, una band italo-jugoslava che al ritmo klezmer –la musica dei balcani- e di vecchie canzoni italiane rivisitate, ci ha letteralmente svuotato il cervello di ogni pensiero e deliziato le orecchie per quasi due ore, regalandoci più di un bis.

Il gruppo triestino –che pochi giorni prima aveva suonato al Lethargy Festival di Zurigo ed è giunto a Podargoni passando dal “Borgofuturo” di Cinquefrondi, si è dimostrato davvero sorprendente, con sonorità coinvolgenti, ben supportati dal folto pubblico presente, che ha danzato al ritmo della musica balcanica fino a notte fonda.

E a proposito di TRASH & CLEAN, facciamo notare che i ragazzi triestini (qui alcuni loro brani) hanno saputo costruire un ponte ideale tra “il mondo brutto e sporco” dei gitani –almeno così viene percepito dalle “civili” popolazioni occidentali- e della loro musica, con “il mondo bello e lindo” dell’occidente, della musica popolare italiana, specialmente quella  della dirimpettaia Emilia-Romagna, con l’esecuzione di molti pezzi valzer e mazurche.

podargoniCome l’anno scorso, abbiamo fatto un giro per le viuzze di Podargoni, dove siamo giunti quand’era già sera, facendo lo slalom tra i paesini della vallata del Gallico che, a guardarli, sembravano dei piccoli presepi. Gioiellini che DEVONO essere tutelati, preservati e valorizzati come meritano ma una politica che ha perso la propria identità, non ne è capace, nonostante le molteplici possibilità offerte anche dall’Europa per la salvaguardia dei borghi antichi.

Sono luoghi dove magari non ci sono le comodità di tutti i giorni –cose superflue di cui potremmo fare tranquillamente a meno- ma dove è possibile ritrovare un proprio equilibrio, una propria pace interiore, riscoprendo tradizioni e valori che troppo spesso restano soffocati dalla “modernità”.

A Podargoni sembra che il tempo si sia fermato. Forse è per questo che non senti il bisogno di guardare l’orologio, indicatore di ansie che, in posti del genere, svaniscono come per incanto.

In realtà non è così. Podargoni pensa al futuro, Podargoni ha un futuro. Ce lo assicurano le vocine acute ma infinitamente dolci dei bambini che si rincorrono per le viuzze e le scalette del borgo, inventando dei giochi per passare il tempo –proprio come facevamo una volta nelle traverse.

Bambini che a una semplice domanda, forse scambiandoci per l’agente della Dogana de “Non ci resta che piangere”, con la semplicità dell’innocenza ma con fierezza tutta calabrese, ti dicono il proprio nome e quello dei rispettivi fratelli e sorelle; ti raccontano di chi sono figli e chi li accompagna; ti spiegano con precisione e senza incertezze come è costituita la loro famiglia e dove vivono.

Li vedi correre avanti e indietro, instancabili, liberi e felici. Si fermano soltanto un po’, a dissetarsi alla fontana dove scorre l’acqua spremuta dalle rocce dell’Aspromonte che ci sovrasta.

E’ aspra, dura, ripida questa nostra terra, ma proprio per questo è bella, di una bellezza selvaggia, semplice, naturale, senza artifici, che fa tenerezza per la sua fragilità. Podargoni ce lo ricorda.

E’ una bellezza simile a quella di quei bambini che riescono a fermarsi tutti insieme, giusto il tempo per una foto, che cattura un attimo passato, ma che rappresenta anche l’immagine del futuro: quello di quei bimbi e del borgo a cui si sentono già così legati che, ne siamo sicuri, torneranno sicuramente a visitare negli anni a venire.

Lasciamo Podargoni che la notte è già alta. Nell’aria fresca, le note del klezmer hanno ceduto il passo all’immancabile tarantella finale, che mette insieme anziani, meno giovani e giovani, in una sorta di unione generazionale che non è facile trovare per le strade di città.

E’ quasi un silenzioso passaggio di testimone, suggellato dalla musica della tarantella, espressione della più pura tradizione calabrese.

La Podargoni vecchia si affida ai giovani per conservare le tracce del proprio passato,  per proiettarlo nel futuro e continuare a far sentire la propria voce: squillante, gioiosa, allegra, spensierata, come quella dei bambini che si rincorrono per le sue viuzze.

 

05 agosto 2013

SE IDDIO FOSSE UNA CIRCONFERENZA

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Capitano giorni in cui fonti diverse e diametralmente opposte tra loro ti fanno giungere alla stessa conclusione, chiudono il cerchio.

Di libri ne leggo abbastanza –non quanti vorrei- ma pochi autori riescono a sorprendermi e a coinvolgermi emotivamente nella lettura. Uno fra i primi è senza dubbio Erri De Luca. Il suo stile asciutto, diretto, senza fronzoli ma che, allo stesso tempo, ha un qualcosa di poetico, mi piace moltissimo.

Leggo i suoi libri con accanto un’agenda, dove annoto le frasi più belle –e sono tante. Una di queste, in cui mi sono imbattuto qualche giorno fa, tratta da un libro scritto nel 1989, diceva:

<<Se iddio fosse una circonferenza la chiesa ne sarebbe il centro, che è il punto più distante possibile>>

E’ una frase dura, che esprime un giudizio categorico, ma perfettamente logico, specie se consideriamo il contesto storico di quegli anni.

Alla fine degli anni ‘80, l’azione della Chiesa e del Vaticano in particolare assunse una rilevanza politica come forse mai aveva avuto. Papa Giovanni Paolo II, l’uomo venuto dal lontano Est europeo che all’epoca era sotto la sfera d’influenza sovietica, risultò decisivo nell’avvenimento che segnò quell’anno 1989 e la Storia moderna: la caduta del muro di Berlino.

Certo, l’aspetto politico –mi si passi il termine- del pontificato di Giovanni Paolo II era in quegli anni in primo piano e di un’importanza tale da lasciare “dietro le quinte” tutto il resto. Il carattere anticomunista dell’uomo Wojtyla non poteva non avere riflessi anche sulla sua visione del mondo e quindi della Chiesa –che egli guidava- nel mondo di quegli anni.

Non bisogna però dimenticare che la dottrina sociale della Chiesa è praticamente rimasta la stessa nei suoi contenuti fondamentali, dai tempi di Pio XI (siamo nel 1950) fino a oggi.  E Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato, ha comunque contribuito a richiamarla ed aggiornarla più volte.

Nel “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa”, elaborato nel 2005 dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che ne ripercorre i documenti fondamentali, è detto a chiare lettere che:

<<Tutto ciò che riguarda la comunità degli uomini non è estraneo all’evangelizzazione e questa non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale dell’uomo.

     …La dottrina sociale “ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione” e si sviluppa nell’incontro sempre rinnovato tra il messaggio evangelico e la storia umana..

Essa si situa all’incrocio della vita e della coscienza cristiana con le situazioni del mondo e si manifesta negli sforzi che singoli, famiglie, operatori culturali e sociali, politici e uomini di Stato mettono in atto per darle forma e applicazione nella storia. [ Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus]

Con la sua dottrina sociale, la Chiesa si preoccupa della vita umana nella società, nella consapevolezza che dalla qualità del vissuto sociale….dipende in modo decisivo la tutela e la promozione delle persone.

Nella società, infatti, sono in gioco la dignità e i diritti della persona e la pace nelle relazioni tra persone e tra comunità di persone. Beni, questi, che la comunità sociale deve perseguire e garantire.

In tale prospettiva, la dottrina sociale assolve un compito di annuncio e anche di denuncia.>>

<<…Tale denuncia si fa giudizio e difesa dei diritti disconosciuti e violati, specialmente dei diritti dei poveri, dei piccoli, dei deboli>>.

Lo stesso giorno, in un articolo a firma di don Antonino Denisi nella sua rubrica settimanale su “Gazzetta del Sud”, vi è la risposta alla considerazione fatta dallo scrittore napoletano.

Il 16 Novembre 1965, 40 vescovi che partecipavano al Concilio Vaticano II sottoscrissero il “Patto delle Catacombe” – per la maggior parte cardinali latino-americani – con il quale invitavano i vescovi a esserlo in mezzo alla loro gente, condividendone le stesse condizioni ed essendo vicini in modo particolare ai poveri. Scrissero i cardinali:

<<Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende.

Rinunciamo per sempre alla realtà della ricchezza. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi.

Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi, economicamente deboli e poco sviluppati.

Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo: – a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere>>

La continuità del messaggio, dal Concilio Vaticano II fino a oggi è evidente. La Storia vista dal punto di vista della Chiesa non è e non può essere storia di lotta di classe, di ribellione di chi ha di meno nei confronti di chi ha di più. E’ una questione più ampia, più alta, di giustizia sociale.

Essere povero, per la Chiesa, significa evitare il superfluo, ciò che non serve. Non significa vivere in miseria. La Chiesa ha sempre combattuto la miseria. Di più: ha, da sempre, il dovere di denunciarla.

Certo, avrebbe potuto farlo meglio, lasciando da parte le banche e sostenendo in misura maggiore quelle realtà di frontiera che sono le missioni, spesso e volentieri l'unico vero baluardo a difesa dei poveri. Sotto questo punto di vista, la religione cristiana non può essere considerata “l’oppio dei popoli” –come la definiva Marx.

E' una Chiesa, quella di Papa Francesco, che sta riscoprendo il messaggio originale del Cristianesimo, riproposto e sottolineato già nel Concilio Vaticano II e aggiornato, come si è visto, fino a oggi.

Un messaggio articolato, multiforme, che diventa sempre più complesso calare nella realtà dei nostri giorni. Anche per questo, in alcune sue parti è un messaggio rimasto troppo a lungo dietro le porte dei sacri palazzi, al centro di un corpo che è apparso essere troppo distante dalla realtà.

 Come nota don Denisi: <<Mezzo secolo dopo, un Papa ne ha fatto il programma del suo pontificato.>>

Ecco, utilizzando la stessa metafora  di De Luca, il messaggio di Papa Francesco potrebbe essere tradotto così: allontanarsi dal centro, anche dal luogo fisico –il Vaticano- e andare –sia fisicamente che con i comportamenti personali- verso le periferie esistenziali. Avvicinarsi sempre di più a quei gironi di vita infernale dove ci sono quei “fratelli più piccoli” di cui parla il Vangelo di Matteo, a quella circonferenza dove c’è Dio, a quella circonferenza che è Dio.