11 maggio 2013

VITE SENZA PUNTEGGIATURA

Il giorno in cui l'uomo ha imparato a misurare il tempo, ha cominciato a vivere ossessionato dal suo trascorrere.
Oggi non possiamo più fare a meno di un orologio. Se ci fate caso, gli orologi sono ovunque: al polso, sul comodino, in cucina, in soggiorno, in salotto, in bagno, sul cruscotto della macchina, nel computer, sul telefonino, ovunque.
Corriamo, andiamo di corsa, consapevoli che ogni secondo che passa in più è un attimo perso che non potremo recuperare. E' una cosa continua, fino a restare senza fiato: arriva il fine settimana e siamo esausti, svuotati, sentiamo il bisogno di chiudere il mondo fuori e tornare a respirare.

Questo modo di vivere si è inevitabilmente trasposto nel modo di scrivere.
Non è più una questione tecnica legata al mezzo che utilizziamo per comunicare. Quella che in origine era una semplice necessità tecnica (non legata alla necessità materiale di abbreviare i tempi della comunicazione), è divenuta oggi una nostra esigenza: abbreviare le parole è un modo ulteriore per risparmiare tempo.
Ma a furia di risparmiare tempo, si è quasi persa la voglia di usare le lettere maiuscole per scrivere i nomi propri o iniziare una frase; sempre più raro è l'uso dell'apostrofo, ritenuto quasi superfluo; si ignora a cosa serva un punto e virgola.
Insomma, scriviamo come viviamo: tutto d'un fiato.



Mi torna in mente la famosa scena della lettera che Totò e Peppino (i fratelli Caponi) scrivono alla Malafemmena perché lasci in pace il loro nipote che "è studente che studia, 'ché si deve prendere una "laura". La lettera si conclude con un "Punto, punto e virgola. Punto e punto e virgola", perché –è la preoccupazione di Totò- non si dica che "siamo provinciali, che siamo tirati".
Ecco, oggi si scrive in maniera sempre più "provinciale". Siamo tirati, sì, perché vogliamo risparmiare. Cosa? Il tempo, che sembra essere l'unica entità attraverso cui misurare tutto.

Misurare il risparmio di tempo e tradurlo in moneta, in grandezza economica, è un'operazione logica, da economia dei trasporti. E' l'unica logica che si può utilizzare in una società che va continuamente da una parte all'altra, si sposta di continuo ma spesso senza sapere dove né perché.
Ironia della sorte, nell'epoca in cui tutti hanno avuto (per fortuna) la possibilità di studiare e di imparare a scrivere (ma non è detto che l'abbiano fatto), si è ritenuto di poter fare a meno di una conoscenza fondamentale della scrittura: l'uso della punteggiatura.
Se le parole scritte esprimono il nostro pensiero, la punteggiatura esprime ciò che le parole non possono: una pausa (più o meno breve), un respiro, un'esclamazione, un interrogativo. La punteggiatura serve a indicare le nostre sensazioni, segna sulla carta il ritmo del nostro cuore.
Ma il pulsare del cuore è superato, soverchiato ormai dal rumore che ci circonda e ci fa divenire sordi, ciechi, insensibili a tutto fuorché al passare del tempo.

Abbiamo assegnato alla punteggiatura un nuovo ruolo, marginale: quello di affiancare lettere, linee e asterischi per descrivere le espressioni del nostro volto nei "dialoghi" telematici. E' un nuovo codice di comunicazione che personalmente non utilizzo. Credo che solo la parola scritta, accompagnata dalla giusta punteggiatura possa esprimere pienamente pensieri e sensazioni.
Sarà perché sono un appassionato di fumetti, un mondo in cui l'illustrazione grafica non è altro che la traduzione disegnata di ciò che la parola scritta e la punteggiatura esprimono, insieme, dentro la "nuvola parlante".
Per questo credo che faremmo bene a tornare a usare (o imparare di sana pianta) la punteggiatura nel modo più appropriato, come ci ha insegnato la maestra alle elementari fin dal primo dettato.

Viviamo una vita senza punteggiatura. Dimentichiamo che la punteggiatura aiuta a respirare, a riflettere, a sentire le nostre sensazioni. Dimentichiamo che la punteggiatura allunga la vita.

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