01 luglio 2013

CERTE COSE NON SI DICONO

Mi è capitato più volte, ma mai con la frequenza riscontrata nella settimana appena trascorsa.
Sentire o leggere le storie di giovani scillesi o reggini che con la sola forza delle loro capacità e della loro testardaggine calabra, senza "aiutini" o "spinte", sono riusciti a studiare, a crearsi una professione, un lavoro.
E' bello sentire i loro genitori raccontarti degli sforzi, del sudore ma anche delle soddisfazioni e delle gratificazioni ricevute dai loro figli, che si sono visti premiare, prima con un buon voto, poi con un buon lavoro o con un'attività che consente loro di sentirsi pienamente realizzati.
E le gratificazioni e le soddisfazioni dei figli, sono anche dei loro genitori.
Lo percepisci dal tono della loro voce -che nonostante facciano di tutto per nasconderli, tradisce emozione e orgoglio- o dalle parole scelte per esprimere questo sentimento attraverso la scrittura.
I calabresi e l'esternazione dei sentimenti, sono due cose che storicamente non sono mai andate tanto d'accordo.

Mi tornano in mente alcuni passi de "La collina del vento", di Carmine
Abate, calabrese di Carfizzi, in provincia di Crotone.
In poche righe, tratteggia in maniera straordinariamente potente, il modo in cui noi calabresi ci rapportiamo con i sentimenti.

<<Per scaramanzia non disse mai "Come sono felice", perché sapeva che dirlo porta male, ma lo era, felice, e la moglie se ne accorgeva, di notte e di giorno, lo amava più di prima, anche se non ebbe mai il coraggio di dichiarare il suo sentimento a parole>>.

E ancora: <<Era la seconda volta nell'arco di due giornate che il padre si fidava di lui. Michelangelo lo avrebbe abbracciato, se ne avesse avuto il coraggio. Si alzò, raccolse le ciliegie più grosse e mature e gliele offrì in segno di gratitudine e di affetto.>>

Il calabrese preferisce tacere, o comunque parlare poco, e dimostrare amore o affetto con lo sguardo o con gesti magari semplici -come quello di offrire un pugno di ciliegie- ma concreti.
Sarà per un retaggio culturale antico, fatto di superstizione che ai più "moderni" potrà apparire stupida, ma che tale in verità non è.
Quella che all'esterno passa per scaramanzia o, peggio, per mancanza di coraggio, è in realtà il desiderio di custodire nella parte più profonda della propria intimità i sentimenti più belli, più preziosi.

C'è però anche una componente "motivazionale" che giustifica la "non esternazione" davanti a circostanze positive (in caso di fatti negativi, le esternazioni invece ci sono, eccome se ci sono!). E' il loro desiderio di spingerti a fare meglio e a dare sempre il meglio di te stesso.
Il più delle volte, davanti a un avvenimento positivo o a un buon risultato parziale raggiunto dai propri figli, i genitori calabresi si limitano a un: <<Mmhh!...bravo...>> -che tradotto vuol dire: era quello che dovevi fare, era il tuo dovere. E subito dopo, a scanso di equivoci, aggiungono: <<Però non hai...>>, sottolineando prima d'ogni cosa le piccole imperfezioni o l'unico aspetto dove, in effetti, potevi far meglio.

I genitori calabresi non sono certo quelli di cui cantava tempo fa Pino Daniele in "O' scarrafone", non sono tra quelli che "ogni scarrafone è bello a mamma soi". No, lo scarrafone calabrese (u scaravagghiu) non viene visto bello dai propri genitori, viene spinto da loro a diventare bello, sempre più bello, da solo, per le sue capacità.


I genitori calabresi, pur se contenti per i propri figli, gioiscono col cuore e nel cuore più che con la bocca, perché -
come disse una volta mio padre: "Certe cose non si dicono!"

Per questo, la volta in cui ti fanno un complimento, sei tu che quasi provi vergogna per aver fatto qualcosa "diversa dal solito", anche se in cuor tuo hai l'impressione di toccare il cielo con un dito. Ma certe cose non si dicono!

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