01 ottobre 2017

A MIO PADRE



Ciao papà,
è già passata una settimana da quando sei andato in cielo. Non ti abbiamo salutato né ti abbiamo potuto dire grazie come avremmo voluto.
Negli ultimi giorni passati insieme, stanco, consumato da una malattia implacabile -che, ne sono certo, un giorno non lontano sarà definitivamente sconfitta- mi ripetevi spesso: «Figlio, che brutto ricordo che ti lascio di me!».
No, papà, quello che hai lasciato a me, Mariangela e mamma, non è affatto un brutto ricordo. Tutt'altro.
La lotta che hai condotto con forza, determinazione e grande dignità contro un male che pur sapevi non ti avrebbe lasciato scampo, ha rafforzato in noi la consapevolezza di aver avuto la grande fortuna di averti rispettivamente come padre e marito. Pur consumato dalla sofferenza, non hai mai perso la voglia e la forza di scherzare, di trovare sempre il modo di farci sorridere.
In questi giorni, numerosi sono stati i messaggi che abbiamo ricevuto con ogni mezzo, tante le mani che abbiamo stretto, gli abbracci che abbiamo scambiato con tutti coloro che hanno voluto esprimerci il loro cordoglio, la loro vicinanza. In tanti si sono meravigliati del fatto che, pur se nel dolore più profondo, siamo sereni, papà.
Dopo che hai resistito giusto fino alla fine dell'ultima preghiera prima di smettere di respirare per sempre, quando ti hanno preparato prima di ricevere l'ultimo saluto da parte di chi ti ha conosciuto e voluto bene, dal tuo volto è scomparsa la maschera di dolore che, a causa della malattia, aveva trasformato, stravolto il tuo viso. Ho rivisto, così, la tua espressione naturale, illuminata da un bellissimo sorriso, il sorriso di chi prova una grande gioia, di chi ha ritrovato la serenità e la pace che da tempo invocava.
Appena arrivato alla Casa della Carità, ultima stazione del tuo lungo calvario, ti sei fatto accompagnare nella cappella dove, rivolto al Crocefisso, con un filo di voce hai pregato così: «Eccomi, Signore, sono pronto.»
E Gesù crocifisso, che vedevo in te guardandoti, inchiodato al letto dal dolore, ti ha ascoltato: ha mandato San Rocco a prenderti insieme a San Pio, che ti ha accolto in cielo proprio il giorno della sua festa liturgica, e insieme ti hanno accompagnato da Gesù. Quel sorriso sul tuo volto, che hanno notato in tanti rimanendone stupiti, era il segno chiarissimo che non soffrivi più ed eri di nuovo felice.
Per me, Mariangela e mamma, quello è stato il segno che il Signore aveva accolto le tue e le nostre preghiere. Per questo ci siamo sentiti sollevati dopo aver cercato di aiutarti a portare il peso della tua croce, ricambiando noi figli -pur se in minima parte- tutto l'affetto, le attenzioni, l'amore che da padre premuroso ci hai dedicato per tutta la vita.
In questi ultimi tre anni si sono alternati momenti di sconforto e momenti di speranza: la notizia della malattia, poi l'inizio della cura, delicata e difficile, in mezzo a difficoltà di ogni genere. Li abbiamo affrontati passo dopo passo, con fiducia, barcollando sotto il peso gravoso della malattia e delle sue implicazioni sul normale equilibrio familiare, sbattendo contro muri alti e spessi, cadendo nella rabbia e nello sconforto. Ma ti abbiamo aiutato a rialzarti e siamo andati avanti nonostante tutto, accettando insieme a te le tante sfide che il destino ti ha messo di fronte. Sfide che hai vinto tutte, facendoti carico e subendo personalmente le conseguenze di colpe non tue.
Il sorriso che l'incontro con Gesù ti ha disegnato sul volto, ti ha fatto dimenticare tutto il male che hai sofferto e ricevuto durante tutta la vita, ma sento il dovere di chiederti perdono per il male che hai dovuto subire e sopportare per causa mia. E ti chiedo scusa per non averti saputo regalare le gioie che meritavi.
Una domanda ti tormentava: «Perché questa malattia? Perché a me?». La mia risposta era sempre la stessa: «Perché vuol dire che il Signore sa che sei in grado di sopportarla.»
Sì, papà, sei stato bravo a sopportare le tante circostanze avverse che ti si sono presentate in questi ultimi tre anni: quando sei arrivato all'Ospedale di Scilla e, invece del medico che ti aveva visitato qualche giorno prima e con il quale dovevi iniziare la chemio, ti sei ritrovato davanti i Carabinieri, intenti a mettere i sigilli al reparto di oncologia, perché scelte pseudo-politiche avevano deciso che l'ospedale di Scilla doveva chiudere. Sei stato bravo quando lo scorso anno, d'inverno e per ben tre volte ti sei sottoposto alla chemio, ai Riuniti di Reggio, non nella solita sala a ciò destinata ma nella quale non c'era più posto, ma in uno squallido sgabuzzino e, per di più, sotto una finestra dalla quale filtravano spifferi micidiali, tanto che sei tornato a casa con la febbre, che ti ha costretto a interrompere la terapia.
Sei stato bravo a trovare la pazienza per sopportare le interminabili ore di fila, specie quella mattina in Ematologia, dove hai atteso il tuo turno di visita per sottoporti a un piccolo intervento, salvo poi dovertene tornare a casa perché il medico che avrebbe dovuto effettuarlo non sapeva che tu fossi lì.
Sei stato bravo, quasi un anno fa, a riprenderti da un infarto, che hai potuto superare anche grazie alle prime, fondamentali, cure ricevute quella sera al Punto di Primo Intervento dello "Scillesi d'America". Sai papà, fosse successo quest'anno, alla stessa ora, avresti trovato la porta dell'ex ospedale chiusa e saremmo dovuti andare a Reggio in macchina, senza sapere se saresti arrivato in tempo per essere operato d'urgenza e guarito, come l'anno scorso.
Sei stato bravo, infine, venti giorni fa, quando ti abbiamo dovuto ricoverare per un nuovo problema, stavolta al polmone. Dopo una settimana passata a girovagare per quattro reparti e una nuova operazione, i medici ti hanno potuto mandare a casa soddisfatti. Loro sì, erano soddisfatti, ma tu eri stanco: «Portami a casa...» -mi hai detto appena ci hanno detto che ti dimettevano- «...voglio morire a casa.» Queste parole resteranno per sempre scolpite nella mia memoria, perché lì ho capito che non ce la facevi più: in cuor tuo avevi detto basta. D'altra parte, il numero 17 non ti è mai piaciuto e non ce l'hai fatta proprio a finire quest'anno che ne porta le cifre.
Gli ultimi dieci giorni, infatti, hai smesso di mangiare: «Dove devo andare ormai, legato qui come un cagnolino!» mi hai detto fissando le goccioline lente della flebo che hanno scandito le ore dei tuoi ultimi giorni.
Poi, in pochissime ore, l'ultima stazione, l'ultima preghiera a Gesù ed hai ritrovato la pace e la serenità, che stavolta dureranno per sempre.
Papà, dicevi sempre: «Due cose sono importanti per l'uomo: la salute e il lavoro.» E guarda oggi: sono due elementi di cui l'uomo "moderno", il politico "moderno" ritiene di poter fare a meno: gli ospedali chiudono, così come i punti di primo, essenziale, intervento; e il lavoro o te lo inventi o non ti resta che trovare strade che portano lontano da qui. E questa realtà non ti piaceva, non poteva piacere a te che finché hai avuto la salute, non ti sei risparmiato, hai lavorato sempre, fin da bambino! E con il tuo lavoro hai potuto costruire una famiglia, la nostra.
Poi, quando la salute ha cominciato a venir meno, con la forza che ti derivava dal non aver mai nascosto la tua umana fragilità, hai continuato a illuminare le nostre vite e quelle dei tuoi parenti e di coloro che hanno avuto modo di conoscerti e di volerti bene, rendendo tutti migliori.
Adesso, sei una piccola luce che brilla intensamente e ci illumina dal cielo. E la tua luce, papà, arriva fin qui: la vedo negli occhi di mamma e di Mariangela ogni giorno; la vedo negli occhi dello zio, tuo fratello; negli occhi dei tuoi nipoti -con i quali siamo cresciuti come fratelli- e dei loro figli, cui volevi un gran bene; negli occhi di tutti i tuoi amici ogni volta che li incontro per strada.
Guidato da questa luce continuerò il mio cammino, essendoti infinitamente grato del fatto che sarò conosciuto e riconosciuto per sempre come figlio di Paolo Picone.

Tuo
Francesco


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