31 maggio 2020

UMANITA' CONTRO DISUMANITA'

Il 26 Agosto 2016 Colin Kaepernick, giocatore dei San Francisco 49ers -franchigia che fa parte della NFL, lega professionistica del football americano- si inginocchiò sulla linea laterale terreno di gioco durante l'esecuzione di "Star spangled banner", l'inno degli Stati Uniti che di solito i giocatori asoltano in piedi, con la mano sul cuore, prima dell'inizio delle partite.


  Era il modo, civile e non violento, in cui Kaepernick protestò perché non voleva rendere nessun onore a un paese in cui i neri erano ancora oppressi, vittime di odio e violenza razziale e della brutalità della polizia, che in quel periodo si rese protagonista di diverse uccisioni diamericani dalla pelle nera.
La protesta continuò durante tutta la stagione agonistica, seguita da molti altri giocatori, anche nelle altre leghe professionistiche. Anzi, fu ancora più intensa, a causa delle sconsiderate parole del presidente Trump dichiarò che i proprietari delle squadre avrebbero dovuto licenziare quei giocatori che protestavano contro l'inno nazionale.
 L'anno successivo, Kaepernick rimase senza contratto e non mise più piede in campo, per nessuna squadra della NFL che, invece, fu citata in giudizio dal giocatore di colore -di madre di origini italiane- per un presunto accordo tra i vari proprietari delle squadre (sono 32) per non farlo giocare perché divenuto socialmente scomodo. La causa si è conclusa lo scorso anno, con un lauto risarcimento a favore di Kaepernick, il quale, però, non si è fermato e ha continuato la sua protesta civile, fondando la "Know Your Rights Camp" [Campagna Conosci i Tuoi Diritti], un'associazione che tiene seminari gratis a favore dei giovani disagiati, su storia americana e diritti civili.

Il  25 Maggio 2020, a distanza di meno di quattro anni, un altro uomo si è inginocchiato a Minneapolis, ma non ai bordi di un campo da football o in uno stadio. Quell'uomo era un poliziotto, bianco, e si è inginocchiato sulla gola di un uomo, nero, George Floyd, che era stato bloccato pancia a terra da quattro agenti poiché accusato di avere con sè una banconota falsa da $20.
Il video dell'arresto ha fatto il giro del mondo. Floyd, che manifestava chiari segni di difficoltà respiratorie, e dopo aver implorato aiuto più volte, è rimasto immobile, esanime, sulla strada ed è morto poco dopo essere arrivato in ospedale.
Quello che più mi ha colpito in quel video, è l'espressione di convinta superiorità del viso dell'agente -il cui nome non merita di essere menzionato né, tanto meno, ricordato- di polizia, forte del suo potere. Potere non in quanto agente di polizia, ma in quanto bianco, che sottomette un nero.
Dopo la morte di George Floyd, l'ennesima ai danni di un nero americano da parte delle forze di polizia, negli Stati Uniti è divampata la protesta. Bianchi, neri, asiatici, ispanici, si sono uniti a protestare contro i razzisti suprematisti della razza bianca.
E' il segno che il Paese che della democrazia e dei diritti civili degli uomini liberi e coraggiosi è stato sempre il simbolo, è stanco di assistere ad atti di violenza gratuita che hanno l'aggravante di essere stati posti in essere da tutori dell'ordine.
Vero è che pur avendo fatto passi da gigante negli ultimi sessant'anni, la questione razziale negli Stati Uniti è ancora un problema irrisolto, che serpeggia latente tra i vari gruppi etnici, pronto a esplodere in occasione di episodi particolarmente violenti, come la morte di George Floyd.
Il problema fondamentale, però, è sconfiggere una volta per sempre la sparuta minoranza dei suprematisti bianchi. In un Paese come gli Stati Uniti, sono facilmente identificabili e contenibili, se solo si vuole, con delle leggi appropriate, ivi compresa una maggiore severità nella selezione di coloro che intendono indossare una divisa. E' questo, credo, che la maggioranza del popolo statunitense chiede oggi a chi li governa.
Nell'attesa che chi di dovere prenda delle drastiche decisioni legislative, al popolo -la parte sana, solidale, della società americana- non resta che la protesta. Non certo quella violenta, fatta di danneggiamenti e furti, incendi e bombe o sparatorie 8tipici metodi usati dai suprematisti). ma quella fatta in maniera civile, non violenta.
Questa foto che vedete sotto - scattata lo scorso 29 Maggio da Dai Sugano, fotogiornalista  del quotidiano "The Mercury News"- è emblematica: un giovane nero americano si inginocchia davanti alle forze di polizia in assetto antisommossa, durante una protesta a San Josè, in California.



 Tra le tante immagini di scontri e proteste, chiudo con queste, che ho trovato tra le più significative. Ci ricordano che l'esempio di Kaepernick continua a dare i suoi frutti e che quanto sta succedendo non è un problema di bianchi contro neri, di poliziotti contro neri ma di umanità contro il razzismo, di umanità contro disumanità.









N.B.:Foto tratte da: https://www.procon.org/files/2-headlines-images/kaepernick-kneels-during-national-anthem-750.jpg; https://twitter.com/daisugan/status/1266620213073637380; https://twitter.com/onelovesbutera/status/1266902623774441473; https://twitter.com/tfiotae/status/1267117942539456512


15 maggio 2020

15 MAGGIO 1948, النكبة (LA NAKBA, LA CATASTROFE)


15 Maggio 1948, النكبة (la Nakba, la catastrofe).
E' il giorno in cui, dopo la dichiarazione della nascita dello Stato di Israele, ebbe inizio l'estromissione forzata del popolo palestinese dalle terre in cui era sempre stato.

Sono passati 72 anni, ed i palestinesi aspettano ancora di ritornare nella loro Patria, nel loro luogo del cuore.
Se chiudo gli occhi e immagino di essere palestinese, facendo un salto indietro nel tempo di 72 anni, vedo i miei nonni, costretti a lasciare le loro case, li vedo scappare portandosi dietro i loro figli e le loro figlie, ancora bambini, alcuni di loro ancora in fasce.
Li vedo rifugiarsi nei campi profughi, senza niente da mangiare. Vedo i miei nonni cercare un lavoro, per racimolare i soldi necessari a comprare un biglietto che possa consentire alle loro famiglie di imbarcarsi su una nave, attraversare il Mediterraneo ed approdare, dopo ventiquattro anni, a Scilla, dove sono nato, cresciuto ed ho vissuto fino ad oggi.
Intanto, però, i miei nonni non ci sono più, non c'è più nemmeno mio padre. Della Palestina conosco solo quello che mi hanno raccontat, non l'ho mai vista se non con la forza dell'immaginazione. La Palestina non è quella che vedo attraverso la televisione, non è così la terra di cui mi hanno raccontato i miei nonni e mio padre.
Mentre scrivo, chiudendo gli occhi vedo due vecchie chiavi.


Sono qui, a pochi centimetri da me, ma ad occhi chiusi raccontano la storia che avete letto.
Sì, perché sono le chiavi che hanno conservato i miei nonni il giorno in cui furono costretti a lasciare le loro case. Servivano per aprire le porte di quelle abitazioni dalle quali sono dovuti uscire sotto la forza delle armi.
 E il portapenne vuoto è quello in cui appoggio la penna con la quale sto scrivendo queste righe.

Le hanno portate con loro, le hanno lasciate a me, la terza generazione che vive lontano da casa. Sì, perché sto bene a Scilla, è un bel paese. E questa, da dove scrivo, è la mia casa, ma non è casa mia, della mia famiglia.
Se chiudo gli occhi, casa mia è nella terra dei miei nonni, è in Palestina.
Spero, un giorno, di poterci andare, di poter usare di nuovo quelle chiavi, aprire le porte di quelle case. E porterò con me anche questa penna, per poter scrivere di un giorno che resterà nella storia. Perché è una storia, quella del popolo palestinese, che non può essere cancellata, ma sarà ancora tutta da raccontare.




Questa che segue è la traduzione della testimonianza diretta di Mahmoud Salah, che ha ispirato il racconto che avete letto e che trovate CLICCANDO QUI

- Ho perso la mia dignità come uomo. Ho perso il mio futuro. Ho perso la mia terra.

Immaginate di essere costretti  con la forza ad uscire da casa vostra...di essere rimpiazzati da qualcun altro. E' quello che è successo a Mahmoud Salah. E' originario di un villaggio palestinese chiamato Sar'a (pron. Sarà), nel sottodistretto di Gerusalemme.
 
- Ricordo il villaggio, vivevamo come una famiglia molto felice, in un villaggio molto felice.

Ma poi arrivò il 1948

- Il villaggio è stato invaso da ovest.

 Mahmoud ha 86 anni ed è un sopravvissuto alla Nakba (النكبة, la catastofe). E' uno degli oltre 750.000 palestinesi che fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante la creazione dello Stato di Israele. Mahmoud aveva 16 anni quando fu costretto a lasciare il suo villaggio.

- La Haganah (l'esercito del pre-stato israeliano) decise di prendere questo villaggio, il nostro villaggio. Il villaggio dietro di noi fu quasi distrutto, e la gente che lo abitava venne con noi, di villaggio in villaggio, uno dopo l'altro.

 A causa dell'esodo la famiglia di Mahmoud non potè portare molto con sè.
 
- Lasciai tutto lì. Lasciammo tutto.

Mahmoud e migliaia di altri continuarono a cercare posti in un cui stare temporaneamente, sperando di tornare ai loro villaggi.

- Ero qui e dicevo (al mio cuore): torneremo.

Furono senza casa per lungo tempo e soggiornarono in diversi campi profughi

- Eravamo molti, molti villaggi, (a stare) sotto gli alberi, nelle grotte, aspettando soltanto quando tornare. Avevamo fame. Non avevamo niente da mangiare.

Da giovane rifugiato, Mahmoud divenne depresso, guadagnava solo 15 centesimi al giorno

- Scrissi una lettera alla United Nations Relief Agency [agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione, oggi UNRWA] a Beirut. Dissi loro: ho bisogno di un lavoro, ho bisogno di aiuto. Se non  trovo un lavoro, mi ucciderò.

Provò a trovare lavoro in un campo profughi per 5 anni e mezzo. Mahmoudalla fine si diresse in Colombia, in un viaggio via mare che durò diverse settimane. Vi rimase per quasi 5 anni. Quasi vent'anni dopo aver lasciato il suo villaggio, arrivò in America (Stati Uniti).

- Amo questo paese, ma a volte ho qualche problema. A volte ti chiamano con nomi... ma questo paese è ancora il migliore che conosca.

Poiché ha il passaporto americano Mahmoud è potuto tornare e visitare il sito del suo villaggio.

- Quando tornai, andai al villaggio. Non vidi un villaggio. Non c'è nessun villaggio. Provai tristezza e cominciai a piangere. Ma ho portato il villaggio qui...nel mio cuore. Ancora adesso [stando con gli occhi chiusi] vedo la strada del villaggio, vedo le case nel villaggio. Vedo ogni cosa nel villaggio.

Seppur abbia trovato una nuova casa in America, gli manca ancora molto la Palestina e vorrebbe poter "tornare a casa".

- Questa è la mia casa, ma non è casa mia. Casa mia è Sar'a. Non sento che questa (casa) mi appartenga. Il mio cuore, la mia mente, i miei occhi, il mio pensiero è ancora in Palestina.


03 maggio 2020

E CHI CATINAZZU!

Mi piace la radio. La ascolto spesso, fin da bambino. Mi piace perché è più seria, più educata della televisione che, invece, guardo sempre meno.
In questi giorni, a causa della pandemia in corso, non c'è distinzione tra una stazione e l'altra: Italia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Africa, di qualunque nazione siano, il tema centrale dei canali d'informazione radiofonica è solo e soltanto il "corona virus", che seppur pronunciato in modo diverso per ciascuna lingua, sempri schifu faci. E chi catinazzu!
Come fare a trovare qualche programma che informi ma in maniera allegra? Esclusi i canali musicali, che mandano tutti la stessa musica, a volte perfino negli stessi orari -e chi catinazzu!- non mi è rimasto che cercare nei podcast.
Il primo che mi appare nella lista porta solo tre lettere: WTF. Non è la sigla di un'emittente radiofonica, come potrebbe sembrare a prima vista. No, sono le iniziali di un'espressione americana -nu pocu scustumata- che potrei tradurre nel nostro dialetto con ECC: E Chi Catinazzu!
Non è una strana coincidenza?! No, non lo è: senza saperlo, ho trovato quello che cercavo.
E' il podcast di un comico americano, o meglio di uno "stand up comedian" -cioè quei comici ospitati nei programmi di intrattenimento o che fanno i loro spettacoli, che fanno il loro intervento in piedi e non da dietro una scrivania- che si chiama Marc Maron. Ricordo di averlo visto molti anni fa, ospite del "David Letterman Show". Trasmette i suoi podcast da un garage della sua casa di Los Angeles, riadattato a studio radiofonico, in compagnia dei suoi amati gatti. Lo show, che può contare su diversi sponsor, va avanti dal 2009 e al momento in cui scrivo, gli episodi sono 1119.
In ogni puntata, Maron intervista comici e personaggi famosi del mondo dello spettacolo o del cinema, attori, registi, sceneggiatori, ma anche scrittori e politici (nel 2015 è stato ospite il Presidente Obama).
L'obiettivo dichiarato del conduttore è quello di curare le sue debolezze condividendole con quelle dei suoi ospiti e dei suoi ascoltatori, che gli scrivono in parecchi, offrendo contemporaneamente un punto suo punto di vista della società e della politica americana, a dire il vero palesemente orientato su posizioni liberal anti-Trumpiane, ma questo è solo un dettaglio.
L'aspetto che più colpisce è lo scoprire come anche i personaggi famosi abbiano i propri punti deboli (numerosi sono i casi di dipendenze da alcool e droghe) e commettono i loro errori, a volte anche molto gravi; è scoprire come la fama li abbia raggiunti non perché l'abbiano veramente cercata, ma per una serie di circostanze più o meno fortunate; è scoprire che anche dietro uomini e donne influenti e di successo, si possono nascondere veri e propri drammi familiari.
Ogni puntata è un colloquio -tra ospite e conduttore- che, in realtà, si trasforma in una sorta di autanalisi collettiva. Perché poi, al di là delle differenze di capacità economica, si scopre che i problemi umani del pubblico che ascolta non sono diversi da quelli della più famosa star di Hollywood.
Un'altra cosa salta alle orecchie di ascolta: la rivendicazione, giusta, delle origini e delle basi culturali di ciascun ospite. Non ho potuto fare a meno di constatare, ad esempio, che su dieci ospiti, otto sono di origini europee -sette di cultura e religione ebraica (come il conduttore), uno di cultura e religione cattolica, anche se spesso non praticanti- uno è afro-americano, uno asiatico. Il dato di fatto che emerge, naturalmente evidenziato molte volte in modo ironico dai comici, è che queste differenziazioni sono ancora molto presenti nella società americana, nonostante essa sia una tra le più evolute al mondo, tanto da sfociare, purtroppo, ancora oggi in sentimenti razzisti. E chi catinazzu, però!
Ho cominciato ad ascoltarle tutte le puntate, anche quelle precedenti, che ascolto a ritroso nel tempo. E' anche questo un modo per confrontare la realtà del presente con le aspettative che avevamo per quel futuro che oggi è attualità. Scopri che ci sono cose che avevamo programmato di fare a cui dovremo rinunciare -e chi catinazzu!- ma per fortuna non sono poi molte. Scopri che molte cose le potremo continuare a fare comunque -e chi catinazzu!- anche se in modo diverso rispetto a quello a cui siamo stati abituati. Ce la faremo, chi catinazzu!