18 agosto 2024

ISTANTANEE DALLA FESTA DI SAN ROCCO -2° PARTE

 E' Sant'à Rroccu, ovvero la domenica di San Rocco, quella che tutti gli scillesi aspettano da un anno. 

L'aria è un po' rinfrescata anche se l'umidità resta. Oramai è la nostra compagna di viaggio per questa estate.

In mattinata, la messa solenne con la consegna del cero votivo da parte della Commissione Straordinaria, la presenza di tutte le autorità militari, la banda che intona le marce classiche della festa, in segno di saluto.

Il pomeriggio, in piazza sono già pronti i fuochi per il Trionfino. Nella messa che precede la processione, vengono offerte in dono, in memoria di due giovani portatori deceduti nel corso dell'anno, le nuove stanghe per mezzo delle quali le spalle dei portatori condurranno la vara di San Rocco per le vie del quartiere San Giorgio. Sono più lunghe rispetto a quelle utilizzate ieri per le vie di Chianalea e Marina Grande e consentono la presenza di quattro portatori in più, con conseguente migliore ripartizione del peso e minore fatica per i portatori. Vengono letti i nomi di coloro che porteranno il Santo di corsa sotto il fuoco del Trionfino.

La processione si snoda lentamente per le vie del quartiere: si sale da Via Umberto I, poi Via Matteotti e quindi la parte alta di Via Roma, per giungere davanti alla Comunità alloggio "Padre Gaetano Catanoso" -già Casa del fanciullo.

Poche decine di metri e pochi minuti dopo, San Rocco giunge davanti a quel che rimane dell'ex Ospedale "Scillesi d'America", plastico esempio di malasanità calabra, mentre la banda intona uno dei miei pezzi preferiti, dal titolo "Venditori di fumo". Nulla accada per caso…

Lungo il percorso, piccoli inconvenienti tecnici agli strumenti dei musicanti vengono risolti al volo, con l'aiuto di un tronco d'albero, con abilità, destrezza ed estrema praticità.

Tra i portatori si controllano le presenze su una scheda appositamente redatta ed aggiornata. Sono un'ottantina, forse un centinaio, compresi gli ultrasessantenni che per devozione fanno qualche breve tratto. Ma solo chi ha almeno dieci anni di "anzianità di servizio" può 'mbuttari nella corsa del Trionfino.

La processione percorre la strada della mia infanzia, lì dove un tempo c'erano solo giardini con piante di agrumi e orti irrigati a forza di gebbie e camini per l'acqua. Rivedo aperti tanti portoni che per il resto dell'anno restano malinconicamente chiusi. Per il passaggio di San Rocco le strade paiono riprendere vita.

Guardo i volti delle persone davanti alle case: i loro volti sono radiosi, i loro occhi tutti diretti a guardare gli occhi magnetici di quel giovane pellegrino, rappresentato nell'atto di offrire a Dio le sue sofferenze e con esse quelle di chiunque sia sotto la sua speciale e paterna protezione.

Per lunghi tratti guardo da dietro la nostra meravigliosa statua: il mantello del pellegrino sembra muoversi, gonfio di vento, quel vento della fede che lo ha spinto fino alla Gloria di Dio.

Si sale da Via Parco verso il quarteri 'ndiginu, imbandierato a festa, pur se i portatori sono costretti a percorrere qualche tratto trasportando la vara a mano invece che sulle spalle, perché i fili delle bandierine che vanno da una parte all'altra della strada, sono troppo bassi.

Si giunge quindi a' Cresiola e da lì, dopo una breve sosta si scende verso la piazza da Via Nucarella, ammirando il panorama di Chianalea e l'area del molo del porto, sul quale sono già installati i fuochi per lo spettacolo pirotecnico di mezzanotte, che chiuderà la festa.

Si va verso la piazza, che è già piena di gente. Tutti aspettano il Trionfino. Prima, però, l'ultima sosta è alla Casa Protetta “Casa della Carità”, struttura sanitaria che, contrariamente a quella dell'ex "Scillesi d'America" divenuta pubblica, è vanto di Scilla per serietà ed efficienza nell'assistenza agli anziani non autosufficienti.

Tra loro anche Mons. Domenico Marturano, per tutti gli scillesi semplicemente Don Mimmo, parroco di Scilla per vent'anni, la cui instancabile opera a servizio di tutta la comunità è ancora oggi sotto gli occhi di noi tutti. Lo salutiamo con un affettuoso applauso, poi Don Mimmo, pur con voce flebile e provata dalla sofferenza che sta vivendo, rivolge la sua preghiera a San Rocco, il Santo al quale ha dedicato tanta parte della sua missione pastorale. L'emozione è inevitabile.

L'arrivo in piazza, il lento avanzare verso l'estremità nord-ovest di questo balcone naturale sullo Stretto, punto dal quale prenderà il via la corsa del Trionfino. Un cordone di agenti di polizia e carabinieri -tra di loro un giovanissimo allievo maresciallo al primo anno, la cui mostrina con stampate le lettere "I AM" a qualcuno dei presenti suona curiosamente d'inglese. 

Gli ultimi controlli da parte delle autorità di pubblica sicurezza (rassicurati comunque dall'esperienza di noi stessi 'ndigini scigghitani che il Trionfino ce l'abbiamo nel sangue), qualche tradizionale foto-ricordo tra portatori, Agesci, Masci e qualche infiltrato, e poi si è finalmente pronti per l'evento tanto atteso.

Partono i mortaretti che illuminano con la loro pioggia il tragitto che percorrerà la statua, quindi è la volta ri roteddhi (le girandole, per gli italici). San Rocco parte, inizia la sua corsa, che mi appare più lenta del solito. In tanti, infatti, immortalano la corsa tramite i telefonini. Tra il pubblico, in pochi applaudono, la maggioranza è intenta a filmare, stringendo megaschermi a due mani. Questa cosa mi mette un po' di tristezza.

A guidare la corsa, accompagnato ai lati dal maresciallo e dalla commissaria prefettizia, il nostro parroco, Don Francesco Cuzzocrea, al suo ultimo Trionfino da arciprete di Scilla poiché già destinato al trasferimento in un'altra parrocchia.

A sopperire al quasi-silenzio innaturale della folla, ci pensano i fuochi d'artificio. Sono quasi dieci minuti, belli, intensi, potenti. L'ultimo minuto l'ho vissuto a bocca aperta, sospeso in un mondo fatto solo di fuoco, luce e rumore assordante. 

Si rientra in chiesa, seppur a fatica scalo posizioni, fino a raggiungere la zona dell'altare. L'emozione sale. Don Francesco ringrazia tutti, allargando le braccia come a volervi racchiudere l'intera comunità scillese, che lascia dopo sedici anni. Saluta e abbraccia, prima collettivamente e poi uno per uno, i portatori. E' difficile trattenere le lacrime.

Esco, riprendo un po' d'aria, sono ancora stordito. Mentre i fuochisti stanno completando lo smontaggio delle attrezzature utilizzate per il Trionfino, faccio un salto alla bancarella: ciciri, nucilla e iessi, il segno della festa, da portare a casa.

17 agosto 2024

ISTANTANEE DALLA FESTA DI SAN ROCCO -1° PARTE

 Il caldo umido ma senza sole. La piazza meno affollata del solito all'uscita della processione. I saluti tra amici, conoscenti e parenti. I «…'Rrivaia aieri sira…», giusto in tempo per la festa, non si può mancare. I bambini sulle spalle dei loro padri o dei loro nonni. Sono immagini che si ripetono ogni anno, ma sono ogni anno diverse. 

Le vie strette di Chianalea, che anche poche persone sembrano essere una lunga moltitudine. La statua che sfiora le case, lambisce finestre e porte. San Rocco, il Santo Pellegrino della carità, che porta conforto e sollievo a chi soffre; San Rocco, l'amico che passa a trovarti, puntuale, viaggiando leggero sulle spalle dei portatori, pur gravato delle richieste d'intercessione al Signore da parte di tutti gli scillesi.

 I volti delle tante persone, che vedi lì, sempre allo stesso posto ogni anno, in attesa del passaggio del loro Santo. Li vedo cambiati, i capelli sempre più bianchi o sempre più radi, ma sempre trepidanti nell'attesa di incontrare San Rocco, anche se solo per pochi attimi.

Le donne con le 'ntrocce, presenza imprescindibile nella processione di San Rocco. Rappresentano la luce del Signore che guida i passi del Santo Pellegrino.

Il nostro Parroco, don Francesco, che i miei occhi vedono avere la gioia di un bambino. Come un esperto regista, guida la preghiera, gestisce gli interventi musicali della banda, coordina la coreografia al ritorno in piazza. 

I portatori, tra i quali mi intrufolo, captando gli umori, le fatiche, le risate, il sacrificio, che sono quelli di una comunità intera che si affida tutta al suo Santo Patrono. E' incredibile, ogni volta, assistere alla loro abilità nel percorrere le stradine strette e tortuose di Chianalea. Gli ultimi cento metri di Via Grotte, prima di arrivare al porto, sono un continuo 

"Fermi! A terra! A mano! Fermi! A Terra! A spalla!" 

Sembra quasi un ritornello, frutto però di tanta cura e attenzione. Alla fine di Via Grotte, all'arrivo al porto, un urlo liberatorio sale verso il cielo: Viva San Rocco!

Gli amici, con i quali lungo il percorso condivido aneddoti e curiosità sulla vita esemplare di Rocco Della Croce, per noi scigghitani San'tà Rroccu.

La salita, a passo di marcia, da Marina Grande verso la piazza.

Il giro nel rione Bastia, tra gli ambulanti appena arrivati che non hanno ancora fatto in tempo a piazzare i loro negozi su ruote. Lo stupore dei turisti davanti a una statua che sembra viva, tanto che ogni volta che la si guarda si prova un'emozione difficilmente spiegabile a parole.

Il rientro in chiesa con il canto del Gloria a San Rocco, sempre emozionante, nel ricordo di chi è sempre stato accanto a San Rocco e oggi non c'è più. Non lo è fisicamente, ma lo è nei pensieri, ogni giorno, soprattutto in questi due giorni.

Infine, la bellissima preghiera degli scillesi al loro Santo Patrono:

Oh San Rocco,

A Te che fin da bambino rifiutasti il bene materiale e il prestigio sociale per farti testimone dell’Amore di Dio verso gli ultimi, facendoti Ultimo Tu stesso, si rivolge da lunghi secoli la pietà commossa dei nostri padri.

Nei boschi d’Aspromonte come nelle traversate dei grandi commerci fra il Tirreno e l’Adriatico, sempre a Te ricorse il pensiero, ora quieto ora crucciato ma sempre grato, di ogni scillese; proprio dalla rotta di Venezia ci giunsero le reliquie e gli ornamenti che rendono ancor più speciale il nostro culto e più preziosa la Tua dimora terrena.

Quando la peste incrudeliva Reggio e Messina, Tu fosti il nostro Scudo e da allora non si contano i benefici ottenuti mediante la Tua intercessione!

Aiutaci, o Santo Patrono, a continuare a meritare la Tua amicizia per non allontanarci da quell’imitazione dell’Amore e della paziente sopportazione della Croce che ebbe in Te esemplare profeta.

Accetta le nostre preghiere e il rinnovarsi delle nostre tradizioni come un inno di lode a Dio e manifestazione della nostra gioia di esserGli fedeli.

Ottienici da Dio misericordioso il sincero rimorso e il perdono per tutte le nostre mancanze verso di Lui e verso i nostri fratelli più deboli e indifesi.

Ottienici forza al servizio del bene, gioia al servizio dell’unità, Amore in tutto. Per Cristo nostro Signore. 

Amen»

N.B.: il testo della Preghiera degli scillesi a San Rocco è tratto da <https://www.facebook.com/watch/?v=3413404562137905> 

15 agosto 2024

“NON MUOIO NEANCHE SE MI AMMAZZANO” – I DIVERSI GRADI DELLA LIBERTÀ


“Non muoio neanche se mi ammazzano” è frutto della scrupolosa ricerca condotta da Letizia Cuzzola su una delle vicende meno note della Seconda Guerra Mondiale, quella degli IMI –gli Internati Militari Italiani.

Furono definiti così dai tedeschi quei soldati che, dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, vennero catturati, rastrellati e deportati nei territori della Germania. Traditi dall'inadeguatezza dello Stato monarchico italiano che fino a quel momento avevano servito, da quel momento, non furono più uomini.

Erano dovuti passare ben dieci anni, prima che il mondo scoprisse il vero volto di Hitler, colui che il 20/7/1933, dopo soli quattro mesi dalle elezioni che lo portarono ad appropriarsi del potere assoluto, fece firmare per suo conto il Concordato tra la Santa Sede e il Reich germanico. A sottoscriverlo per il Vaticano fu il Cardinale Eugenio Pacelli –poi eletto Papa nel 1939 con il nome di Pio XII- e per la parte tedesca Franz Von Papen (un nome, un destino!?). Nel testo dell’accordo, che è riportato in appendice al libro, mi ha colpito l’art. 32,nel quale è scritto testualmente:

«A causa delle attuali particolari circostanze della Germania…»

Beh, mi è parso un modo diplomaticamente fin troppo elegante per dire: lo sappiamo che Hitler è un buono a nulla che farà solo danni, ma è meglio mettersi d’accordo lo stesso.

Torno al tema centrale del libro, i soldati italiani prigionieri dei tedeschi. Subirono anche loro le deportazioni nei carri-bestiame, sopravvissero nei campi di prigionia, si videro considerati come semplici Stücke, ovvero pezzi di una catena di montaggio. Vennero, infatti, utilizzati nelle fabbriche tedesche che rifornivano l’industria bellica germanica.

Fu un perverso meccanismo di disumanizzazione, nel quale quei soldati furono per prima cosa privati dei loro nomi, sostituiti da numeri, il loro codice a barre, come –nota l’autrice- «se fossero i nostri nomi l’ingombro.»

Durante la prigionia, tanti sono gli episodi narrati nei quali la disumanizzazione prende forma. Ne riporto un passaggio che fa comprendere tutto l’orrore di quella condizione:

«Accadde un giorno che in baracca alcuni degli altri internati si mettessero a urlare festanti che stava passando il carro del pane, addirittura un carro pieno; in realtà erano cadaveri accatastati dei poveri russi decimati come mosche. Chiedemmo ai compagni come fosse venuto loro in mente di ridere e scherzare sulla morte e sul pane, ci risposero che quelle ormai non erano più bocche da sfamare e che le loro razioni, forse, si sarebbero aggiunte alle nostre.»

In questo perverso ed orrorifico meccanismo, tuttavia, si intravede sempre la luce che spinge i nostri soldati prigionieri a sperare, sognare, intravedere e, infine, godere della libertà, il bene più prezioso.

E basta quella luce, seppur offuscata anche dalla lontananza dalle famiglie, dal dolore di sapere che non conosceranno mai i loro figli –nati e morti durante la guerra, con i padri al fronte, prigionieri- a farli sentire pur sempre uomini.

Respirava attimi di libertà il soldato compagno di prigionia del nonno dell’autrice, ogni volta che annotava su un libretto con un mozzicone di matita le brevi note di giornata che, a distanza di sette decenni sono state il diario che ha aiutato a ricomporre il puzzle di queste vicende sconosciute ai più. La scrittura è esercizio di libertà.

Quei prigionieri respiravano libertà ogni qualvolta scrivevano il loro NO! sul foglio con il quale i tedeschi cercavano di arruolarli in quello che avrebbe dovuto essere il nuovo esercito che Mussolini voleva ricostituire. Era un NO! «..Sufficientemente grande da sfregiarlo e renderlo inservibile….bastava quel rifiuto a concederci un respiro.»

Si sentirono uomini liberi nei rapporti con il loro datore di lavoro che, nonostante le finalità belliche della produzione- cercò di instaurare relazioni umane che fossero il più vicino possibile alla normalità.

Respirarono e gustarono di nuovo il sapore della libertà, quando dopo essere stati liberati dalla prigionia, assaggiarono per la prima volta le gomme da masticare americane, offerte loro dai liberatori. Così «…la libertà aveva il sapore della menta.»

Riacquistarono la libertà, ritrovando in quella terra così lontana dalla loro Patria, dalle loro famiglie, uomini con le stesse loro radici:

«Ogni soldato americano che incontravamo apriva il suo zaino e ci regalava qualcosa…la maggior parte di loro aveva origini italiane, erano figli e nipoti di emigrati soprattutto dalla Calabria e dalla Sicilia…lontani da casa avevano la possibilità di poter dire qualche parola nella lingua dei loro padri e dei nonni, erano ancora più soddisfatti di aver liberato una parte del loro sangue.»

La ritrovata umanità dopo l’incontro con quei soldati, diede poi ai prigionieri la forza di tornare a casa, solo dopo, però, aver dovuto affrontare un altro lungo viaggio.

Ecco, la lettura di questo libro lascia la consapevolezza che ogni essere umano che opera con l’intento di sopraffare gli altri per mezzo del male anche più tremendo e disumano, non potrà mai soffocare del tutto il desiderio di libertà di chi quel male subisce.

Ci insegna e ci ricorda di apprezzare sempre quello che abbiamo, per quanto poco ci possa sembrare.

Ci conferma il dovere dell'ammirazione totale per una generazione, quella dei nostri nonni, per la forza che hanno avuto nel rialzarsi dopo essere caduti vittime di sopraffazioni, tradimenti e lutti provocati da un regime infausto. Sono da ringraziare per la capacità che hanno avuto di sopportare, di portarsi tutto dentro, raccontando poco o nulla degli orrori che avevano vissuto. Oggi sappiamo che ciascuno di coloro che ha combattuto, che è stato prigioniero, ha certamente sofferto di quella che i medici chiamano PTSD - Disturbo da stress post-traumatico. Ebbene, sono stati talmente forti e senza l'aiuto di nessun medico, da non farci accorgere di niente e farci vivere tempi di libertà e felicità come mai si erano visti prima nella storia d'Europa.

Il dolore, patito sotto diverse forme, lo hanno saputo avvolgere nella loro dignità ritrovata, lo hanno serbato nelle loro menti, dietro il loro sguardo profondo, severo ma buono, che vediamo ancora oggi nei loro ritratti –come quello che fa da copertina al libro- che teniamo in casa, in segno di affettuoso perenne ricordo e riconoscenza.