06 dicembre 2014

DISOBBEDISCO!!!

«Non potrebbe esservi un governo nel quale a decidere praticamente su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto non fosse la maggioranza ma la coscienza? Deve sempre il cittadino abbandonare la propria coscienza nelle mani del legislatore? E allora perché ha una coscienza? Penso che dovremmo essere uomini prima di essere sudditi.» -da “La disobbedienza civile” di Henry David Thoreau

Queste parole, scritte nel 1849, sono sempre in giro per la mia testa, ma nelle ultime ore la loro eco rimbomba sempre più forte.

  Il motivo? L'annunciata pubblicazione di un decreto sulla base del quale il comune di Scilla non sarebbe più considerato comune montano e, perciò saremmo costretti a pagare l'IMU anche sui terreni agricoli. L'ennesima legge rubaquattrini!

Finora, una Circolare (l'Italia è il Paese in cui per applicare una legge c'è sempre bisogno di una circolare!)  del 1993  elencava i Comuni  ricadenti in aree montane o di collina esentati dal pagamento dell'ICI. Tale esenzione si era poi trasferita all'IMU, fino a oggi

Con un Decreto Legge di Aprile 2014 (Governo Renzi) veniva stabilito che con ulteriore decreto (oh scaricasali!) del Ministro dell'economia e delle finanze, “di concerto” con i Ministri delle politiche agricole alimentari e forestali, e dell'interno (che concerto!) vengano individuati i comuni nei quali, a partire dal 2014, si applica l'esenzione
del pagamento IMU per i terreni agricoli, sulla base dell'altitudine riportata nell'elenco dei comuni italiani predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT).
Il bello (!) è che l'articolo che introduce questa assurdità s'intitola “Riduzione delle spese fiscali” ma essa è intesa per i Comuni, che dovrebbero ricevere queste somme a titolo di trasferimenti. La norma originaria, infatti, era stata inserita nella legge di conversione di uno dei tanti Decreti del Governo Monti del 2012, con lo scopo dichiarato di “racimolare”, dal 2014 in poi, una somma non inferiore a 350 milioni di euro.
Adesso il “Decreto concertato” pare che sia pronto per “suonare” gli italiani con un'altra mazzata e il Ministero delle Finanze ne ha diffuso il testo anche se, pur essendo la scadenza IMU oramai prossima (16 dicembre),ancora oggi manca la pubblicazione ufficiale. Insomma, il decreto “concertato” c'è ma non c'è, però ci sarà (sembra il titolo di una canzone di Battisti!). Chiaro, no?
Ma cosa dice sto piccolo Decreto, insomma sto De-cretino?
Sono esenti dall'imposta municipale propria” [volgarmente nota come IMU],”i terreni agricoli dei comuni ubicati a un'altitudine di 601 metri e oltre, individuati sulla base dell'”Elenco comuni italiani", pubblicato sul sito internet dell'Istituto nazionale di statistica (ISTAT), http://www.istat.it/it/archivio/6789 , tenendo conto dell'altezza riportata nella colonna "Altitudine del centro (metri)".
Dunque, i comuni il cui centro urbano sta a più di 600 mt. sono esentati, gli altri no.
Ora, si dà il caso che il centro urbano di Scilla secondo l'Istat è a 72 mt sul livello del mare [cliccate sul link sopra riportato, scaricate il file che trovate a destra nella pagina, cliccate e guardate con i vostri occhi, riga 6652, colonna P del file excel]. Tanto per capirci, 72 mt. è l'altitudine della piazza, dove ha sede il Comune.
Lungi da me voler fare il professore, ma penso che ancora un minimo di cervello mi sia rimasto. E quel poco di cervello che ho mi dice che il parametro logico su cui basare l'esenzione avrebbe dovuto semplicemente essere l'altitudine media di tutto il territorio comunale.
Chi conosce giusto un po' di geografia italiana -s'impara alle scuole elementari- la Calabria è combinata in maniera tale che dal mare, il terreno 'mpinna pi l'aria in pochissimo spazio, con pendenze in alcuni casi da brivido.
Sempre chi ha fatto bene le elementari anche a Aosta dovrebbe sapere che, nel caso specifico, Scilla è al centro della Costa Viola, ma dovrebbe sapere altrettanto bene che, come gran parte dei comuni calabresi, ha un territorio collinare e montano come pochi.
La mitologia insegna (siamo massimo alla prima media) che il corpo della ninfa Scilla fu tramutato in aquila e che si adagiò sulle acque dello Stretto di Messina.
Ebbene, guardando la cartina geografica (quella appesa accanto alla lavagna delle elementari), di quest'aquila: la testa è il castello, il becco il molo del porto, le due ali Marina Grande (la sinistra) e Chianalea (la destra). E tutto il resto del corpo?
Se ci fate caso, è costituito da San Giorgio (parte alta del centro urbano) e poi tutta la zona collinare di Melia, Solano, fino ai piani d'Aspromonte. Infine, la coda dell'aquila è il territorio più alto, che arriva fin sotto le pendici di Monte Nardello, a quasi 1800 mt sul livello del mare.
Insomma, è un'aquila dal corpo ben allungato e bella grande, visto che con gli oltre 44 Km2 di superficie è il secondo comune della provincia di Reggio Calabria (sempre geografia da scuola elementare-prima media). Semplificando e schematizzando, la situazione è la seguente: 

image

Dopo semplici elementi di geografia e mitologia -al massimo da prima media- passiamo a fare i conti. Per sapere come si calcola l'altezza media tra due punti non serve un geografo né un topografo, è roba sempre da quinta elementare-prima media:

Hmedia= (0+1800)/2 = 950 mt.

Dunque, pur non volendo ricorrere a calcoli più complicati (medie ponderate, analisi matematica, ecc.), non solo l'Istat è perfettamente in grado di sapere quale sia l'altitudine media del comune di Scilla -inteso come territorio, non come sede del Comune- ma anche un qualunque italiano che avesse preso 6 a scuola elementare o in prima media, Ministri e Presidenti del Consiglio (Monti e Renzi in particolare) inclusi.

Invece no, dobbiamo, secondo loro, “imboccarci” il dato statistico dei 72 mt. sul livello del mare! Quella è l'altitudine del centro del Comune -inteso come palazzo sede dell'istituzione- ma non certo la media del territorio comunale.

NO, FIGGHIOLI!

Cittadini ligi al dovere di pagare le tasse, va bene, ma pigghiati pi fissa cusì no! Neanche il Re all'epoca dell'unificazione territoriale italiana (alcuni la chiamano annessione al regno sabaudo), aveva osato tanto contro i “terroni” analfabeti!

La situazione di Scilla, è comune a tantissimi altri comuni del territorio della nostra provincia e dell'intera Calabria. Sarebbe appena il caso che i sindaci -anche il nostro Commissario Prefettizio, per primo, quale diretta emanazione di un organo di governo territoriale- si facessero sentire ad alta voce: iammu tutti a scola, e non credo ci sia nessuno disposto a farsi prendere per i fondelli in maniera così spudorata!

E invece tutto tace, o quasi. Nessuno parla! Lo ha fatto solo il Sindaco di San Roberto e di questo è giusto rendergliene merito.

Gli altri, pur di ritrovarsi nelle casse comunali qualche spicciolo in più, pare siano tutti disposti per l'ennesima volta a 'ttaccari l'ennesimu sceccu, senza alcuno scrupolo di coscienza.

C'è niente di peggio di una legge sbagliata? Sì, una legge sbagliatissima -pur se non ancora pubblicata- come questa perché priva del minimo fondamento logico.

Lascio da parte ogni considerazione di ordine economico. Noto soltanto che i terreni ormai sono considerati alla stregua di niente, anche se sono convinto che, prima o poi, alla terra torniamo, pirchì : 1) non putimu fari tutti i medici o l'avvucati, i prufissuri o l'ingegneri o i geomitri o l'architetti; 2) Non mangiamu carta o ‘mbivimu ‘nchiostru.

La loro coltivazione andrebbe agevolata e incentivata, nel caso di Scilla i vigneti dei terrazzamenti –che sembrano spuntare dal mare- sono un patrimonio economico-storico-paesaggistico dal valore inestimabile; i boschi che ricoprono le nostre montagne nascondono una potenzialità economica legata alla produzione di energia (elettrica e termica) ancora tutta da sfruttare (e sarebbe ora!); gli orti e i seminativi, se adeguatamente sfruttati, non solo possono dare sostentamento diretto, ma costituiscono la base per impiantare una rete economica la cui diffusione –grazie anche a internet e ai moderni mezzi di comunicazione- si è dimostrata essere potenzialmente illimitata. Tutto ciò non è frutto della mia fantasia, ma è riscontrabile in tante piccole realtà locali (ancora troppo piccole, ma che potrebbero crescere in pochissimo tempo). Questa è la nostra ricchezza, anche se, purtroppo, simu rricchi e ancora n’o sapimu

E’ questa la nostra unica possibilità di futuro e non merita di essere affossata da provvedimenti di una stupidità immane, come quello preannunciato di prossima pubblicazione. Invece di aiutarci a tirar fuori la ricchezza dalla terra, finiscono col sotterrarci definitivamente.

Come dite? I 350 milioni all'anno che servono al governo? Che vadano a trovarli nelle banche, in quelle banche il cui modo di pensare ha annientato le coscienze, ha oramai infettato ogni angolo della nostra Europa, Calabria inclusa! Che vadano a  trovarli nelle banche i soldi, non nella terra! Nella terra cresce di tutto, ma non certamente 'a sordara (ovvero, l'albero dei soldi). Chi vive della terra ha sempre vissuto dignitosamente, non gli è mai mancato niente, anche se non s’è mai arricchito. E non è affatto un male!

Da uomo-cittadino non suddito, ma trattato peggio del peggior suddito più scemo, mi rifiuto di accettare questo ennesimo furto legalizzato e, al contrario di Garibaldi, disobbedisco!!!

10 novembre 2014

SILLY SONG

 

I feel so bad,
and I feel so sad,
Think I'm goin' mad,
With you stucked in my head

I look here, I look there,
And the void I stare,
It’s not so fair,
I see you ev'rywhere.

But time can't wait,
It's just too late,
I'm inadequate,
Oh, that's my fate:

You don't need me as I need you,
Well, I think it’s true,
That's why I feel...
I feel so blue.

What else to say?
You made your way
and I have to pay
'Cause I'm not okay

I'm not big, I'm not tall,
I realized I have no goal,
I'm just asking my soul:
I don't know, what is my role?

I'm not so strong,
I'm made so wrong,
So I twist my tongue
With this silly song

You don't need me as I need you,
Well, I think it's sadly true
That's why I feel...
I feel so blue.

27 settembre 2014

‘U ‘FFACCIATURI


(libero adattamento scillese, in lingua indigena, di “'A finestra” di Carmen Consoli)




 

Perché “‘A finestra” è diventata “‘U ‘ffacciaturi”

Di solito, le canzoni non si spiegano, si cantano e basta.

Ma siccome la canzone in versione scigghitana non credo che sarà mai cantata, e siccome già Carmen Consoli, traducendo il dialetto siculo, ne ha illustrato il significato in italiano in un video, allora mi permetto di spiegare pure io perché, nell’adattamento scillese, la mitica‘A Finestra è diventata ‘U ‘ffacciaturi.

Nella canzone di Carmen Consoli, la protagonista è una signora –ormai avanti negli anni- che usa passare le giornate standosene dietro la finestra di casa, a spiare quello che fanno i suoi compaesani. Di sicuro, a Scilla ce ne sono di personaggi simili.

Ma noi a Scilla abbiamo un posto speciale, dal quale la gente spia quello che fanno gli altri senza però nascondersi, bensì facendo finta di ammirare lo splendido panorama dello Stretto di Messina. Quel posto è piazza San Rocco, il cui punto d’osservazione principale e privilegiato è proprio ‘u ‘ffacciaturi –in italiano, l’affacciatoio.

L’affacciatoio scillese è, se vogliamo, anche per assonanza, come il lavatoio, al quale le comari del paese si recavano, con la scusa di andare a lavare i panni, per “tagliare e cucire” sulle disgrazie, le gioie e i fatti altrui in genere. Ecco, a Scilla il lavatoio è pubblico, i panni sporchi non si lavano in famiglia, ma in piazza, affacciati a una finestra naturale molto speciale, il cui davanzale è ‘u ‘ffacciaturi.

E davanti a questa finestra naturale, sotto gli occhi dei “guardiani” delle vite altrui, scorre l’umanità più varia, con sullo sfondo uno Stretto di Messina sempre uguale, ma diverso: spopolato di pescatori, di siciliani e calabresi costretti ad andar via, ma che tornano ogni anno a fare il nido da queste parti, come gli uccelli migratori.

Chi resta qui, è gente streusa, cioè con la testa un po’ matta, che vive col gusto di sparlare. Ma c’è anche chi qui vive nella speranza (vana?) che arrivi qualcuno, un giorno, ad aggiustarle quelle teste, capace cioè, di cambiare il loro modo di pensare e, quindi, di vivere.

 
 
 

Vardu sempri 'u 'ffacciaturi, ch'è 'na beddha e longa barcunata,
quandu a' chiazza pigghiu aria, viru genti ddhà 'ppuiata,
chi sta' ddhà mintuta, su' 'mpalati e fermi, sempri addritta
e sutt'occhiu hann' ogni cosa, a cu' nci ttocca, un turnu a' vota.
Sì chi fannu i turni, e chi su' bravi, 'i viri fin dalla matina,
ndavi picca 'i quandu brisci la iurnata.
'N corpu 'i vardia organizzata, chi pi tutti li vintiquattr'ori
'i to' passi li stannu a cuntari.

Vardu sempri 'u 'ffacciaturi e viru genti 'ndaffarata,
ch' è 'nzivata, a scianchi chini, a centru chiazza sputa e fuma mentri 'spetta.
Genti poi chi mbascia l’occhi, ‘a testa l’ha ‘nfundata,
cu' si fa' 'na vasca, cu' avi 'n peri a' chiazza e l'atru a' casa.
Nc'esti cu' s'a fa' ciangendu «Oh figghia!», cu nta chiazza sgumma o 'mpinna,
cu', stai 'stati e 'mbernu, sulu pi scummissa.
N'cè cu' sapi l'acqua quandu è cadda,
varda 'u mari, è 'na tavula: 'rrisciata, non s'affanna.

N'a finiti di vardari? non pariti atru chi mavàri
ddh'occhiu siccu 'it' a 'ittari
Unu vinni pi 'ffacciari, ma s'a fuìu, oh botta 'i citu!
'chì ì  'stu schicciu 'u mari è vitru.
Ieu nci ricu: «Chi nci 'ò fari?! Ma 'i petri a mari ‘i ccà 'i po' cuntari.» 

Capitau chi ‘na matina, propria 'i facci, avanti di la cresia,
bbuci, «Ma… chi sbentula!», ndi scaccia l'occhiu e faci puru 'a mossa:
«Pi favuri, mi vardati?», par t’invita e nnaca 'i carni,
ru riavulu ha la facci, cunsulativi, v’inganna.
Si non sbagghiu, nti la cresia si festeggia ‘n matrimoniu,
sì, uh mamma chi triatu! Oh manicomiu!
Mentri ‘a sposa fora ‘spetta, avogghia chi la vardi,  non ti voli,
pi chistu tu si’ ccà? oh chi mala 'ccasioni!

N'a finiti di vardari? non pariti atru chi mavàri
ddh'occhiu siccu 'it' a 'ittari.
Unu vinni pi ‘ffacciari: «Pi mia, 'stu cielu è fintu!»
«Chistu mmanca, ma sintiti a chiddhu!»
Ieu nci ricu: «Sì, ha’ ‘spittari:
è Diu chi quand' a mari 'u suli posa, 'u fa’ pittari.»

Vardu sempri ‘u ‘ffacciaturi e viru ‘u Strittu, è ddhà,
nun è cangiatu, nui 'i ccà ch'i siciliani ndi stringiumu la manu
quandu si ‘ittava ccà, ntà l’antichità, la rrizza
e 'i pisci, chi biddhizza! si spartìa cu onuri e cu saggizza.
«Or, passati 'i ferii, ccà nui forsi si vulissi, sì, ristari,
ma pigghiamu l'arioplani pi turnari.»
Da 'sta terra 'i vi’u vulari, a lentu, com' o' ceddhu migratori
ch' 'a fuléa, chi cosi!, ogn'annu av' a rassari.

N'a finiti di vardari? non pariti atru chi mavàri,
ddh'occhiu siccu 'it' a 'ittari.
Nc'è cu' vinni pi sturiari a vui, chi ccà nci stati e aviti ‘u gustu di ‘sparrari.
Ieu nci ricu: «Pi piaciri, nc’è ‘n cacchi testa streusa, la putiti vui ‘ggiustari?!»

 

Traduzione italica

L'AFFACCIATOIO*
Guardo sempre l'affacciatoio, che è una bella e lunga balconata,
quando in piazza prendo aria, vedo gente lì appoggiata,
che sta messa lì, sono impalati e fermi, sempre in piedi
e hanno sott'occhio ogni cosa, a chi tocca, un turno alla volta.
Sì che fanno i turni, e come sono bravi, li vedi fin dal mattino,
ce ne sono pochi quando spunta il giorno.
Un corpo di guardia organizzata, che per tutte le ventiquattro ore
sta lì a contare i tuoi passi.

Guardo sempre l'affacciatoio e vedo gente indaffarata,
che è sporca, a fianchi pieni, al centro della piazza sputa e fuma mentre aspetta.
Gente poi che abbassa gli occhi, la testa ce l’ha quasi affondata (nelle spalle),
chi si fa una vasca**, chi ha un piede in piazza e l'altro a casa***.
C'è chi si piange sempre «Oh figlia!», chi in piazza sgomma o impenna,
chi ci sta d'estate e d'inverno, solo per scommessa.
C'è chi sa quando è calda l'acqua del mare,
lo guarda, è una tavola: rifiata e non s'affanna.

Non la smettete di guardare? non sembrate altro che megere,
dovete buttare il malocchio secco****.
Uno***** è venuto ad affacciarsi, ma se n'è scappato, oh botta d'aceto!******
Perché da questo strapiombo il mare è come il vetro.
Io gli dico: «Che vuoi farci?! Ma le pietre a mare da qui le puoi contare.» 

E' capitato che una mattina, proprio di fronte, davanti alla chiesa,
grida, «Ma… che sventola!», ci fa l'occhiolino e fa anche la mossa:
«Per favore, mi guardate?», sembra invitarti tutta ancheggiante,
ha la faccia del diavolo, consolatevi, v'inganna.
Se non sbaglio, in chiesa si festeggia un matrimonio,
sì, oh mamma che spettacolo! Oh confusione!
Mentre la sposa aspetta fuori, è inutile che la guardi,  non ti vuole,
per questo sei qua? oh che sciagura!

Non la smettete di guardare? non sembrate altro che megere,
dovete buttare il malocchio.
Uno è venuto ad affacciarsi: «Secondo me, questo cielo è finto!»
«Questo manca, ma sentitelo!»
Io gli dico: «Sì, devi aspettare:
è Dio che quando posa il sole in mare, lo fa dipingere.»

Guardo sempre l'affacciatoio e vedo lo Stretto, è là,
non è cambiato. Noi da qui con i siciliani ci stringevamo la mano
quando si gettavano qui, nell'antichità, le reti
e i pesci, che bellezza!, li si divideva con onore e con saggezza.
«Ora, passate le ferie, qua noi forse vorremmo, sì, restare,
ma prendiamo gli aerei per tornare.»
Da questa terra li vedo volare, lentamente, come l'uccello migratore
che il nido, che cose!, ogni anno deve lasciare.

Non la smettete di guardare? non sembrate altro che megere,
dovete buttare il malocchio.
C'è chi è venuto per studiare voi, che qui ci abitate e avete il gusto di sparlare.
Io gli dico: «Per piacere, c’è qualche testa matta, voi la potete aggiustare?!»

 

NOTE

*Affacciatoio: Molti lo tradurrebbero, impropriamente, come Belvedere. In realtà, ‘u ‘ffacciaturi è il nome che gli scillesi danno alla balaustra che delimita la terrazza naturale di piazza San Rocco. Il nome ‘ffacciaturi, è dovuto al fatto che esso consente l’affaccio diretto sulla baia di Marina Grande e sull’imboccatura nord dello Stretto di Messina.

**Vasca: riferito a piazza San Rocco, s’intende un ciclo di passeggio, in andata e ritorno, dalla balaustra fino al centro della piazza. Solitamente, durante i “turni di guardia”, le vasche sono parecchie e il loro numero varia al variare  dei “guardiani”.

***Un piede in piazza e uno a casa: c’è chi, tra un “turno di guardia” e l’altro, ne approfitta per fare un salto veloce a casa (per qualche commissione o per pranzare), ma poi ritorna velocissimo…in postazione.

****Malocchio secco: l’occhiu siccu non è il semplice malocchio, è qualcosa di più potente: ti prosciuga ogni energia vitale, ti rende secco.

*****Unu: letteralmente, è uno. In dialetto, è riferito a chi non si conosce, quindi è spesso utilizzato per indicare genericamente chi non è indigeno scillese.

******Botta d’aceto: traduzione letterale di Botta ‘i citu!, espressione solitamente usata per esprimere meraviglia per il comportamento stupido della persona a cui è riferita, alla quale gli si augura di ricevere una botta…di aceto, cioè qualcosa di non buono come il vino.



21 settembre 2014

LA BAMBINA E IL CAGNOLINO

La bambina arrivò tenendolo in braccio. Era il suo cucciolo, un cagnetto di peluche, che prese vita appena lo mise a terra: cominciò ad abbaiare e a scodinzolare con la coda a tergicristallo, mentre avanzava meccanicamente, con l’andatura traballante, sospinto dall’energia delle batterie, verso la parete opposta a quella da cui la bambina l’aveva fatto partire. La bambina sorrideva a vederlo camminare.

A un certo punto però, la stanza finì, il cagnolino sbatté col muso contro il muro. La bambina scoppiò in una fragorosa risata, quel gioco le piaceva. Si alzò dalla sedia da cui l’aveva osservato, andò a riprendere il cane e lo girò nella direzione opposta, verso la parete di partenza. Il cagnolino, due occhioni su un viso che ispirava tenerezza e simpatia, ricominciò a sgambettare e abbaiare, con il tergicristallo-coda sempre in azione. Fino al muro, e alla risata della bambina.

La scena si ripeté due, tre….diverse volte, non le ho contate. Il cane non si stancava mai. Non poteva stancarsi, lui. La bambina, invece, si stancò, come fanno tutti i bambini dopo un po’ che iniziano qualunque gioco. La sua attenzione, la sua curiosità, il suo completo interesse furono attratti, invece, dai colori di un quadro che riproducevano la spiaggia, le case e il cielo di una terra lontana, di là dal mare. Lasciò il cane lì, con il muso contro il muro, come se non fosse più suo, come se non l’avesse mai visto.

Se ne ricordò solo poco prima di andarsene, quando raccolse i giochini e i giocattoli che aveva seminato e abbandonato sul pavimento, per tutta la stanza. Li radunò tutti in un angolo, prese dalle mani della madre uno zainetto che era grande quasi quanto lei e li ficcò dentro alla rinfusa, senza badarci più di tanto. Per quel giorno le erano bastati. Li avrebbe ripresi domani, dopodomani, chissà…..comunque, il giorno in cui le sarebbero serviti di nuovo per divertirsi, per farsi una risata.

Guardavo quel cagnolino, quasi ipnotizzato dal suo andare avanti/indietro, dal movimento del tergicristallo che era la sua piccola coda. E più lo guardavo, più pensavo che, in fondo, non sono poi tanto diverso da lui: non ho una vita, esisto.

Prendo vita, come il cagnolino, solo quando qualcuno ha bisogno di me. E vado avanti/indietro, consumo energie. Chi mi spinge è una strana batteria, unipolare: l’amicizia. Non potrà mai esserci nient’altro di più potente a spingermi. Vado avanti/indietro, ma sbatto contro il muro. E quando sbatto contro il muro, mi faccio male. Invidio il cagnolino, lui non prova dolore.

Lo invidio il cagnolino, perché ho l’impressione di scodinzolare e trasmettere così simpatia ed amicizia. Ma è solo un’impressione, non ho la coda. Lo invidio il cagnolino, perché, diversamente da lui, finisco col sentirmi monotono, ripetitivo, inadeguato, ingenero sentimenti di fastidio. Sono come un paesaggio sbiadito che non offre nulla, tutto il contrario dei colori forti, vivaci e attraenti del quadro che riproduce la spiaggia, le case e il cielo di una terra lontana, di là dal mare.

Sono per gli altri, come il cagnolino, come un qualunque giocattolo per la bambina: la mia utilità dura poco, fino a una risata. Poi torno innocuo, anonimo, nella mia esistenza alla rinfusa, dentro lo zainetto fino al giorno in cui servirò di nuovo, per regalare un’altra risata.

Non ho una vita, esisto, ma senza coda e dolorante per le botte prese sbattendo contro il muro.

05 settembre 2014

SDENTATI

 

Il professore entrò, posò l'agenda sulla cattedra, si voltò verso di noi e con le mani conserte disse: «Buongiorno! Mi chiamo Francesco Barillà e da oggi sarò il vostro professore di diritto per i prossimi cinque anni.» Non molto alto, capelli corti crespi, barba, occhiali spessi (con tempo, avremmo saputo che la sua vista non era delle migliori), l'eloquio sciolto, franco, diretto, senza fronzoli. Un tipo molto intelligente, insomma, in parole povere, un figghiu 'i bona mamma -nel senso più affettuoso e riconoscente del termine.

«Quanti siti 'i Rriggiu? E ra provincia?», spiò siccu in dialettu. Capii subito che saremmo andati d'accordo.

Fatte le presentazioni, entrò subito nel merito della materia: «In questo primo anno, parleremo delle varie ideologie e della Costituzione Italiana».

Correva l'anno 1986, il Presidente del Consiglio era Bettino Craxi e il muro di Berlino era ancora lì, a dividere il mondo secondo schemi e limiti ben precisi, imposti dalla Guerra Fredda (che però si stava scongelando): i Paesi buoni da una parte, i cattivi dall'altra, proprio come i nomi segnati sulla lavagna. Chi fosse il buono e chi il cattivo, dipendeva da come ciascuno la pensava. Per questo, il professore Barillà, con estrema onestà intellettuale, si premurò di fare una precisazione: « Figghioli, ieu v'u dicu subitu, non vi vogghiu influnzari: ieu sugnu comunista! Se c'è 'n cacch'unu tra vui chi 'a ensa com' a mia, mi faci piaciri. A cu' 'a pensa 'i 'natra manera, 'u rispettu 'u stessu!»

Sentendo quelle parole, capii che quell'uomo che avevo davanti mi avrebbe insegnato non solo una materia, ma a capire gli uomini, il mondo. E così fu. Sì, perché è inutile negarlo: sono gli anni della scuola media (inferiore prima, le superiori dopo) a formare il carattere e il modo di pensare di un individuo. O almeno, era così a quei tempi. Oggi non sono tanto sicuro che ciò avvenga.

Alla fine dell'anno, dopo aver completato il programma, mi ritrovai rafforzato nelle mie convinzioni: tra tutte le ideologie, la più bella era sicuramente il socialismo.

Da bambino ero cresciuto vedendo Sandro Pertini -una figura carismatica, il Presidente-Partigiano, esultare a Madrid come e più di tutti gli altri suoi connazionali, non in quanto tifoso della nazionale, ma in quanto Italiano -nel senso più alto, forte e intimo della parola. L'avevo ascoltato, negli anni del terrorismo, difendere con voce fremente, le Istituzioni e il senso dello Stato, per i quali quell'uomo aveva lottato e sofferto durante la Seconda Guerra Mondiale.

Insomma, nel socialismo ritengo sia racchiuso tutto il senso laico dello Stato. Lo Stato siamo noi cittadini e tutti dobbiamo essere messi in condizione di poter essere lo Stato. Lo sancisce in maniera bellissima, l'articolo 3 della nostra Costituzione:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese

Durante il mio ultimo anno alle superiori, il muro di Berlino cadde e in Italia si verificò uno sconvolgimento politico-giudiziario di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze: i giudici diventarono politici; i politici colpevoli -salvo pochissime eccezioni- invece di vergognarsi di quello che avevano fatto, si vergognarono delle loro idee e finirono col cambiare i simboli dei loro partiti, come se ciò poteva bastare a far dimenticare agli italiani quello che era un sistema ben noto a tutti, ma che solo in pochissimi ebbero il coraggio di ammettere pubblicamente.

Fatto sta che oggi, a livello europeo, la più forte espressione del socialismo puro è rappresentata dal Partito Socialista Francese. Ma anche al di là delle Alpi non mancano i guai.

L'economista francese Thomas Piketty -famosissimo negli Stati Uniti ma snobbato in patria- ha condotto uno studio approfondito sulle disuguaglianze nella struttura economica del capitalismo attuale, giungendo alla conclusione che l'assetto economico attuale dell'Europa è ancora di tipo ottocentesco: non vale la pena di lavorare, il mondo si basa “sui patrimoni accumulati senza fatica e non sui redditi frutto di merito e talento” -come scrive Stefano Montefiori sul Corriere della Sera. E' anche per questo che si fatica, invece, a far trovare lavoro, specie ai giovani.

Abbattere le disuguaglianze, tutte, è il fulcro, l'obiettivo principale su cui si fonda il socialismo. Ci si sarebbe dunque aspettato che il governo francese, guidato dai socialisti di Hollande, seguissero le indicazioni del noto economista. Invece... così non è stato.

Hollande &C. hanno preferito fare di testa loro, con la conseguenza che il governo francese si è spaccato e alcuni ministri hanno sbattuto la porta e se ne sono andati: ti saluto e sono!

Dal canto suo, Monsieur le Président -i cui poteri costituzionali sono paragonabili a quelli di un Re a mandato quadriennale- dimostra di avere una visione personale del socialismo, o almeno così lascia ad intendere.

Come rivela la sua ex compagna in un libro che sta letteralmente infiammando i media francesi (ed europei), il Presidente Hollande pare sia solito riferirsi ai più poveri chiamandoli con il nomignolo di “Sans dents” - Sdentati.

Così, dai Sans culottes -i partigiani della Rivoluzione di oltre due secoli addietro- siamo arrivati ai Sans dents, la classe più indifesa e umile della società francese.

Seppur involontariamente dunque, Hollande finisce col dare ragione alle teorie di Piketty: la struttura sociale non è cambiata. Anzi, il divario tra poveri e ricchi, se possibile, si è ulteriormente allargato: gli eredi di coloro che due secoli fa non avevano i pantaloni alla moda, oggi non solo non hanno i pantaloni, ma non hanno nemmeno i denti!

Gli eredi di chi ha combattuto per far nascere uno Stato democratico, oggi sono ridotti ai limiti della sopravvivenza, emarginati dallo stesso Stato di cui sono parte integrante -in quanto cittadini- e, per di più, derisi in maniera pesante da colui che dello Stato è il massimo rappresentante.

Naturalmente, alla rivelazione contenuta nel libro, ha fatto seguito una miriade di commenti. Tra i tanti, mi ha colpito quello di una ragazza che ha scritto: “Anche per mangiare il caviale non servono i denti.” Verissimo.

Allora, verrebbe da pensare, avrà capito male la compagna di Hollande? Era ai ricchi che si riferiva M. le Président? A quelli che frequenta e incontra giornalmente, in giro per il mondo, per questioni istituzionali? Se così fosse, detta da un socialista -come lui dichiara di essere- sarebbe una delle migliori battute di sempre.

Invece non è così: Hollande si riferiva proprio ai poveri. E il fatto che egli, in conferenza stampa, si sia affrettato a rivendicare i propri meriti nelle tante iniziative a favore dei ceti più deboli e, quindi, a smentire l'affermazione contenuta nel libro , se da un lato ha in qualche modo limitato i danni, agli occhi e alle orecchie dei francesi, e miei!, non ha fatto altro che avvalorarne la veridicità.

Come mai, allora, il socialista Hollande ha utilizzato questa espressione nei confronti di una parte del popolo francese (e, per estensione, di tutti quelli nelle stese condizioni socio-economiche) che, proprio per i principi di cui egli è, al momento, il massimo portavoce, avrebbe dovuto difendere a spada tratta (come ha rivendicato di aver fatto in passato)?

Forse perché, stando a contatto con il bel mondo, con l'alta società, con “quelli che contano” frequentando chi non usa i denti perché mangia caviale, ha finito con equipararli a chi non solo non usa i denti perché ha poco o niente da metterci sotto, ma i denti magari non ha nemmeno la possibilità economica di curarli. Ma questo dettaglio, evidentemente, sfugge a Hollande. Per lui, a quanto pare, non c'è differenza: “Sans dents” sono i ricchi, perché i denti possono non usarli; “Sans dents” sono i poveri, perché i denti non possono usarli e perciò, non usandoli e non potendoli curare (come invece fanno i ricchi), finiscono col perderli del tutto.

Pour Hollande, tout le monde est sans dents! Tutti sono sdentati. E' questa, secondo lui, l'Égalité -sacro principio fondativo dello Stato francese, alla faccia delle disuguaglianze di cui parla Piketty.

Lasciando da parte il sarcasmo, l'espressione utilizzata da Hollande (perché, ripeto, che l'abbia utilizzata non ho alcun dubbio), è sicuramente infelice e fa rabbrividire, specie perché detta da uno che si dice -e fa pensare a chi lo ha eletto- essere socialista.

L'égalité cui si ispira il socialismo, non è un'uguaglianza “finale”, non risiede cioè nel fatto che sia i ricchi che i poveri, alla fine, per ragioni diametralmente opposte, possono considerarsi tutti “sans dents”.

d\'après l\'Elysée , un  pauvre, homo zupien, hollando inférieur.L'uguaglianza tra gli individui, cittadini di uno Stato democratico, per essere davvero tale, deve essere un’uguaglianza iniziale: sia i ricchi che i poveri devono avere la possibilità di decidere se mangiare utilizzando i denti o meno, ma prima devono poter avere la possibilità di mangiare, tutti, perché membri di una stessa comunità, di una stessa famiglia! Una volta che la tavola sarà apparecchiata per tutti allo stesso modo, con le stesse posate, gli stessi piatti e gli stessi bicchieri, una volta che saranno seduti -ricchi e poveri,fianco a fianco- alla stessa tavola, ognuno potrà scegliere in piena libertà se mangiare con o senza denti. Tutto questo per dire che non ci può essere vera Égalité, se non ci sono la Fraternité e la Liberté!

Égalité, Fraternité e Liberté non sono altro che gli stessi principi fondamentali del socialismo, un'idea, un orientamento politico, civile e culturale dell'individuo, il cui obiettivo -espresso dall'articolo 3 della nostra Costituzione, sopra richiamato- è tanto bello quanto ambizioso e difficile da raggiungere.

Per questo il socialismo non è sfuggito al destino di tutto ciò che è bello: la sua storia è stata sempre tormentata da scissioni, differenziazioni, polemiche, sofferenze, tradimenti.

Disse Pietro Nenni -grande socialista italiano: « Il socialismo è portare avanti tutti quelli che sono nati indietro

Perciò, credo io, rispettare il socialismo è anche fare un passo indietro quando ci si è spinti troppo avanti, oltre i limiti della decenza. Ma credo che Hollande questo non lo voglia capire.

Merci pour ce moment de honte socialiste, Monsieur le Président.

22 agosto 2014

LA FESTA DI SAN ROCCO: LA FEDE E’ PIU’ FORTE DELLE POLEMICHE

San Rocco_2014_chiesaBUM-BUM Sant'à Rroccu vinni e si ndi iau.
Per lo scigghitanu, la festa di San Rocco è un po' come Natale: la aspetti per un anno intero e poi...finisce subito.
Abbiamo aspettato che si calmassero le acque, per cercare di fare un bilancio di questa festa “anomala” ma, proprio per questo, bella.

Quest'anno abbiamo scelto di seguirle in silenzio le processioni. Siamo andati in controtendenza rispetto a quanto abbiamo fatto negli scorsi anni. Non è stato certo per fare uno sgarbo ai tanti scillesi che sappiamo ci seguono da lontano, in Italia e all'estero. L'abbiamo fatto perché abbiamo ritenuto opportuno ritrovare una condizione di normalità, che ci permettesse di vivere la festa nel suo significato più intimo.
Proprio per questo, ci siamo mischiati ai portatori e in particolare a quelli che “mbuttano” sotto le stanghe posteriori. Uno dei portatori, vedendo chi scrive lì in mezzo, chiede meravigliato: “E comu mai, nu geomitra a menzu all'operai?!
Quella domanda è stata sorprendente ma ha riassunto in sé il significato della festa di San Rocco.
Superata la sorpresa, gli ho risposto: “'U geomitra è 'bituatu a stari a menzu all'operai. Servi. Servi pi mantiniri 'i peri 'n terra.”

Tra tutti coloro che -a vario titolo- partecipano alla processione attivamente, senza dubbio il ruolo di “operai” tocca ai portatori. Non è stato un caso se abbiamo scelto di percorrere le strade del paese a fianco a quelli delle stanghe posteriori: sono quelli che non compaiono mai nella maggior parte delle fotografie che ritraggono le scene delle processioni, l'esatto contrario dei loro “colleghi” delle stanghe anteriori. Ma sono indispensabili.
San Rocco_ChianaleaE tra gli operai, tra questi speciali operai, i meno appariscenti, il geometra -da ingegnere dei poveri, cioè dei semplici- trova il suo habitat naturale.
E' lì, in mezzo a loro, dove l'aria è più calda e pesante di sudore, è proprio lì che si capisce cosa vuol dire sacrificio, impegno, fatica. Stare lì in mezzo per poche ore, è come vivere in un attimo un'intera settimana, un intero mese di lavoro.
E', quella dei portatori, una fatica offerta però con gioia, gratuitamente; un dovere verso un uomo santo, San Rocco, che ha abbandonato gli agi e le comodità della ricchezza terrena, per vivere la sua esistenza accanto ai malati, a quelli che usiamo definire “gli ultimi”.
Stare lì in mezzo aiuta a pensare, a riflettere, a capire in maniera diretta e forte che ognuno di noi ha un ruolo ben preciso in questo mondo, un dovere verso la gente, verso l'umanità. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, perdiamo di vista le cose importanti, smarriamo noi stessi.
Ecco allora che l'occasione della festa, il trascorrerla -seppure per poco- tra i portatori, aiuta a tornare con i piedi ben piantati per terra: solo così si possono affrontare il sacrificio, la dura fatica; solo così si può gustare appieno la gioia conseguente alle mete raggiunte.
E' stato bello, un'emozione particolare stare tra i portatori. Certo, 'mbuttari -lo dico senza vergogna- non è misteri 'u meu, nel senso che la Natura ha fatto sì che quello non fosse il mio ruolo. Ma stare tra loro, scambiare con loro anche solo una battuta, un sorriso, una parola d'incoraggiamento quando la fatica si è fatta sentire maggiormente, questo l'ho fatto volentieri e con grande piacere, e scrivere qualche riflessione al riguardo è il minimo che possa fare.
Non è stato un caso se, sia alla fine delle processioni sia dopo la messa di lunedi sera, il parroco ha ringraziato, primi fra tutti, i portatori.
A dispetto del gran parlare che se n'è fatto sui giornali per le note vicende accadute in altri paesi calabresi -assurti, per questo, all'onore delle cronache, a Scilla abbiamo dimostrato che le processioni non sono altro che un atto di fede, e di questo possiamo andarne sicuramente più che fieri. Nessun giornale scriverà titoloni su questo, ovviamente. Noi, al contrario, da scigghitani, ci teniamo a ribadirlo ancora una volta, non per vanto, ma per correttezza: a Scilla, le feste religiose si fanno seriamente.

Qualcuno non sarà tanto d'accordo con quanto sopra, è nell'ordine naturale delle cose. Si potrà dire: vi sembra serio annunciare all'urbe et all'orbi che i fuochi si faranno, e poi dover assistere a un vero e proprio disastro pirotecnico?!

Beh, se proprio dobbiamo essere sinceri, il disastro pirotecnico è stato innegabile. Ma permetteteci di mettere un po' d'ordine e fare chiarezza in ciò che è avvenuto.

L'11 Agosto, la Commissione Tecnica Provinciale Materiali Esplodenti (C.T.P.M.E.) ha eseguito sopralluogo presso i siti indicati per lo sparo dei fuochi.  Tale Commissione, nominata dal Prefetto, è chiamata per legge ad esprimersi preventivamente riguardo alle condizioni di sicurezza, per la prevenzione di infortuni e disastri, in base all'entità delle accensioni per le quali si chiede l'autorizzazione nonché del prevedibile afflusso di pubblico.
La Commissione ha espresso parere positivo con prescrizioni per il trionfino e per i fuochi alla villa comunale, ma ha dato parere negativo riguardo all'area di sparo -sulla spiaggia, in prossimità del torrente Livorno- utilizzata in passato per i fuochi di mezzanotte.

Il 14 Agosto la Parrocchia ha inviato al Comune due note, con le quali in una relazione precisava la tipologia di fuochi per il trionfino e per la villa comunale;
Sempre il 14 Agosto, ditta Chiarenza ha presentato al Comune richiesta per l'autorizzazione all'accensione dei fuochi del trionfino (il 17) e per il lunedi 18. La ditta non ha potuto presentare richiesta per i fuochi di mezzanotte, non essendo ancora stato stabilito né il sito adatto né, conseguentemente, la tipologia di fuochi utilizzabili;

Lo stesso 14 Agosto, il Commissario Prefettizio rilascia l'autorizzazione richiesta per lo sparo dei fuochi del trionfino e della villetta comunale. Nell'autorizzazione vengono specificate le tipologie di fuochi utilizzate e vengono richiamate le prescrizioni dettate dalla C.T.P.M.E., tra le quali la precisazione -in entrambi i casi- che trattasi di “fuochi a terra”, definiti dalla normativa come fuochi destinati  a “funzionare  a livello del suolo (o in sua prossimità se posti su opportuni supporti) i cui effetti si possono tuttavia propagare fino ad un'altezza da terra limitata nel massimo a metri 20, con aperture di diametro non superiore a metri 12 e ridotti effetti sonori.”

Dunque, occorreva trovare subito una soluzione alternativa per poter sparare i fuochi di mezzanotte.

Il 15 Agosto, il Parroco don Francesco Cuzzocrea presenta al Comune la richiesta di autorizzazione per l'accensione dei fuochi in onore di San Rocco per domenica a mezzanotte, sulla spiaggia di Scilla, località Monacena, sito che soddisfa al requisito della distanza minima di sicurezza di mt. 50, previsto per la tipologia dei fuochi previsti.

Il 16 Agosto, nel primo pomeriggio, a poche ore dalla partenza della processione per marina Grande e Chianalea, verificata la rispondenza dei requisiti della nuova area di sparo di Monacena, ed ottenuti i “via libera” dal Commissariato di Pubblica Sicurezza di Villa San Giovanni e dalla Capitaneria di Porto, il Commissario Prefettizio concede l'autorizzazione per l'accensione dei fuochi di mezzanotte.
A sparare a Monacena però non è la ditta Chiarenza di Belpasso (CT), ma la ditta Sud Fireworks di Soriano Calabro.
Infatti, nonostante la corsa contro il tempo per ottenere l'autorizzazione dalla Prefettura di Catania per il trasporto dei fuochi, non si è riusciti a farli giungere in Calabria in quanto, trattandosi di materiale particolare, sono sorti problemi con le navi traghetto. Problemi che, vista la scadenza prossima degli appuntamenti previsti, sono divenuti insormontabili per la ditta siciliana.
E' stato perciò necessario ricorrere a una ditta “in continente” che, suo malgrado e nonostante la disponibilità e la buona volontà, si è ritrovata a dover approntare uno spettacolo pirotecnico in pochissimo tempo, con gli esiti che, proprio per i motivi che abbiamo cercato di ricostruire, sono stati sotto gli occhi di tutti.

In definitiva: si è fatto tutto ciò che era possibile fare per garantire che la festa si svolgesse nel rispetto delle tradizioni, fuochi compresi. Se la qualità degli stessi non è stata all'altezza della tradizione riconosciuta ai “fuochi di Scilla”, ciò è dovuto in primo luogo alla ristrettezza dei tempi in cui si è dovuto operare (solo cinque giorni tra il rilascio del parere preventivo della C.T.P.M.E. e la festa) e solo in seconda battuta alle prescrizioni vincolanti da cui il Commissario ha legittimamente ritenuto di non poter derogare (e di questo non gliene può essere addebitata colpa, avendo a che fare con la tutela dell’incolumità pubblica), al contrario di quanto in passato hanno sempre fatto i vari Sindaci, solo ed in quanto scigghitani.

Fin qui la vicenda-fuochi, che tanto ha fatto discutere, soprattutto chi non era affatto informato di come si sono svolti i fatti, sui quali speriamo di aver fatto la dovuta chiarezza.

Per quest'anno è andata così. Per il futuro, è necessario pensare a soluzioni definitive dei problemi riscontrati. Cosa certamente fattibile nel pieno rispetto delle norme di sicurezza in vigore, ma a una condizione: che tutti gli scillesi -Parrocchia, Amministrazione, Associazioni, Commercianti, Imprenditori, ecc. fino ai semplici cittadini, nessuno escluso- si mettano una mano sulla coscienza, si assumano ognuno le proprie responsabilità e s'impegnino in prima persona (anche dal punto di vista economico), senza contare nell'assunzione di responsabilità di un singolo (Parroco, Sindaco o Commissario che sia), che funga –a secondo dei casi e di come la si pensi- da eroe o da facile capro espiatorio.
Se così non sarà, che ognuno di noi se la prenda solo con sé stesso e con nessun altro.

San Rocco_2014

A parte la qualità dello spettacolo pirotecnico di mezzanotte, l'unico piccolo disagio dovuto alla mancanza dei botti si è registrato all'uscita dalla chiesa delle processioni, non annunciata dal consueto sparo di mortaretti e, per di più, in netto anticipo rispetto agli orari previsti, con la conseguenza che in parecchi si sono visti costretti a “rincorrere” la processione che si snodava lungo le vie scigghitane.
Per il resto, le processioni si sono svolte come negli altri anni, con la stessa intensità e partecipazione emotiva di sempre.

Un’ultima annotazione, di minore importanza: nelle due sere della festa, il palco montato in piazza è rimasto vuoto, nessuno spettacolo. Sotto questo aspetto la festa –se festa doveva essere anche dal punto di vista civile- ha lasciato tutti scontenti. Evidentemente, presi dalle impellenti necessità relative alla sicurezza –risolte in extremis, questo aspetto più “ludico” è stato giocoforza trascurato. Pazienza, la festa s’è fatta lo stesso.

S’è fatta lo stesso, sì, e due sono le immagini che ci restano scolpite nella memoria:
- le donne, che con le loro 'ntrocce alzate verso il cielo hanno fatto da ali al passaggio della statua in piazza, la sera del sabato. A ogni grido/invocazione di “Evviva San Rocco!” è corrisposta una loro preghiera: “Dona la salute ai portatori!”;
- un bambino che sulle spalle del padre (uno dei portatori) percorre l'ultimo tratto di strada verso la chiesa di fianco alla statua, con il braccio proteso e la mano poggiata sulla vara, a spingere con la sua forza da bambino, come a voler contribuire anche lui a portare San Rocco.
Ecco, queste due immagini della serata di sabato ci dicono che, con o senza fuochi d'artificio, la festa di San Rocco si continuerà a fare, perché gli scillesi hanno dimostrato che la loro fede in San Rocco è più forte di ogni polemica. Per questo continueranno ad onorare nel tempo il loro Santo Patrono, nel modo migliore possibile.

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Due piccole precisazioni/integrazioni:

  • La Commissione Tecnica Provinciale ha espresso parere favorevole con prescrizioni solo per i fuochi alla villa comunale e non anche per quelli del trionfino, che sono stati invece autorizzati solo il 14 Agosto, previo parere favorevole del Commissariato di P.S. di Villa San Giovanni.

    In effetti, nell’autorizzazione rilasciata dal Comune, mentre viene specificato che il parere della Commissione Tecnica Provinciale si riferisce ai soli fuochi della Villa Comunale, relativamente al parere favorevole del V.Q.A. Leonardo è scritto che esso si riferisce “all’istanza sopra citata”, cioè (leggendo a ritroso) alla richiesta della ditta Chiarenza del 14 Agosto –relativa al trionfino e ai fuochi alla Villa Comunale.

Quindi, anche se nell’autorizzazione è scritto in maniera non direttamente chiara, se ne desume che:

    • i fuochi alla Villa Comunale hanno avuto due pareri favorevoli con prescrizioni (l’11 Agosto dalla C.T.P.M.E. e il 14 Agosto dal Commissariato di Villa San Giovanni);

    • per i fuochi del trionfino è stato dato parere favorevole solo dal Commissariato di Villa San Giovanni il 14 Agosto.

  • I colpi di annuncio della festa -la mattina del sabato e della domenica- e quelli all’uscita e all’entrata del Santo erano stati oggetto del contratto firmato con la ditta Chiarenza. Tuttavia, non erano consentiti -sia pur non direttamente menzionati negli atti-, richiedendo una distanza minima di mt 40, alla luce del parere della C.T.P.M.E. del 11 Agosto. Per tale motivo, non si sono potuti sparare.

Riguardo al parere della Commissione Tecnica Provinciale, ribadiamo che esso non è obbligatorio, in quanto la Commissione ha carattere consultivo. Tuttavia la Circolare demanda alla valutazione dell’Autorità di P.S. [in questo caso il Sindaco o il Commissario Prefettizio] l’opportunità di richiederlo in base all’entità dei fuochi e al prevedibile afflusso di pubblico.

considerazione finale. Poiché San Rocco è il Patrono di Scilla, la sua festa assume particolare significato non solo dal punto di vista religioso ma anche da quello civile. Ne consegue che tutti gli scillesi sono chiamati a onorarlo, sia chi è coinvolto anche dal punto di vista religioso (in quanto credente), sia chi, invece, è “solo” un cittadino scillese (o si dice essere tale), per quanto è nelle possibilità di ciascuno, nei modi e nei limiti previsti dalla legge.

Per il futuro, se c’è qualcuno che ritiene di avere soluzioni alternative, è il benvenuto: si faccia avanti e le proponga nelle sedi e nei modi opportuni.

Chi, invece, prima rimane nel silenzio e nel disinteresse e poi, a cose fatte, si arroga il diritto di criticare negativamente “a prescindere”, ignorando cioè volutamente fatti e circostanze contingenti, non merita altra risposta se non la sola verità dei fatti, così come ricostruita, documenti alla mano.

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07 agosto 2014

L’AMORE AL TEMPO DEL PASTIFICIO

Tempo d'estate -almeno stando al calendario, perché il tempo è tutt'altro che estivo- tempo di discussioni poco impegnative. Durante una di queste discussioni è venuta fuori una storia che, nella sua semplicità, è di una bellezza che merita -secondo me- di essere raccontata.
Si parlava di Piano Strutturale Comunale (ovvero lo strumento che dovrebbe sostituire il piano regolatore): il Comune di Scilla ha deciso di associarsi con i comuni limitrofi di Bagnara Calabra, Sant’Eufemia d’Aspromonte, Santo Stefano d’Aspromonte, Sant’Alessio d’Aspromonte e Sinopoli. L'iter per l'approvazione è partito nel 2009 e dopo cinque anni.....simu ancora petri petri.

Lasciando da parte gli aspetti tecnici -che poco interessano, specie in questo periodo- si ragionava sui legàmi storico-culturali-economici tra i comuni associati.
Se con Bagnara è notorio che vi è sempre stato un rapporto molto stretto, sia per la vicinanza che per le comuni attività economiche, con gli altri comuni della fascia pre-aspromontana i legàmi sono stati sempre molto più sporadici, salvo casi particolari.

E quella che mi accingo a raccontarvi è proprio la storia di uno di questi casi particolari.

Siamo negli anni 1918/1920, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Seppur provata dal conflitto, l'Italia ne esce vincitrice. Un giovane scillese, tornato dalla guerra, ricomincia a lavorare nel pastificio di famiglia. Ebbene sì, all'epoca a Scilla c'erano anche piccole attività economiche -chiamarle industriali è un po' esagerato. Era un'attività come quella svolta a Parma da Pietro Barilla, il cui primo marchio risale infatti al 1910.
Dunque, il giovane scillese -di cui non rivelo il nome, poiché non autorizzato, ma ciò ha poca importanza- si dà da fare nell'attività di famiglia.
Un giorno, dovendosi rifornire di farina, prepara il carro e parte alla volta di una località del comune di Sant'Eufemia d'Aspromonte, dove si trovava il mulino di fiducia. Arrivato a Sant'Eufemia, si reca dal padrone del mulino e si presenta:
<<Buongiorno, sono il figlio di.....,'u scigghitanu. Sono venuto io a prendere in consegna la farina...>>. Così, definiti tutti i dettagli economici (quantità, prezzo, ecc.) e il padrone del mulino diede ordine ai propri dipendenti di caricare il carro ru scigghitanu.
E mentre gli caricavano il carro, il giovane scillese diede un'occhiata in giro: la prima vardata non la riservò al panorama, 'chì a Sant'Eufemia -senza offesa- non è che ci sia così tanto da vedere, bensì 'a na beddha figghiola che travagghiava nel mulino e che, vada casu, era la figghia del padrone. Finito di caricare il carro, 'u scigghitanu pavò, salutò il padrone del mulino cu 'na stringiuta 'i manu, salì sul carro e partì, ma passu passu, in parte perché il carro era chinu e i bboi faticavano a trainarlo, ma soprattutto perché vuliva anche vardari un'ultima vota la beddha figghiola. La vitti, la vardò, la salutò cull'occhi. Ora sì che poteva tornare a Scilla.

La storia dei rifornimenti si ripeté con frequenza e regolarità e con la stessa frequenza e regolarità il giovane scigghitanu continuò, a ogni viaggio, l'esplorazione visiva della beddha calabrisella, la quale amprima non gli diede tanto sazio -com'è nella natura fimminina- poi, chianu chianu, cominciò a guardarlo pure lei, ma senza farsi notare. A pocu a pocu, le carte si scumbigghiaru: a ogni vardata di lui, corrispondeva una vardata di lei e viceversa. Lo scambio di vardatine avveniva naturalmente in quegli attimi in cui il padre della ragazza era distratto o impegnato dal lavoro. Insomma, varda tu 'chì ti vardu ieu, vardu ieu 'chì mi vardi tu, quello che era cominciato come un gioco di sguardi finì col diventare tuttu un discursu -'ché dalle parti nostre, si parla più con gli occhi che con la bocca, un discursu seriu: i due s'erunu 'nnamurati.

Rassaru passari un po' di tempo, giustu per fari maturari la cosa come si devi e poi il giovane scigghitanu, pigghiatu coraggiu, decise di rivolgersi al padrone del mulino non in quanto tale, ma in quanto padre di quella che era la so' zzita, sebbene ancora non ufficialmente.
Così, il giovane dichiarò ufficialmente le proprie intenzioni al padre della ragazza ma costui, guardatolo con severa area interrogativa gli spiò: <<Bene, ma tu chi hai da offriri a me' figghia?>>
Il giovane scigghitanu subito rispose entusiasta: <<Haiu un pezziceddhu di terra chi mi resi me' patri e 'u pastificiu!>>
Il padre della ragazza rimase per qualche istante in silenzio, poi disse perentorio: <<Non basta!>>
Sarebbi stata megghiu 'na cuteddhata, avrebbi fattu menu mali al cori dello scigghitanu, che non quelle due parole secche, perentorie.
Il giovane non ebbe altra scelta, almeno per il momento: vutau i ponti e se ne tornò ndo Scigghiu.

E qui, mentre il nostro percorre la strada del ritorno, consentitemi una riflessione: in quel <<Non basta!>> è racchiusa tutta la filosofia che a quei tempi dominava e che, ancora oggi, in alcune contrade nostrane è dura a morire. Potevi avere una, due...cento attività commerciali, ma se non avevi un bel po' di migliaia di metri quadrati di terra da coltivare  da cui trarre sicuro sostentamento, in provincia di Reggio, in Calabria, al Sud, non eri nessuno. Alla faccia dello spirito imprenditoriale!

Di converso, a Parma, in quegli stessi anni, una piccola attività come quella iniziata da Pietro Barilla, era invece la base per un'industria che nel dopoguerra avrebbe conquistato i mercati di tutto il mondo.

Mentre tornava a casa, il ciriveddho del giovin scillese firriava peiu delle pale di un mulino a ventu in una iurnata di scirocco. Il “soggiro -to be” (come dicono gli anglofoni) gli aveva lanciato una sfida, e 'u giuvinottu non aveva la benché minima intenzione di perderla: la posta in palio era troppo alta, quella ragazza era tutto per lui.
Così, pur se non mbiddhò occhiu e passò la notte a vutarsi e giriarsi ndo lettu comu 'na cutuletta 'mpanata, ci riflettì supra, e...la notti gli portò consiglio.

Ampestru iornu, decise di passari all'azione parlò della facenna con i cinque fratelli: spiegò loro che pi ddha beddha figghiola aviva intenzioni serî e disse loro della pesante condizione posta dal genitore di lei.
L'unica soluzioni possibili era quella di incrementare -chiamiamolo così- il "capitale terra" di sua proprietà. Perciò, era disposto ad acquistare tutte le proprietà che erano toccate in divisione agli altri fratelli, sempre che essi fossero stati d'accordo. Non  fu necessario aggiungere altro: i cincu frati si vardaru nda facci e si capisciru, con una semplice strizzatina d'occhio che accompagnò l'abbraccio di ognuno di loro al giovane fratello innamorato.
Trovato l'accordo, non persero tempo e scesero insieme dal notaio, che nel pomeriggio del giorno seguente rogò l'atto di vendita dei terreni a favore del giovine scigghitanu, che così divenne "possidente".

Il iaddho non aviva ancora finutu di cantari, che il giovine scigghitanu, ampestru matina, satò sul carro e partì a razzu, portando con sé "la carta" scritta dal notaio, l'atto ufficiale che certificava i suoi possedimenti.
Arrivò al mulino che il cori gli battiva forti, si guardò attorno ma della ragazza non c'era signu. In compenso, so' patri era ddhà, già al lavoro. Appena vitti al giovane scigghitanu, gli andò incontro con area severa:
- <<Bongiornu>> disse, pronto, il nostro.
- <<Bongiornu>> rispose, ‘sciuttu, il padrone del mulino.
Rotto il ghiaccio, il giovane pigghiò coraggiu -il coraggio che gli veniva dall'arma cartacea in suo possesso- e illustrando al suo interlocutore le ultime novità patrimoniali che lo riguardavano, porgendogli l'atto, disse risoluto: <<Eccu, se non ci criditi, liggiti vu' stessu!>>.
Il "soggiro-to be" liggì la carta scritta frisca dal nutaru. Ultimata la lettura, stette un po' con la testa china, pensieroso, mentre 'u scigghitanu, surandu friddu, girava e rigirava tra le mani il cappello, fino a farlo diventare nu scirupannu.

Dopo qualche manciata di secondi -che al giovin scillese sembrarono anni- il padrone del mulino guardò dritto in faccia o' scigghitanu e disse: <<Sta beni. A me' figghia v'a dugnu.>>
A quelle parole, come per un miracolo, dal nulla si materializzarono la moglie del padrone del mulino -nonché "soggira-to be", e lei, la promessa zzita. Il sole, che intanto era spuntato caldo e luminoso da dietro le montagne, suggellò e benedisse i due giovani.

Passò del tempo, per il regolare periodo dello zzitaggio ufficiale d'ordinanza, poi i due convolarono, finalmente, a giuste nozze.
Formata che fu la nuova famigghia, c'era ancora un'ultima cosa da sistemare.
Poco tempo dopo il matrimonio, infatti, 'u scigghitanu convocò di nuovo i fratelli. Stavota non ebbiru bisognu di dirsi nenti, si guardaru nda l'occhi -propriu come avevano fatto qualche mese prima- e decisero tutti insieme ch'era giunto il momento di mantener fede all'impegno che avevano assunto, a suo tempo, con gli abbracci e le strizzatine d'occhio: avevano un appuntamento.


Stabilito il giorno e l'ora, tornarono dallo stesso notaio, si sedettero attorno al tavolo e procedettero a formalizzare il loro patto fraterno: il neosposo cedette a ciascuno dei fratelli gli stessi terreni che essi gli avevano venduto per consentirgli di potersi fare zzito con la ragazza del suo cuore.

Lui che, suo malgrado, aveva dovuto diventar ricco per amore, non aveva più bisogno delle proprietà, delle ricchezze di tanta terra –più di quella, giusta, che gli era toccata in divisione. Ora poteva farne tranquillamente a meno. Aveva trovato la ricchezza che gli mancava, nell'amore per la sua sposa.

27 luglio 2014

ERODE E GLI ANGELI DEL CIELO DI GAZA

Collegamento permanente dell'immagine integrataAltra settimana di guerra a Gaza. Il bilancio dei morti, al momento in cui scrivo ha superato quota 1000: più dell'80% sono civili e, tra essi, buona parte sono bambini e donne. Ma i morti di Gaza non sono numeri, sono esseri umani con le loro storie personali. Questo, purtroppo, sembra non interessare a nessuno.

Gaza è una terra profondamente ferita, mutilata, così come lo era già nel 1956, quando lo scrittore palestinese Ghassan Kanafani scrisse la “Lettera da Gaza”, nella quale invitava un suo amico a tornare in quella città martoriata, allora come oggi, tra le macerie, per imparare da tutti questi lutti e questo dolore “che cosa è la vita e cosa il valore dell’esistenza.”

E’ stata una settimana di notti quasi insonni, a leggere e vedere immagini impressionanti provenienti dalla Palestina. In una di queste notti insonni per questa estate di fuoco su Gaza, esattamente lunedi 21 Luglio, mi è capitato di imbattermi su twitter in un tale di nome Joseph (Joe) M Ryan.

Sul suo profilo campeggiano: sullo sfondo, la foto dell'ex Presidente U.S.A. Ronald Reagan e della moglie, con tanto di bacio alla bandiera; a fianco, la foto di lui -un signore sui 65/70 anni- che abbraccia il figlio Jason, sergente dello Stato Maggiore dell'esercito statunitense, di cui si dichiara essere padre orgoglioso.
Nella sua contraddittoria biografia, il Sig. Ryan dichiara di essere:
a favore della vita, del secondo emendamento -quello che garantisce il diritto di possedere armi- nonché di essere membro della NRA (National Rifle Association, organizzazione no-profit il cui scopo dichiarato è difendere la costituzione degli Stati uniti, in particolare con le armi), membro del Tea Party di Sarah Palin (conservatori di estrema destra) e, infine, cristiano.

Cosa mi ha fatto entrare in contatto con una persona delle cui convinzioni e appartenenze non condivido nulla, a parte l'essere cristiano?

Semplicemente la sua convinzione, affermata pubblicamente, che “Dio sarà sempre dalla parte di Israele”, frase accompagnata da una sfilza di piccole bandierine a stelle e strisce, alternate a quelle con la stella di Davide.

Ne è scaturito il dialogo che segue:

- Io: “Dio non può stare con nessuno (israeliano o palestinese) che bombardi o uccida altra gente”

- Mr. Ryan risponde mostrando una lista di “torti” subiti da Israele ad opera di Hamas: il 15 Luglio abbiamo sospeso i bombardamenti su Gaza per 6 ore, nello stesso tempo Hamas ha sparato 50 missili contro Israele; 17 Luglio: abbiamo aderito alla richiesta delle Nazioni Unite per una finestra umanitaria a gaza. Hamas ha continuato a sparare da Gaza; 20 Luglio: abbiamo aderito alla richiesta della Croce Rossa di un cessate il fuoco a Shuja'iya. Hamas ha continuato a sparare da Shuja'iya.- Io: “Il popolo palestinese non sono tutti Hamas! Se continuate a bombardarli, il vostro UNICO risultato sarà più odio.”

- Mr. Ryan: “Hanno eletto Hamas come loro governo. Raccolgono ciò che seminano.”

- Io: “Perché non sostenete la politica dei partiti palestinesi “buoni”, invece di bombardare tutti quanti nella trappola a cielo aperto chiamata Gaza?”

- Mr. Ryan: “Israele sta solo difendendo i suoi cittadini, dov'è stato il clamore quando succedevano queste atrocità?...” Segue foto-elenco di atrocità commesse in Turchia,Egitto, Libia, Iran, Afghanistan, Sudan del Sud, Siria, Pakistan e Nigeria. La conclusione del manifesto-propaganda è agghiacciante: protestate solo per Gaza, allora non siete a favore dei diritti umani, siete solo contro Israele.

- Io: “Forse perché questo conflitto sta suscitando clamore nel mondo da 65 anni! Non è una questione di “sei con me o sei contro di me”....”
Mr. Ryan: “No è un problema di con o contro e se il mondo nel 1948 avesse preso posizione contro l'attacco a Israele non saremmo a questo punto oggi...E comunque Israele non ha mai cominciato queste guerre...” Segue foto di Golda Meir, con sopra riportata questa citazione:
Possiamo perdonare gli arabi perché hanno ucciso i nostri bambini. Non possiamo perdonarli perché ci costringono a uccidere i loro bambini. Avremo pace con gli arabi solo quando ameranno i loro bambini più di quanto ci odiano.”

- Io: “Ma qualcuno (più di uno) in Israele non sembra pensarla allo stesso modo. Come spiega questo eccesso di difesa?”

- Mr. Ryan: “Si chiamano Sinistra o Pacifisti, entrambi sono mortali per la libertà. Per quanto tempo tollereresti i missili sparati contro di te e la tua famiglia ?”

- Io: “Dall'altra parte, i palestinesi potrebbero chiedere: per quanto ancora tollereresti i bombardamenti e la distruzione degli ospedali? Perciò, fermate la guerra!”

Non ha replicato oltre. Non poteva, le sue limitate convinzioni guerrafondaie, manifestamente ostentate con fierezza e a forza di slogan preconfezionati, glielo hanno impedito. Per lui, solo un pacifista di sinistra, quindi mortale per la libertà di tutti coloro che la pensano al suo stesso modo.

Nei giorni e nelle notti seguenti, Israele ha proseguito i bombardamenti, prendendo di mira ospedali, le moschee, le scuole. L'ultimo rifugio per la popolazione sono le chiese cattoliche, tre, presenti nella Striscia. La propaganda dell’esercito israeliano, nelle cui fila ci sono stati più di trenta morti, recita il suo copione e avverte: “Usiamo le armi per proteggere i civili israeliani. Hamas usa i civili di Gaza per proteggere le sue armi”. Altro che "Bordo protettivo"! È sempre più operazione "Striscia pulita"

Mohammed Omer, giovane giornalista di Gaza, che scrive anche sui maggiori giornali americani come Washington Post e New York Times, twitta: “Ci stiamo abituando a questi bombardamenti aerei. Fanno paura, ma non c'è altra opzione, tranne che essere uccisi".

Collegamento permanente dell'immagine integrata

Mentre qui in terra proseguono i bombardamenti, nonostante si susseguano gli appelli alla tregua e  le iniziative per chiedere un embargo militare ad Israele, il 23 Luglio ai media giunge un'immagine dallo spazio, postata da Alexander Gerst, astronauta tedesco della Stazione Spaziale Internazionale.
Si vede una zona della Terra illuminata a giorno da quelli che sembrano fuochi artificiali dorati, come quelli che siamo abituati a vedere nelle nostre feste patronali. Ma non è niente di allegro: sono le luci delle esplosioni e degli incendi causati dai bombardamenti su Gaza. Da lassù, non si distinguono confini, muri, non ci sono distinzioni. E' solo la Terra, un unico grande pianeta, dove non ci sono distinzioni tra ebrei, arabi o chiunque altro. Così è la Terra vista dallo spazio, il punto di vista di Dio.

E invece cadono le bombe. In quelle esplose a Gaza sono stati trovati chiodi con la punta filettata, tagliente, per fare ancora più danni alle persone colpite. E' pura tecnica terroristica!
In questo atto di guerra, le vittime innocenti sono soprattutto i bambini palestinesi (secondo l'ultimo bollettino ufficiale 215 sono morti, centinaia sono feriti). I bambini non sono terroristi o danni collaterali, sono il futuro di un popolo, e lo stanno uccidendo!

Chissà cosa sarebbero potuti diventare quei bambini uccisi in maniera così atroce...Medici, ingegneri, scrittori, poeti, avvocati, scienziati....

E' a questo che ho pensato ieri, quando, per caso, mi sono ritrovato sul lungomare, a condividere l'ombra di una piccola palma con un ragazzo.

E' vestito bene, pantaloni lunghi e camicia con le maniche lunghe con i polsini abbottonati nonostante il caldo e un piccolo zainetto sulle spalle. E' un po' più alto di me, più robusto, ha la pelle scura, ambrata, delle terre d'oriente. Lo guardo, sembra stanco, assonnato, ha gli occhi stretti come due fessure, si stiracchia un po', come un gatto. Cominciamo a parlare e, parlando, gli occhi tornano ad assumere dimensioni normali: viene dal Pakistan, ma studia all'università di Cosenza, biologia e lingua italiana, che parla già più che bene; mi racconta che ha uno zio e un cugino che vivono in Calabria da qualche anno, a Gioia Tauro e gli hanno consigliato di venire a proseguire gli studi in Italia, qui da noi. Ha voglia di parlare, mi dice che un suo amico gli ha chiesto una mano in questi due mesi per vendere bigiotteria in giro per i lidi. Così, prende il treno da Gioia Tauro e viene fino a Scilla, Bagnara, Villa San Giovanni o Reggio. Ogni sera, a fine giornata, fa il percorso inverso. Si lamenta -da vero commerciante- delle poche presenze nei lidi nonostante la stagione oramai inoltrata e sorride. Ha lo sguardo intelligente, mi chiede quanti anni ho, e quanti ne do io a lui: dico ventidue/ventitre, invece ne ha venti. Sembra più grande, forse per via della barbetta leggermente lunga, o più probabilmente perché vive già da uomo.
Mi saluta con un sorriso e con una stretta di mano prolungata, forse umile segno di riconoscenza per quel po' d'attenzione ricevuta: buona giornata! Solo allora mi rendo conto di non avergli chiesto come si chiama, ma non fa niente, ci vedremo in giro.

Collegamento permanente dell'immagine integrataMentre mi allontano, in direzione opposta alla sua, un pensiero mi assale: chissà se qualcuno di quei bimbi morti a Gaza sarebbe venuto a studiare qui da noi? Chissà se, tra dieci o vent'anni, l'avrei potuto incontrare in un giorno di fine luglio, sulla spiaggia di Scilla, illuminata dal sole? Chissà...Resteranno domande senza risposta le mie. Perché a Gaza, tanti bambini come i bimbi che giocavano su una spiaggia illuminata dallo stesso sole che faceva brillare il mare di Scilla, non ci sono più. Si rincorrevano e si nascondevano, in una versione da Striscia di Gaza del nostro nascondino: giocavano a “israeliani e palestinesi”, i cowboys e gli indiani dei nostri tempi.

Ma né loro né gli altri bambini innocenti hanno avuto il tempo di accorgersi che il loro gioco si è trasformato, in un attimo, nella più tragica delle realtà. Parafrasando José Saramago, l’Erode israeliano non ha voluto aspettare che quegli innocenti bimbi palestinesi crescessero, per non restare con questo peso sulla coscienza e ha sovraccaricato di angeli il cielo di Gaza.

20 luglio 2014

IL PARADISO, L’INFERNO E L’ASSOPIGLIATUTTO

 

Non mi è facile parlare d'altro in questi giorni, giorni in cui a Gaza si vive per l'ennesima volta l'inferno.
Il Medio Oriente, Israele e la Palestina portano concentrati in pochi chilometri quadrati il meglio e il peggio dell'umanità, il Paradiso e l’inferno in terra.
Da una parte quella che si chiama “Terra Santa”, Gerusalemme, il cuore delle religioni, la città santa per tutti, cristiani, musulmani ed ebrei.
Dall'altra parte, 100 km o poco più, Gaza, la prigione a cielo aperto più grande del mondo, bombardata in lungo e in largo, assaltata, distrutta.
Case, strade, ospedali, nulla viene risparmiato nonostante la “selezione chirurgica” di cui si vanta esser capace l'esercito israeliano. E' inevitabile quando si va in guerra.
Abbiamo avvisato i civili perché andassero via. Hamas li ha costretti a restare, li ha messi sulla linea del fuoco”.
Questa la dichiarazione –via twitter- dell'esercito israeliano per giustificare la messa a ferro e fuoco di Shuja'iya, un paese dove -secondo gli israeliani- Hamas piazza i razzi lanciati contro Israele, i tunnel che consentono il passaggio di viveri ma anche di armi e i propri centri di comando. La stessa cosa si ripete per glia altri paesi della Striscia colpiti in questi giorni.
Come dire: noi, anime candide, li abbiamo avvertiti, sono loro i diavoli, responsabili dei loro stessi morti.
Molte sono le ragioni di un conflitto la cui fine sembra essere oggi sempre più lontana, ma dietro la propaganda fatta da ciascuna delle due parti, dietro le razze e le religioni si nascondono gli interessi economici, i miliardi (in valore) dei giacimenti di gas e petrolio che la Natura ha formato proprio davanti al mare della Striscia di Gaza. E Israele li vuole, li pretende e sono certo farà di tutto per prenderseli.

asso-di-bastoniQuello di Israele è sempre lo stesso gioco: l'assopigliatutto. Questa terra è mia perché me l'ha promessa Dio; questa terra è mia perché mi tocca, come risarcimento per l'Olocausto subìto; questo mare è mio perché sta davanti a quella terra, quindi sono libero di metterci tutte le navi e di bombardare a mio piacimento, tanto nessuno mi dirà nulla. E nessuno, in effetti, ha fatto nulla per fermarlo e farlo ragionare.
Sì, farlo ragionare. Fare capire a Israele che nel 2014 il mondo non è più disposto a ragionare con le bombe e con le cannonate. E' difficile l'impresa, considerato che nella regione si vanno diffondendo sempre di più califfati islamici che ci riportano al più buio medioevo. Al loro confronto, il modo di ragionare israeliano è sicuramente più evoluto, sì, ma solo dal punto di vista militare.
Non vuole capire Israele. Non vuole capire che è proprio lui il primo a cui conviene avere come vicino di casa uno Stato Palestinese, organizzato come una moderna democrazia. Uno Stato con cui avere rapporti economici e commerciali così come fanno tutti (o quasi) gli altri stati nel mondo; uno Stato con cui fare accordi militari per la difesa del territorio da ogni forma di estremismo islamico mirante ai califfati; uno Stato con il quale, in definitiva, essere amico.
Per questo Israele dovrebbe aiutare i palestinesi a liberarsi di Hamas politicamente, prima ancora che militarmente. Invece, preferisce bombardare e imporre il proprio volere secondo la logica dell'assopigliatutto. Una logica basata sul disprezzo dell’altro e che, spesso, sconfina nell’odio; una logica che –è dimostrato- in tutta la storia umana non ha mai pagato, se non con il sangue, i lutti, la distruzione.

13 luglio 2014

I SCECCHI NDO INZOLU E LA “QUIETE” ISRAELIANA

Tanto se ne è parlato, alla fine è accaduto, sta accadendo in queste ore: la prima incursione di terra (e sicuramente ce ne saranno altre) nel territorio della Striscia di Gaza che è stata compiuta dall’esercito israeliano nella notte di sabato.

Si dice che la storia è maestra di vita. Assistere a un'invasione di terra nel 2014, a cento anni dalla Prima Guerra Mondiale -una guerra di terra, per questo la più sanguinosa,con milioni di morti sul suolo- significa solo una cosa: gli israeliani sono scecchi in storia!

O meglio, fanno -come diciamo noi- i scecchi ndo inzolu (gli asini nel lenzuolo), cioè fingono di essere ingenui, di non sapere cosa stanno facendo (ma lo sanno benissimo), di non conoscere la storia, ma solo quando conviene loro.

L'offensiva di terra non ha però rallentato i bombardamenti aerei, preceduti da una pioggia di volantini di avvertimento scritti in arabo -per i palestinesi- e in inglese -per il resto del mondo.Una sorta di annuncio “urbi et orbi”, cui nessuno, né in Europa né negli Stati Uniti- ha pensato o ritenuto di dover rispondere, conferendogli quasi la stessa autorevolezza di un messaggio papale!

E a proposito, l'unico a fare un appello è stato Papa Francesco: «Esorto le parti interessate e tutti quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale a non risparmiare la preghiera e a non risparmiare alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità e conseguire la pace desiderata per il bene di tutti

Si dirà: fare appelli per la pace, pregare per la pace, è il suo “mestiere”. E' vero, ma dovrebbe essere anche il “mestiere” di chi governa -a livello locale e internazionale- perché vivere in pace significa poter progredire, migliorare. Ma invece non è così.

Dice ancora il Papa: «Quello che conta non è ciò che entra, ma quello che esce dalla bocca e dal cuore

Ebbene, se ciò che esce dalla bocca è espressione diretta di ciò che c'è nel cuore, le cose si mettono male: «Continueremo ad operare con forza in modo da riportare la quiete.» Questo ha dichiarato il premier israeliano Netanyahu.

Non intendo certo fare il processo alle intenzioni di Israele, ma fate attenzione: ha detto “quiete”, non “pace”. Letta bene, quella di Netanyahu è una dichiarazione molto inquietante, che non lascia certo presagire nulla di buono.

 

Palestina cemeteryApparentemente, infatti, “quiete”, e “pace” sono due termini simili, ma in realtà molto diversi tra loro. La pace è una condizione umana, uno stato d'animo, qualcosa insomma che è legato alla vita.

La quiete no, è una condizione ambientale, uno stato fisico: un corpo in quiete è qualcosa di fermo, statico, che non si muove, un corpo morto, la quiete è propria dei cimiteri.

 

Palestina cemetery 2

Dal lato palestinese ci di difende come si può. Si sparano missili un po' all'orbigna, senza alcun risultato se non quello di provocare ulteriori danni e terrore.

E' una lotta priva di una guida coordinata -è questa la maggior debolezza dei palestinesi. La loro non è una guerra combattuta da un esercito. La presenza di un esercito presuppone la presenza di uno Stato, ma -e qui sta un punto fondamentale!- i palestinesi uno Stato non ce l'hanno ancora. Pertanto, la loro è una lotta di liberazione, condotta più da guerriglieri che da soldati.

Una guerriglia cui però l'Autorità Nazionale Palestinese non è stata finora in grado di tramutare in qualcosa di più organizzato, in maniera tale da emarginarne le parti più estremiste, più inclini al terrorismo che alla guerriglia vera e propria. E' qualcosa che i palestinesi devono fare subito. Ma per poterlo fare nella maniera più efficace, devono essere supportati a livello internazionale, in primis dall'ONU, la stessa Organizzazione che, dopo aver riconosciuto lo Stato di Israele è come se avesse esaurito il suo compito!

In secondo luogo, devono intervenire gli Stati Uniti, il Paese che ha sempre appoggiato -e in qualche caso coperto- le iniziative delle autorità israeliane, poiché condizionato pesantemente dai mostruosi interessi economici che da sempre guidano i rapporti tra americani e israeliani. Quegli stessi Stati Uniti che, pur se scesi in campo più volte a far da pacieri, finiscono col ricordarsi dei palestinesi solo quando (come nei giorni scorsi) ne viene colpito uno che ha anche la cittadinanza americana.

E poi l'Europa, la nostra Europa.

Sarebbe importante che proprio in questi mesi di presidenza italiana si levasse un segnale forte, alto e soprattutto concreto, contro questo stato di cose che rischia di incancrenirsi in maniera definitiva, letale.

L'Italia, che in passato ha dimostrato in tante occasioni di poter svolgere una vera funzione di mediazione tra israeliani e palestinesi, deve farsi promotore in seno agli organismi europei di un atto di rottura del silenzio complice e colpevole, di un'iniziativa in un certo senso rivoluzionaria.

Sarà in grado di farlo? E' oggettivamente ragionevole nutrire qualche dubbio, ma da parte nostra -per quanto minima possa essere- non deve mancare mai un'azione di stimolo a che tale iniziativa -da più parti evocata e richiesta (attraverso appelli, petizioni, ecc.)- si concretizzi nel più breve tempo possibile.

Sul campo, intanto, continueranno: la guerra antistorica degli israeliani da un lato, la debole guerriglia palestinese dall'altra.

Continueranno fintanto che non ci si renderà conto, che per fare davvero la pace, è Israele quello chiamato al primo gesto: alla fine della lotta, prima di fare la pace, è sempre il più forte a dover fare un passo incontro al più debole e offrirgli la mano perché possa rialzarsi.