02 maggio 2010

GLI UOMINI I CAPORALI E PASQUALE CAFIERO

 Ieri, la festa del lavoro i sindacati italiani l'hanno festeggiata a Rosarno, divenuta il luogo simbolo del lavoro sfruttato, dell'umanità sfruttata.
La vicenda di Rosarno è stata l'umana e reale rappresentazione di quell'umanità così efficacemente descritta in "Siamo uomini o caporali" del grande Totò.

Forme di sfruttamento del lavoro ne sono sempre esistite (e continuano ad esisterne), ma se guardiamo al passato, nel lavoro, pur nella mancanza di quegli strumenti normativi che i sindacati hanno saputo conquisatre in tempi relativamente recenti a tutela dei lavoratori, in molti altri casi era presente qualcosa che oggi si è perso. Almeno nel nostro "microcosmo" scigghitano, che poi è lo stesso di Rosarno e di tante altre parti d'Italia.

Mio nonno paterno -che putroppo non ho mai conosciuto- era un contadino, nu capuomini, come si diceva un tempo.
Era colui che, facendo sempre e comunque il suo mestiere di contadino- aveva con sè una squadra di uomini, che coordinava in maniera tale da svolgere al meglio la faticosa attività nei campi. Ogni sera, predisponeva il lavoro per il giorno seguente, tenendo presente in quali e in quanti terreni veniva chiamato dai diversi proprietari dell'epoca (famiglie benestanti o borghesi del tempo) e, sopratutto, le capacità degli uomini che aveva a disposizione.
Così, conscio del fatto che tutti i suoi compagni di lavoro erano padri di famiglia, sceglieva quali e quanti uomini mandare a svolgere un lavoro magari più pesante e quanti altri, invece, potevano dedicarsi a lavoretti diciamo così di normale amministrazione.
Quella di capuomini non era una carica dalla quale derivava un potere. Era semplicemente una qualifica che veniva riconosciuta dagli altri contadini sulla base di una maggiore capacità, una maggiore esperienza di gestire le varie e diverse situazioni che si presentavano, non ultimi i rapporti da mantenere con i proprietari terrieri.
Il capuomini, se vogliamo, era l'imprenditore agricolo di oggi. Ma, a differenza di quello attuale, l'unico capitale che aveva a disposizione, di cui gli stesso era parte integrante, era quello umano. 

Per questo, anche se non c'erano leggi che lo prevedevano espressamente, il capuomini cercava in primo luogo di salvaguardare la salute dei propri uomini, rispettando sempre e comunque la dignità di ciascuno di loro. Non lo faceva per un ragionamento utilitaristico, ma solo perché viveva nell'osservanza di quel rispetto verso gli altri che gli derivava esclusivamente dalla consapevolezza che solo agendo in quel modo poteva davvero dire di essere un buon padre di famiglia, un uomo.

Col tempo, questo rapporto così speciale si è modificato. 

Mentre il vecchio capuomini, con la sua capacità ha ingrandito la propria attività divenendo magari un piccolo imprenditore agricolo con moderni mezzi e moderne strutture, c'è stato chi ha pensato di prendere il suo posto.
Ma non l'ha fatto come s'era fatto fino ad allora. L'ha fatto per diventare un "capo di uomini", modificando non solo l'ortografia ma la semantica delle parole, stravolgendone completamente il significato originario, sottraendo loro un elemento fondamentale: la condivisione. 
Il "capo di uomini" non condivide il lavoro, la fatica. Comanda, arruola uomini perché siano al suo servizio, assoggettati, sottomessi. Il "capo di uomini" è il caporale.

Così, da capo, il caporale pretende il rispetto, impone la sua autorità. Un'autorità a senso unico, visto che forse per uno strana applicazione umana di quella legge fisica che afferma che "a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria", i caporali non si sono mai sognati di riconoscere da parte loro l'autorità dello Stato, della sua organizzazione sociale. 

E' un'autorità autoindotta, che gli deriva dalla percezione stessa che ha di lui chi soggiace a questa situazione e non riesce più nemmeno a fiatare, che lo fa assurgere a unica figura di riferimento cui affidare anche il più minimo bisogno. 

E le condizioni che, in piccolo, hanno permesso al caporale di sfruttare i "suoi" uomini, hanno la stessa genesi, lo stesso humus nel quale, se ragioniamo su scala più grande, nasce, cresce e si rafforza la figura del boss.
Colui al quale viene riconosciuto un carisma, anche qui autoindotto dalla debolezza altrui, tale da attribuirgli  addirittura "virtù di pace", che valgono il pubblico plauso.

Ma ad applaudire questi "don Raffae'", non sono altro che quei pochi "Pasquale Cafiero" così magistralmente descritti da De Andrè.
Quelli che, rivolti al boss perché aiuti un "povero cristo", lo invitano a casa e quasi in adorazione, dandogli del "voi", dicono:

"Voi vi basta una mossa, una voce
c'ha  'sto Cristo ci levano a croce
con rispetto, s'è fatto le tre,
vulite a spremuta o vulite 'o cafè"


Il giorno in cui non ci saranno più "Pasquale Cafiero", forse il peso di questa croce che è la criminalità organizzata (tutta e in tutte le sue forme), sarà più leggera. Per tutti.


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