07 agosto 2014

L’AMORE AL TEMPO DEL PASTIFICIO

Tempo d'estate -almeno stando al calendario, perché il tempo è tutt'altro che estivo- tempo di discussioni poco impegnative. Durante una di queste discussioni è venuta fuori una storia che, nella sua semplicità, è di una bellezza che merita -secondo me- di essere raccontata.
Si parlava di Piano Strutturale Comunale (ovvero lo strumento che dovrebbe sostituire il piano regolatore): il Comune di Scilla ha deciso di associarsi con i comuni limitrofi di Bagnara Calabra, Sant’Eufemia d’Aspromonte, Santo Stefano d’Aspromonte, Sant’Alessio d’Aspromonte e Sinopoli. L'iter per l'approvazione è partito nel 2009 e dopo cinque anni.....simu ancora petri petri.

Lasciando da parte gli aspetti tecnici -che poco interessano, specie in questo periodo- si ragionava sui legàmi storico-culturali-economici tra i comuni associati.
Se con Bagnara è notorio che vi è sempre stato un rapporto molto stretto, sia per la vicinanza che per le comuni attività economiche, con gli altri comuni della fascia pre-aspromontana i legàmi sono stati sempre molto più sporadici, salvo casi particolari.

E quella che mi accingo a raccontarvi è proprio la storia di uno di questi casi particolari.

Siamo negli anni 1918/1920, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Seppur provata dal conflitto, l'Italia ne esce vincitrice. Un giovane scillese, tornato dalla guerra, ricomincia a lavorare nel pastificio di famiglia. Ebbene sì, all'epoca a Scilla c'erano anche piccole attività economiche -chiamarle industriali è un po' esagerato. Era un'attività come quella svolta a Parma da Pietro Barilla, il cui primo marchio risale infatti al 1910.
Dunque, il giovane scillese -di cui non rivelo il nome, poiché non autorizzato, ma ciò ha poca importanza- si dà da fare nell'attività di famiglia.
Un giorno, dovendosi rifornire di farina, prepara il carro e parte alla volta di una località del comune di Sant'Eufemia d'Aspromonte, dove si trovava il mulino di fiducia. Arrivato a Sant'Eufemia, si reca dal padrone del mulino e si presenta:
<<Buongiorno, sono il figlio di.....,'u scigghitanu. Sono venuto io a prendere in consegna la farina...>>. Così, definiti tutti i dettagli economici (quantità, prezzo, ecc.) e il padrone del mulino diede ordine ai propri dipendenti di caricare il carro ru scigghitanu.
E mentre gli caricavano il carro, il giovane scillese diede un'occhiata in giro: la prima vardata non la riservò al panorama, 'chì a Sant'Eufemia -senza offesa- non è che ci sia così tanto da vedere, bensì 'a na beddha figghiola che travagghiava nel mulino e che, vada casu, era la figghia del padrone. Finito di caricare il carro, 'u scigghitanu pavò, salutò il padrone del mulino cu 'na stringiuta 'i manu, salì sul carro e partì, ma passu passu, in parte perché il carro era chinu e i bboi faticavano a trainarlo, ma soprattutto perché vuliva anche vardari un'ultima vota la beddha figghiola. La vitti, la vardò, la salutò cull'occhi. Ora sì che poteva tornare a Scilla.

La storia dei rifornimenti si ripeté con frequenza e regolarità e con la stessa frequenza e regolarità il giovane scigghitanu continuò, a ogni viaggio, l'esplorazione visiva della beddha calabrisella, la quale amprima non gli diede tanto sazio -com'è nella natura fimminina- poi, chianu chianu, cominciò a guardarlo pure lei, ma senza farsi notare. A pocu a pocu, le carte si scumbigghiaru: a ogni vardata di lui, corrispondeva una vardata di lei e viceversa. Lo scambio di vardatine avveniva naturalmente in quegli attimi in cui il padre della ragazza era distratto o impegnato dal lavoro. Insomma, varda tu 'chì ti vardu ieu, vardu ieu 'chì mi vardi tu, quello che era cominciato come un gioco di sguardi finì col diventare tuttu un discursu -'ché dalle parti nostre, si parla più con gli occhi che con la bocca, un discursu seriu: i due s'erunu 'nnamurati.

Rassaru passari un po' di tempo, giustu per fari maturari la cosa come si devi e poi il giovane scigghitanu, pigghiatu coraggiu, decise di rivolgersi al padrone del mulino non in quanto tale, ma in quanto padre di quella che era la so' zzita, sebbene ancora non ufficialmente.
Così, il giovane dichiarò ufficialmente le proprie intenzioni al padre della ragazza ma costui, guardatolo con severa area interrogativa gli spiò: <<Bene, ma tu chi hai da offriri a me' figghia?>>
Il giovane scigghitanu subito rispose entusiasta: <<Haiu un pezziceddhu di terra chi mi resi me' patri e 'u pastificiu!>>
Il padre della ragazza rimase per qualche istante in silenzio, poi disse perentorio: <<Non basta!>>
Sarebbi stata megghiu 'na cuteddhata, avrebbi fattu menu mali al cori dello scigghitanu, che non quelle due parole secche, perentorie.
Il giovane non ebbe altra scelta, almeno per il momento: vutau i ponti e se ne tornò ndo Scigghiu.

E qui, mentre il nostro percorre la strada del ritorno, consentitemi una riflessione: in quel <<Non basta!>> è racchiusa tutta la filosofia che a quei tempi dominava e che, ancora oggi, in alcune contrade nostrane è dura a morire. Potevi avere una, due...cento attività commerciali, ma se non avevi un bel po' di migliaia di metri quadrati di terra da coltivare  da cui trarre sicuro sostentamento, in provincia di Reggio, in Calabria, al Sud, non eri nessuno. Alla faccia dello spirito imprenditoriale!

Di converso, a Parma, in quegli stessi anni, una piccola attività come quella iniziata da Pietro Barilla, era invece la base per un'industria che nel dopoguerra avrebbe conquistato i mercati di tutto il mondo.

Mentre tornava a casa, il ciriveddho del giovin scillese firriava peiu delle pale di un mulino a ventu in una iurnata di scirocco. Il “soggiro -to be” (come dicono gli anglofoni) gli aveva lanciato una sfida, e 'u giuvinottu non aveva la benché minima intenzione di perderla: la posta in palio era troppo alta, quella ragazza era tutto per lui.
Così, pur se non mbiddhò occhiu e passò la notte a vutarsi e giriarsi ndo lettu comu 'na cutuletta 'mpanata, ci riflettì supra, e...la notti gli portò consiglio.

Ampestru iornu, decise di passari all'azione parlò della facenna con i cinque fratelli: spiegò loro che pi ddha beddha figghiola aviva intenzioni serî e disse loro della pesante condizione posta dal genitore di lei.
L'unica soluzioni possibili era quella di incrementare -chiamiamolo così- il "capitale terra" di sua proprietà. Perciò, era disposto ad acquistare tutte le proprietà che erano toccate in divisione agli altri fratelli, sempre che essi fossero stati d'accordo. Non  fu necessario aggiungere altro: i cincu frati si vardaru nda facci e si capisciru, con una semplice strizzatina d'occhio che accompagnò l'abbraccio di ognuno di loro al giovane fratello innamorato.
Trovato l'accordo, non persero tempo e scesero insieme dal notaio, che nel pomeriggio del giorno seguente rogò l'atto di vendita dei terreni a favore del giovine scigghitanu, che così divenne "possidente".

Il iaddho non aviva ancora finutu di cantari, che il giovine scigghitanu, ampestru matina, satò sul carro e partì a razzu, portando con sé "la carta" scritta dal notaio, l'atto ufficiale che certificava i suoi possedimenti.
Arrivò al mulino che il cori gli battiva forti, si guardò attorno ma della ragazza non c'era signu. In compenso, so' patri era ddhà, già al lavoro. Appena vitti al giovane scigghitanu, gli andò incontro con area severa:
- <<Bongiornu>> disse, pronto, il nostro.
- <<Bongiornu>> rispose, ‘sciuttu, il padrone del mulino.
Rotto il ghiaccio, il giovane pigghiò coraggiu -il coraggio che gli veniva dall'arma cartacea in suo possesso- e illustrando al suo interlocutore le ultime novità patrimoniali che lo riguardavano, porgendogli l'atto, disse risoluto: <<Eccu, se non ci criditi, liggiti vu' stessu!>>.
Il "soggiro-to be" liggì la carta scritta frisca dal nutaru. Ultimata la lettura, stette un po' con la testa china, pensieroso, mentre 'u scigghitanu, surandu friddu, girava e rigirava tra le mani il cappello, fino a farlo diventare nu scirupannu.

Dopo qualche manciata di secondi -che al giovin scillese sembrarono anni- il padrone del mulino guardò dritto in faccia o' scigghitanu e disse: <<Sta beni. A me' figghia v'a dugnu.>>
A quelle parole, come per un miracolo, dal nulla si materializzarono la moglie del padrone del mulino -nonché "soggira-to be", e lei, la promessa zzita. Il sole, che intanto era spuntato caldo e luminoso da dietro le montagne, suggellò e benedisse i due giovani.

Passò del tempo, per il regolare periodo dello zzitaggio ufficiale d'ordinanza, poi i due convolarono, finalmente, a giuste nozze.
Formata che fu la nuova famigghia, c'era ancora un'ultima cosa da sistemare.
Poco tempo dopo il matrimonio, infatti, 'u scigghitanu convocò di nuovo i fratelli. Stavota non ebbiru bisognu di dirsi nenti, si guardaru nda l'occhi -propriu come avevano fatto qualche mese prima- e decisero tutti insieme ch'era giunto il momento di mantener fede all'impegno che avevano assunto, a suo tempo, con gli abbracci e le strizzatine d'occhio: avevano un appuntamento.


Stabilito il giorno e l'ora, tornarono dallo stesso notaio, si sedettero attorno al tavolo e procedettero a formalizzare il loro patto fraterno: il neosposo cedette a ciascuno dei fratelli gli stessi terreni che essi gli avevano venduto per consentirgli di potersi fare zzito con la ragazza del suo cuore.

Lui che, suo malgrado, aveva dovuto diventar ricco per amore, non aveva più bisogno delle proprietà, delle ricchezze di tanta terra –più di quella, giusta, che gli era toccata in divisione. Ora poteva farne tranquillamente a meno. Aveva trovato la ricchezza che gli mancava, nell'amore per la sua sposa.

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