05 luglio 2014

IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE E LO SPECCHIO DELLA STORIA

 

Ci risiamo. Ancora una volta il Medio Oriente rischia di esplodere. Il motivo? Sempre lo stesso: il conflitto israelo-palestinese.
Dopo la "Guerra dei 100 anni" è quello che dura da maggior tempo. Tutte le guerre hanno avuto un inizio, i loro morti, ma hanno avuto anche una fine.

Questa no. Non ancora, purtroppo, dopo 65 anni.

Gli ultimi giorni ci hanno riservato cronache come queste da Gaza e da Israele:


- tre bambini israeliani rapiti e uccisi. Forse da terroristi di Hamas;
- un ragazzo palestinese rapito e ucciso per rappresaglia. Forse dai coloni;
- il padre del ragazzo palestinese ucciso, arso vivo: «Mio figlio è stato bruciato. Spero che coloro che hanno fatto questo brucino anche loro»;
- razzi, lanciati dai palestinesi, contro gli israeliani;
- i bambini israeliani che dormono in un rifugio e memorizzano canzoni lunghe non più di 15 secondi, perché è quello il tempo che hanno per mettersi al sicuro prima che arrivi il prossimo razzo;
- la madre del ragazzo palestinese ucciso: «Mi sento come se mi avessero strappato il cuore»
....

Per quanto ancora?...Per quanto ancora??...

E' la domanda da porsi, visto e considerato che si continua imperterriti a infliggere dolore e instillare odio da entrambe le parti.
Ne avessi il potere e l'autorità, farei una sola, semplice cosa: uno scambio tra israeliani e palestinesi. I primi li manderei a Gaza, i secondi nei villaggi vicini alla frontiera con il Libano, lì dove arrivano i razzi.
Sono convinto che lutti e rovine non durerebbero neanche una settimana.
Perché è così difficile mettersi nei panni di chi sta dall'altra parte?

Già, ma da che parte stare? Dalla parte di Allah e del Corano, o dalla parte di Yahveh e della Torah?
Messa così, la domanda è stupida, molto stupida.
Eppure, a guardare la storia di questi ultimi sessantacinque anni, è proprio strumentalizzando questa domanda che gli israeliani hanno continuato a dettar legge, la loro legge, nei territori palestinesi.

Il popolo che ha subito le rappresaglie naziste, con fucilazioni di massa, infligge bombardamenti, rapimenti e uccisioni strategicamente mirati e freddamente pianificati. Chi ha subito indicibili sofferenze, inferte in nome di una superiorità inesistente, impone la propria superiorità ricorrendo alle sacre scritture, al “diritto divino”, con il quale hanno giustificato e continuano a giustificare i peggiori soprusi ai danni dei palestinesi.
E' strumentalizzando la loro stessa immane sofferenza che oggi gli israeliani infliggono sofferenza e dolore al popolo palestinese. Non si può ricordare il passato e la storia per un giorno (come nel giorno della memoria) o solo quando fa comodo, dimenticandosene per il resto dell'anno!
E' vero, il nazismo e le atrocità subite dal popolo ebreo sono innegabili, incontestabili. Ma né quelle atrocità né il tanto invocato “diritto divino” autorizzano gli israeliani a commetterne altre -e, se possibile, di peggiori- ai danni di altri popoli, siano essi palestinesi, egiziani, libanesi, siriani, ecc.
Il popolo che ha vissuto sulla propria pelle l'orrore dei campi di concentramento, oggi condanna i palestinesi a vivere a Gaza, rinchiusi a cielo aperto, tra alti muri di cemento armato. Muri che, visti con gli occhi di chi a 17 anni (era la notte del 9 novembre 1989) assistette alla caduta del muro di Berlino, sono un atto contro la libertà, quanto di più antidemocratico e antistorico si possa vedere.
Ma gli israeliani, i loro governanti, non hanno mai guardato i loro atti e le relative conseguenze nello specchio della storia. Se lo avessero fatto, avrebbero visto riflessa questa immagine:

Ebrei ----> Nazisti  / Israeliani ----> Palestinesi

C'è una canzone, scritta oramai cinquant'anni fa, nel 1964, che mi rimbomba in testa in queste ore.
L'ha scritta un ebreo, Robert Allen Zimmerman, meglio noto alle platee mondiali come Bob Dylan e s'intitola 'With God on our side' -Con Dio dalla nostra parte. E' considerata uno dei più belli inni pacifisti degli anni sessanta.


Sono nove strofe che ripercorrono la storia degli Stati Uniti, una storia fatta di guerre (contro i nativi americani, gli spagnoli, la prima e la seconda guerra mondiale, fino agli anni della guerra fredda con l'Unione Sovietica -la crisi dei missili di Cuba era ancora fresca). E per giustificare ogni guerra, dice la canzone, gli Stati Uniti si sono sempre considerati -perché così è stato insegnato agli americani, fin da bambini- il Paese che aveva Dio dalla loro parte.
Ebbene, questa stessa canzone, scritta all'epoca come forte critica contro l'atteggiamento da superpotenza degli Stati Uniti e contro tutte le guerre, cambiando ambientazione e portandola in Medio Oriente può essere vista
come critica al comportamento degli israeliani e, quindi, contro tutte le guerre da essi condotte nella regione mediorientale, ipocritamente giustificate come autodifesa.

Nove strofe però non basterebbero, perché oltre alle atrocità degli israeliani, non dobbiamo dimenticare quelle commesse dai palestinesi: rapimenti, attentati suicidi, razzi, bombe....l'armamentario dell'orrore è simile -se non uguale- ma parimenti orrendo ed ingiustificabile e buono solo a giustificare e avvalorare il pregiudizio altrui.

C'è però un fattore che fa tutta la differenza del mondo e che non può essere ignorato o ipocritamente nascosto: mentre gli israeliani sono uno Stato, con il loro esercito e il loro territorio, i palestinesi sono solo una nazione, un popolo, senza Stato perché senza territorio, senza territorio perché gli è stato sottratto.
E quando un popolo non ha un proprio territorio, a maggior ragione perché gli è stato sottratto, che fa? Combatte, legittimamente, per averlo.
Attenzione, non è una legittimazione del terrorismo (che è cosa ben diversa, da condannare sempre e comunque), è sempre stato così nella storia.
Non dimentichiamoci mai che anche l'Italia è il frutto della lotta condotta dal popolo italiano con la Resistenza (non solo quella fatta dai partigiani, anche quella condotta, in segreto, dalle migliori intelligenze costrette all'esilio; dai politici e dagli statisti che, seppur costretti a nascondersi per sfuggire al nazifascismo, continuarono la loro lotta guidati da ideali –ahimè!- oggi dispersi nel fumo della seconda Repubblica). Una lotta che ci ha restituito il nostro Paese, ha dato forma a uno Stato e ci ha regalato la pace, la giustizia e la libertà.

Se Dio è dalla nostra parte, fermerà la prossima guerra” concludeva Bob Dylan con un ultimo verso che è una preghiera e un auspicio figlio del pacifismo di quell’epoca, forse in risposta provocatoria ad Abramo Lincoln, che un secolo prima aveva detto: ”La mia preoccupazione non è se Dio è dalla nostra parte; la mia più grande preoccupazione è essere dalla parte di Dio, poiché Dio ha sempre ragione”. Così Lincoln, politico abile, aveva fatto le sue guerre.
Essere davvero dalla parte di Dio significa ripudiare ogni forma di sopraffazione ai danni degli altri. Essere dalla parte di Dio significa cercare il dialogo -come ha fatto pochi giorni fa Papa Francesco con israeliani e palestinesi riuniti a Roma.
Essere davvero dalla parte di Dio significa mettere da parte ogni interesse economico, storico o (soprattutto) religioso che sia e porre in atto una soluzione, la soluzione, che già tutti conoscono ma che le parti in causa rifiutano di mettere in atto!

La soluzione, unica, -non ve ne sono altre!- è quella di consentire ai palestinesi di avere anch'essi -come gli israeliani- uno Stato. Avere cioè restituito il proprio territorio; avere una costituzione e delle leggi che ne regolino il funzionamento; avere un esercito, che quel territorio possa difenderlo legittimamente.
Solo la presenza di uno Stato democraticamente organizzato in tutte le sue componenti può consentire ai palestinesi di far cessare e annullare il terrorismo e ogni forma di estremismo fino ad oggi imprescindibilmente posta a giustificazione dell'”autodifesa” israeliana. Noi in Italia, che abbiamo vissuto gli anni di piombo (anni di cui, pur essendo allora bambino, ricordo l'atmosfera buia, pesante, insopportabile, di paura e dolore) lo sappiamo meglio di chiunque altro!

Solo la libertà di uno Stato palestinese democraticamente organizzato può consentire a ebrei, musulmani e cristiani di andare a pregare nelle sinagoghe, nelle moschee e nelle chiese, senza il timore di saltare in aria.
Solo uno Stato palestinese e uno Stato israeliano insieme, potranno consentire al mondo intero di riscoprire l'antica bellezza e la sacralità di Gerusalemme, senza distinzione di “settori”, ma solo con i suoi quartieri, le sue case, i suoi odori, le sue strade, percorse liberamente da tutti, arabi ed ebrei, in un miscuglio di lingue, culture e tradizioni, da buoni vicini, com'era prima del 1948.
Già, un tempo era così ed è così ancora oggi: da una parte e dall'altra dei muri di cemento armato, ci sono uomini, donne e bambini che hanno la stessa necessità: smettere di vivere in un inferno in terra e tornare a vivere una vita normale. Non è difficile immaginare che il giorno in cui verranno abbattuti quei muri di cemento armato, rivedremo le stesse scene viste a Berlino nell’ormai lontano 1989.

E' così che deve tornare a essere, perché in fondo, lo specchio della storia, se solo lo guardiamo correttamente e senza pregiudizi, ci restituisce una sola immagine, ci insegna una sola lezione.

Non importa quali siano la cultura, le tradizioni o la lingua che si parla. Il mondo è come un grande vocabolario: in esso, tutti gli uomini sono come le parole e ciascuna parola ha un senso compiuto solo perché è definita da altre parole.
Così come ciascuna parola esiste, dunque, perché esistono altre parole che le danno significato pieno, con le quali condivide le stesse vocali e consonanti, allo stesso modo ciascuno di noi esiste non per semplice “diritto divino”, ma perché il Dio che ci ha messo su questo mondo -qualunque sia il suo nome- ha fatto sì che la nostra persona si formasse non da sola ma con e per mezzo di altre persone, con le quali essa condivide il tempo in cui vive.

Se il vocabolario sia scritto in ebraico o in arabo non fa, dunque, alcuna differenza perché, a ben vedere, l'indicazione che esso dà, comprensibile a tutti, a ciascuno nella propria lingua e perciò inequivocabile, è una soltanto: non siamo il frutto di una superiorità di uno rispetto all’altro, ma di collegamenti -umani, culturali, ecc.- e, quindi, di una condivisione - שיתוף- مشاركة

Credo che queste povere considerazioni siano solo una goccia nel mare. Ma credo anche che tanti altri, in tutto il mondo, le condividano. Così che nel mondo ci sono tante piccole gocce. E tante piccole gocce, alla fine, finiscono col diventare prima una pozzanghera, poi un lago e, infine, un fiume. E il fiume, con la sua corrente, alla fine riuscirà a fornire l’acqua per spegnare l’inferno in terra palestinese.

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