19 ottobre 2013

TI VARDU

*TRASPOSIZIONE IN DIALETTO SCILLESE DI “TESTARDO”, DI DANIELE SILVESTRI

E se ti vardu,
non sacciu s'è 'na cura
e poi se dura oppuru forsi s'è 'n azzardu,
'a to' presenza,
ndo cori, in cunfidenza, è com' a 'n dardu.

E se ti vardu,
'n pinser mi veni in menti
ma se si' davanti non su' Re Riccardu
e non fà nenti,
sì, su' cuntentu, ma esti già tardu.

Ndo cor ti tegnu,
nci fu viatu accordu,
pirchì si' nu suli accussì bellu
chi certu non ti scordu,
assorta tu pari 'n disegnu.

Ma ieu mi trorciu,
quandu ti viru, 'u sacciu,
comu 'n 'mbriacu su', chi va' p’a strata
e a stentu 'a manu teni,
caminu comu veni veni,
stortu.

Pirchì è sicuru,
puru se sugnu accortu, dintra ra me' menti
c'è 'u scuru,
e la me' vita è attesa e spilu,
tu dici no?, cririnci.

Però, 'stu cori non ha paci,
sa' comu 'nfoca 'a braci,
'chì 'i 'n angilu ha' l'anima
e 'a beddha facci tua.

Ieu sugnu empiricu,
non so parrari iperbolicu,
spessu su' melancolicu,
nenti 'i misticu,
e qual è 'u me' statu fisicu,
ieu non t'u dicu, tu, deducilu.

E su' di straci,
mi 'nfocu su' capaci
e non fà nenti se non sugnu bellu,
tu ridi, già, surniuni
e se ti vardu
amica, nd'ha' ragiuni.

Ieu sugnu carmu
ma tu m'hai castrariatu,
pirchì se ti vardu fazzu accuntu
chi si' 'i marmu assai pregiatu,
pirchì tu no, non ha' suratu
- (ma com' è fari cu chista...)
- m'haiu 'nguaiatu!

Però, 'stu cori non ha paci,
sa' comu 'nfoca 'a braci,
'chì 'i 'n angilu ha' l'anima.
e 'a beddha facci tua.

 

TRADUZIONE ITALICA

E se ti guardo,
non so se è una cura
e poi se dura oppure forse s'è un azzardo,
la tua presenza,
nel cuore, in confidenza, è come un dardo.

E se ti guardo,
un pensier mi viene in mente
ma se mi sei davanti non son Re Riccardo*
e non fa niente,
sì, son contento, però è già tardi.

Nel cuore ti tengo,
c’è stato presto accordo,
perché sei un sole così bello
che certo non ti scordo,
assorta tu sembri un disegno.

Ma io mi contorco,
quando ti vedo, lo so,
sono come un ubriaco, che va per strada
e tiene a stento la mano,
cammino come viene viene,
storto.

Perché è sicuro,
anche se sto accorto, dentro la mia mente
c'è il buio,
e la mia vita è attesa e voglia improvvisa,
tu dici no?, credici.

Però, questo cuore non ha pace,
sai come prende fuoco la brace,
perché di un angelo hai l'anima
e il tuo bel viso.

Io sono empirico,
non so parlare per iperboli,
spesso son melancolico,
niente di mistico,
e qual è il mio stato fisico,
non te lo dico, tu, deducilo.

E sono di terracotta,
sono capace di prendere fuoco
e non fa niente se non sono bello,
tu ridi, già, sornione
e se ti guardo
amica, c’hai ragione.

Io sono calmo
ma tu m'hai fatto perder tempo,
perché se ti guardo faccio finta
che sei di marmo assai pregiato,
perché tu no, non hai sudato
- (ma come devo fare con questa...)
- mi sono inguaiato!

Però, questo cuore non ha pace,
sai come prende fuoco la brace,
perché di un angelo hai l'anima
e il tuo bel viso.

*N.B.: Riccardo I d’Inghilterra, detto Cuor di leone

16 ottobre 2013

LA SCUOLA PRIMA DI INTERNET: 5° PUNTATA

Viaggio semiserio tra i ricordi di scuola, nell'epoca pre-internettiana e pre-mms, quandu non c'era la possibilità di documentare con filmati o immagini le valentizze scolastiche compiute dagli alunni o le stranezze dei professori. Eppuru, il materiale (se nd'aviti, mandatilu) di certo non mancava.....

Anno scolastico 1988/89, III classe del Corso sperimentale -sezione A dell'Istituto Tecnico per Geometri “A. Righi” di Reggio Calabria.
Invito ai genitori prof Curia -originaleInvito ai genitori da pare dell'insegnante di costruzioni Curia Antonio
Sono l'insegnante di costruzioni (e se Dio lo vorrà lo sarò fino al quinto anno) dei vostri figlioli, detto gli appunti sugli argomenti che svolgo, non è necessario un libro di testo, ma qualunque libro di costruzioni anche obsoleto va bene, un manuale tecnico del geometra meglio ancora. Serve un quaderno a quadretti usato per la stenografia che deve essere portato a scuola tutte le volte che in orario c'è la mia disciplina e va aggiornato rapidamente in caso di assenza dell'allievo, questo quaderno viene controllato e valutato in occasione delle interrogazioni e verifiche ed in qualsiasi momento della lezione. Occorrono ancora due penne di colore diverso per scrivere ed eseguire schizzi sul quaderno degli appunti.
Un secondo quaderno simile al primo serve per gli esercizi. Io farò tutti i tentativi per aiutare i vostri figli nella evoluzione della loro personalità e nel miglioramento della loro cultura, per fare questo ho assoluto bisogno del vostro aiuto costantemente incontrandovi a scuola o a casa e sentendovi per telefono se siete impossibilitati. Deteriorerà il nostro rapporto pulito la cosidetta <<raccomandazione>> che mi offende perchè degrada e svilisce il mio lavoro onesto e mi costringe a mortificare chi la porge.
Giudico meravigliosi quei genitori che si occupano del miglioramento dei loro figli e collaborano con gli insegnanti per raggiungere questo fine; biasimo quelli che usano il loro <<prestigio>> per loschi contrabbandi per conquistare, loro genitori, la <<promozione>> del loro figliolo che resterà sempre un infante perchè gli è vietato di essere se stesso e finalmente adulto senza pannolino e biberon.
Il corso scelto dai vostri ragazzi richiede maggiore impegno, costanza e pazienza in quanto il tempo a scuola è maggiore ed il numero di discipline pure, di conseguenza l'impegno a casa dovrà essere maggiore per ottenere risultati validi.
Reggio Calabria lì 20/9/1988
                                        i genitori:
=====================================================
NON TI P’OI MANGIARI NU BOI NDA ‘NA SETTIMANA!
itg righiL'anno precedente, Settembre 1987. Prima ora di 'Elementi di scienza delle costruzioni', detta familiarmente (ma impropriamente) 'Costruzioni!.
Il professore -statura media, occhiali con montatura marrone chiaro e lenti piuttosto spesse, giacca grigia a quadri larghi, senza cravatta- entra, saluta la classe con un “Buongiorno” di severa formalità, appoggia la sua agenda sulla cattedra e si avvia a passo sostenuto verso la lavagna. Prende il cancellino e con mano ferma e sicura la pulisce completamente.
Poi, con calma, inizia a far scorrere il gessetto sulla pietra verde appesa al muro, e dopo pochi secondi in una bella calligrafia appare scritto: ing. Antonio Curia.
Il Professor Curia fa quindi qualche passo verso il centro dell'aula, con gesti calmi prende un pacchetto di sigarette, ne sfila una, la porta alla bocca, la accende e fa un lungo tiro. Espira una grande nuvola di fumo, dietro la quale la sua faccia scompare per qualche secondo. Poi, preso il registro di classe, tenendo la sigaretta tra l'indice e il medio della mano destra -la cui parte interna è ingiallita per via del fumo smodato-  dice:“<<Allora ragazzi, quando vi chiamo alzatevi in piedi e presentatevi: chi siete e da quale scuola venite...>> e giù a snocciolare l'appello.
Così ho conosciuto l'Ingegner -con la 'I'- Antonio Curia. L’anno successivo (evidentemente a causa di “’interferenze’ esterne) ci dettò l'”Invito ai genitori”che avete letto sopra, e che ho voluto recuperare e proporre su questo blog, dopo aver ritrovato il quaderno degli appunti sul quale ho poi annotato tutte le sue lezioni.
Devo dire che, contrariamente alle sue previsioni, e alle nostre speranze, purtroppo non è stato nostro professore fino al quinto anno, a causa di alcuni...dissidi interni tra colleghi.
Tuttavia, il suo modo di spiegare le lezioni (con tanto di disegni con gessetti di diverso colore a sottolineare gli aspetti più importanti della materia), con l'immediata applicazione pratica negli esercizi d'esempio; i suoi esempi pratici; il suo modo di interrogare, con le domande in ordine di difficoltà, dal cinque (per quelli che nella materia zoppicavano) fino al dieci (ma poi, nda pagella al massimo ti mintiva ottu!).
Era il suo modo diretto, semplice, forse un po' brutale, di farci comprendere che anche se a tutti viene data la stessa possibilità, non tutti abbiamo le stesse capacità.
Tutto di questo straordinario Professore, è ancora stampato a chiare lettere nella mia mente. Così come alcune delle sue frasi più celebri:
1) “La costruzione più perfetta è il corpo umanoNon a caso, ogni suo esempio prendeva spunto dal corpo umano. Quando inizio a parlarci del cemento armato, per farci comprendere la funzione dell'acciaio e la differenza tra la zona di una trave soggetta a compressione e quella soggetta a trazione, chiamò un mio compagno, lo fece mettere sull'attenti e poi gli disse di piegare il busto leggermente in avanti. Capimmo così qual era la differenza tra zona in trazione e zona in compressione in una trave inflessa. Comprendemmo, con due anni d'anticipo sul programma, che il ferro nel cemento armato svolge la stessa azione che la colonna vertebrale svolge nel corpo umano: è lei la nostra armatura.
O ancora, ci spiegò il motivo per cui nel fare il calcolo delle fondazioni, si presume che esse abbiano un peso pari a un decimo del peso che sono chiamate a sopportare. Il motivo? Semplice: <<Perché i nostri piedi pesano un decimo del nostro peso corporeo!>> Pesare per credere.
 2) “Non siete ragionieri!
Dopo aver spiegato la lezione, il Professore ci faceva svolgere immediatamente un esercizio applicativo sotto la sua supervisione. Una volta, per calcolare le dimensioni di un pilastro, il risultato che veniva fuori dalla formula era un lato di 27,5 cm. Si fermò, ci guardo attraverso il fumo della sigaretta e disse:
<< Se siete in cantiere, nessun mastro realizzerà mai un con un lato pilastro di 27,5 cm. Se glielo chiedete, vi prenderebbe per pazzi. Ricordatevi una cosa: non siete ragionieri!....In favore della stabilità, adotteremo una sezione con un lato di 30 cm., così il mastro non ci prenderà per pazzi.>>
 3) Per favore, non fatevi chiamare ‘ngigneri’
In un'altra occasione, narrandoci del periodo passato all'università di Padova, ci disse: << Ragazzi, lo so che appena uscirete da questa scuola e andrete a lavorare, vi chiameranno tutti 'ngigneri'.
Per favore, a chi vi chiama così, dite: sono geometra, non ingegnere. Non fate i furbi, non fatevi chiamare ‘ingigneri’, perché non lo siete e perché... so io cosa significa diventare ingegnere. E se qualcuno di voi lo diventerà, potrà capirmi.>>
Beh, non sono diventato ingegnere, ma ho sperimentato di persona cosa significa diventarlo, e quelle parole, profondamente vere, non le ho dimenticate.
 4) “Non ti p'oi mangiari nu boi nda 'na settimana!”Come tutti gli uomini intelligenti e seri, il Professore Curia non mancava di dispensare perle di sano umorismo.
Durante le interrogazioni, mentre gli interrogati sudavano freddo alla lavagna cimentandosi con le domande da 5, da 6, da 7...., il Professore era solito intrattenere la classe con i racconti della sua vita. Venimmo così a sapere che dopo la laurea in ingegneria all'università di Padova, aveva lavorato con una ditta in Africa. Poi in Russia, dove scorrazzava per le strade, sfidando discese e -soprattutto- le salite portandosi dietro una fidanzata 'i bon pisu'.
Infine il ritorno a Reggio, l'insegnamento al “Geometri” la mattina, e poi, nel pomeriggio, il suo dedicarsi alla campagna, al suo orto e alle sue galline.
Un giorno, verso la fine dell'anno scolastico, dopo aver constatato lo sforzo con cui un mio compagno cercava di mettere insieme una risposta decente che gli consentisse di recuperare e non finire rimandato a Settembre, lo guardò dritto negli occhi e con la faccia più seria del mondo, con tono garbato, gli disse: <<Vedi, caro....Non ti p'oi mangiari nu boi nda 'na settimana!>> Partì una risata generale.
Traduzione: non puoi recuperare in una settimana tutto quello che non hai studiato in un anno.

Tanti altri sono i ricordi delle sue lezioni che potrei citare: quella sul baricentro, con il racconto del giorno che il Sig. Piaggio inventò la Vespa, dopo aver ritrovato un pezzo di carrozzeria di un vecchio aereo abbattuto durante la seconda guerra mondiale, e il motivo per cui era riuscito a farla stare in piedi senza cavalletto (perfetta distribuzione dei pesi); quella sullo sforzo di taglio, con l'esempio degli sci messi sotto la pedana della cattedra.
In particolare, ricordo però la sua ultima lezione alla nostra classe.
Eravamo già al quinto anno, oramai prossimi agli esami di stato, e l'Ing. Curia non era più il nostro professore. Un giorno però, in un'ora di supplenza, lo vedemmo comparire davanti alla porta. Entrò e con un sorriso paterno ci salutò, informandosi sulla parte del programma di costruzioni che stavamo svolgendo. Ci chiese se avevamo bisogno di qualche spiegazione. L'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Alla nostra risposta affermativa disse: “Cosa volete che vi spieghi?
In quel periodo studiavamo il calcolo dei muri di sostegno. In poco meno di tre quarti d'ora, ci illustrò tutta la teoria sui muri di sostegno e i diversi metodi di calcolo, verifiche comprese.
Questo il modo in cui ci fece capire cos'è l'angolo di attrito del terreno: mise il cancellino sulla cattedra, si alzò, andò su un lato della cattedra, ne afferrò i piedi e cominciò ad alzarla piano piano. Quando il cancellino cominciò a scivolare si fermò con la cattedra sospesa per aria, ci guardò e facendo un cenno del capo ad indicare lo spazio compreso tra la pedana e la parte della cattedra che era alzata da terra, annunciò: quello è l'angolo d'attrito del cancellino.
Infine, essendo uomo pratico e dovendo insegnare a dei futuri geometri che avrebbero operato in cantiere, ci suggerì qual era l'attrezzatura necessaria per poter calcolare un muro di sostegno: un secchio, o anche un bicchiere, due assi di legno e un chiodo. Il secchio serviva per metterci una piccola parte del terreno che il muro avrebbe dovuto sostenere. Poteva essere pesato (e quindi, conoscendo il volume del secchio, si ricavava il peso proprio del terreno); le due assi di legno, collegate tra loro da un chiodo a mo' di cerniera, servivano da goniometro. Una volta rovesciato il secchiello, il terreno si sarebbe disposto a cono. Le due assi sarebbero servite per misurare l'angolo d'inclinazione dei lati del cono e quindi il suo angolo d'attrito. Avevamo tutti i dati che ci servivano per poter calcolare il nostro muro.
Finita la sua ora di lezione –-altro che supplenza!- si accese una sigaretta, prese la sua agenda, e ci salutò così: << Tanti auguri, ragazzi>>. Uscì dall’aula e si incamminò lungo il corridoio, con la testa avvolta in una nuvola di fumo.
Fu l'ultima volta che ho avuto la fortuna di incontrarlo. Son passati ventidue anni da allora, e adesso il Professore non insegna più. Mi piace immaginarlo a godersi la vecchiaia, dedicandosi al suo orto e alle sue galline.
Mi farebbe piacere rivederlo. Penso che sarà contento di sapere che un suo allievo, non solo ha conservato i suoi appunti, ma soprattutto, ha tenuto e tiene ancora ben presenti, nel lavoro e nella vita di tutti i giorni, i suoi insegnamenti straordinariamente illuminanti.

05 ottobre 2013

ARROCCATI IN UNA FORTEZZA DI NOME EUROPA

 

croce nel mare 2(1)Ci sono giorni in cui le parole sono inutile ed è meglio tacere. Oggi è stato uno di questi giorni.

Tante volte, troppe, erano accaduti naufragi di povera gente disperata. Ma non facevano notizia se non per poche ore, giusto il tempo di fare da titolo ai telegiornali. Poi quei morti sono caduti nell’oblio, nascosti, per sempre, sotto le onde del mare.

Ieri no. La tragedia di ieri non possiamo, non dobbiamo dimenticarla.

L’Europa, questa fortezza inespugnabile, protetta da muri invalicabili i cui mattoni sono le leggi assurde ed incomprensibili che si è data, non può più rimanere indifferente.

Abbiamo creato un bel giardino noi europei, dove prima abbiamo fatto circolare le merci e il denaro e poi ci siamo spostati noi, in lungo e in largo attraverso 27 Paesi, senza alcuna difficoltà. Ci siamo dati il diritto, noi europei, di andare a cercare condizioni di vita migliori in un Paese diverso dal nostro, possiamo cercarci la parte di giardino che per noi è più bella.

Ci siamo riempiti la bocca  di libertà (commercio, scambi, circolazione di uomini e mezzi), ma non ci siamo accorti di averla negata agli altri.

Il risultato: loro, morti in un mare di onde impietose. Noi, vivi, in un mare di vergogna.

Vergogna, perché neghiamo la libertà a chi –per destino, per volontà divina o non so che altro- è nato al di là del nostro bel giardino. Li identifichiamo come “extra”, cioè quelli che stanno “al di fuori” delle mura della nostra fortezza. Vergogna perché l’Europa è divenuto un pianeta a sé.

Vergogna, perché li chiamiamo “migranti”, con un termine che sa tanto di forzata compassione e che sta assumendo un significato dispregiativo. Ma noi che ci spostiamo liberamente, non siamo migranti anche noi?

Vergogna, perché abbiamo fatto leggi e regolamenti per ogni tipo di merce, di prodotto. Abbiamo fatto leggi che proteggono la flora e la fauna, l’acqua, il mare. Ma ci siamo dimenticati dell’uomo che quel mare lo ha sempre utilizzato: per trarne sostentamento ma anche, e soprattutto, come via di comunicazione tra i popoli, primo mezzo di scambio culturale –prim’ancora che commerciale.

Vergogna, perché l’Europa che si vanta delle sue radici cristiane, non può comportarsi in maniera tale da fare agli altri ciò che essa ha cercato, in tutti questi anni, di non fare ai Paesi che ne fanno parte, cioè a sé stessa. Chi ci ha dato questo diritto?!

Vergogna, perché ci siamo chiusi nel nostro bel giardino –negli ultimi tempi, a dir la verità piuttosto malandato- in cui nessuno può entrare a disturbarci, a meno che non siamo noi a decidere di aprirgli la porta. Ogni tanto, attratti dalle urla, dal rumore o dalle fiamme, diamo un’occhiata distratta a ciò che accade al di fuori della nostra fortezza, nella quale ci siamo arroccati.

Poco importa se là fuori, quel mare si sta trasformando in un cimitero liquido; se le antiche rotte che dall’Africa o dal Medio Oriente portavano fino alle nostre coste, sono segnate dalle croci dei tanti caduti di una vera e propria guerra: la guerra per la vita.

Quei caduti sono uomini, donne, bambini, che avevano solo un sogno: vivere, non sopravvivere. E’ per inseguire il sogno di avere una vita che sono morti. Chi ci ha dato il diritto di negare agli altri i loro sogni?!

Erano i sogni di una vita, di una vita insieme, fatta di affetto e di amore. Come quello cantato da Tesfay Mehari (detto Fihira), un famoso cantante eritreo, che ha dedicato una canzone dal titolo “Bahri” alla donna che ha perso nel mare italiano.

L’ho ripresa da “Fortesse Europe” (il nome non è un caso), il sito che da anni segue puntualmente il triste fenomeno e aggiorna le tremende statistiche di questa vera e propria strage umana.

Ecco il testo, che ho tradotto dall’inglese che vedete nel video:

BAHRI –di Tesfay Mehari (detto Fihira)

Vicino alla spiaggia bagnata, in mezzo all’oscurità silenziosa
sono qui con il rollio delle onde del mare
Oh mare agitato! Vuoi chiedere alle tue creature?
Dentro di te sono sparse le ossa del mio amore
lei stava sbocciando, tenera e dolce;
Luccicava con il suo amore, la luna sopra di lei
dentro di te è il mio amore, la sua anima, il suo cuore.
Oh mare! Riportala alla spiaggia, lascia che le parli
ricordando la sua gioventù, fammi un incantesimo;
Mentre il sole tramontava lei mi ha detto addio, annegando.
Vedendo la barca gli abitanti del mare hanno danzato di gioia
celebrando il loro solenne accordo dell'amore forte, con la morte.
Una grande festa, accompagnata da rumori attutiti
e il sigillo conclusivo della morte è stato l'addio finale.

Guarda ovunque, trovala per me
Oh mare! Restituiscimi l'amore della mia anima.

Con i suoi compagni pellegrini, compagni di destino,
oh creature marine, testimoni della favola,
cos'ha detto nel suo ultimo addio?
Non sei il mare? Allora rispondimi.

Guarda ovunque, trovala per me
oh mare! Restituiscimi l'amore della mia anima.

Non te l'ho detto molte volte e ti ho pregata?
Ma invece ti sei arresa ai sussurri della tua gioventù.
Perché non mi hai ascoltato, non ero più grande di te?
Ma non ha reso triste solo me,
tua madre è pazza di dolore
quella che amavi e di cui ti prendevi cura, la tua unica e sola.
Ancora peggiori sono le condizioni della tua sorellina,
amore mio sai dov'è?
Lascia che ti dica, il tuo nome è costantemente sulle sue labbra, la sua canzone,
sta perdendo la testa, si sta allontanando da noi, quasi come te.

Con i suoi compagni pellegrini, compagni di destino
Oh creature marine, testimoni della favola,
cos'ha detto nel suo ultimo addio?
Non sei il mare? Allora rispondimi.

Non te l'ho detto, no?
Ti ho implorata, o no?
La pazienza è stata messa alla prova, la confusione tenuta lontano?
E' suonata la campana quando è giunta l'ora?
Potevo vederla lottare tra la vita e la morte.
Troppo tardi, è stato dopo che è arrivato il giudizio?

Guarda ovunque, trovala per me
oh mare! Restituiscimi l'amore della mia anima.

*N.B: foto tratta da http://www.michelenardelli.it