15 agosto 2024

“NON MUOIO NEANCHE SE MI AMMAZZANO” – I DIVERSI GRADI DELLA LIBERTÀ


“Non muoio neanche se mi ammazzano” è frutto della scrupolosa ricerca condotta da Letizia Cuzzola su una delle vicende meno note della Seconda Guerra Mondiale, quella degli IMI –gli Internati Militari Italiani.

Furono definiti così dai tedeschi quei soldati che, dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, vennero catturati, rastrellati e deportati nei territori della Germania. Traditi dall'inadeguatezza dello Stato monarchico italiano che fino a quel momento avevano servito, da quel momento, non furono più uomini.

Erano dovuti passare ben dieci anni, prima che il mondo scoprisse il vero volto di Hitler, colui che il 20/7/1933, dopo soli quattro mesi dalle elezioni che lo portarono ad appropriarsi del potere assoluto, fece firmare per suo conto il Concordato tra la Santa Sede e il Reich germanico. A sottoscriverlo per il Vaticano fu il Cardinale Eugenio Pacelli –poi eletto Papa nel 1939 con il nome di Pio XII- e per la parte tedesca Franz Von Papen (un nome, un destino!?). Nel testo dell’accordo, che è riportato in appendice al libro, mi ha colpito l’art. 32,nel quale è scritto testualmente:

«A causa delle attuali particolari circostanze della Germania…»

Beh, mi è parso un modo diplomaticamente fin troppo elegante per dire: lo sappiamo che Hitler è un buono a nulla che farà solo danni, ma è meglio mettersi d’accordo lo stesso.

Torno al tema centrale del libro, i soldati italiani prigionieri dei tedeschi. Subirono anche loro le deportazioni nei carri-bestiame, sopravvissero nei campi di prigionia, si videro considerati come semplici Stücke, ovvero pezzi di una catena di montaggio. Vennero, infatti, utilizzati nelle fabbriche tedesche che rifornivano l’industria bellica germanica.

Fu un perverso meccanismo di disumanizzazione, nel quale quei soldati furono per prima cosa privati dei loro nomi, sostituiti da numeri, il loro codice a barre, come –nota l’autrice- «se fossero i nostri nomi l’ingombro.»

Durante la prigionia, tanti sono gli episodi narrati nei quali la disumanizzazione prende forma. Ne riporto un passaggio che fa comprendere tutto l’orrore di quella condizione:

«Accadde un giorno che in baracca alcuni degli altri internati si mettessero a urlare festanti che stava passando il carro del pane, addirittura un carro pieno; in realtà erano cadaveri accatastati dei poveri russi decimati come mosche. Chiedemmo ai compagni come fosse venuto loro in mente di ridere e scherzare sulla morte e sul pane, ci risposero che quelle ormai non erano più bocche da sfamare e che le loro razioni, forse, si sarebbero aggiunte alle nostre.»

In questo perverso ed orrorifico meccanismo, tuttavia, si intravede sempre la luce che spinge i nostri soldati prigionieri a sperare, sognare, intravedere e, infine, godere della libertà, il bene più prezioso.

E basta quella luce, seppur offuscata anche dalla lontananza dalle famiglie, dal dolore di sapere che non conosceranno mai i loro figli –nati e morti durante la guerra, con i padri al fronte, prigionieri- a farli sentire pur sempre uomini.

Respirava attimi di libertà il soldato compagno di prigionia del nonno dell’autrice, ogni volta che annotava su un libretto con un mozzicone di matita le brevi note di giornata che, a distanza di sette decenni sono state il diario che ha aiutato a ricomporre il puzzle di queste vicende sconosciute ai più. La scrittura è esercizio di libertà.

Quei prigionieri respiravano libertà ogni qualvolta scrivevano il loro NO! sul foglio con il quale i tedeschi cercavano di arruolarli in quello che avrebbe dovuto essere il nuovo esercito che Mussolini voleva ricostituire. Era un NO! «..Sufficientemente grande da sfregiarlo e renderlo inservibile….bastava quel rifiuto a concederci un respiro.»

Si sentirono uomini liberi nei rapporti con il loro datore di lavoro che, nonostante le finalità belliche della produzione- cercò di instaurare relazioni umane che fossero il più vicino possibile alla normalità.

Respirarono e gustarono di nuovo il sapore della libertà, quando dopo essere stati liberati dalla prigionia, assaggiarono per la prima volta le gomme da masticare americane, offerte loro dai liberatori. Così «…la libertà aveva il sapore della menta.»

Riacquistarono la libertà, ritrovando in quella terra così lontana dalla loro Patria, dalle loro famiglie, uomini con le stesse loro radici:

«Ogni soldato americano che incontravamo apriva il suo zaino e ci regalava qualcosa…la maggior parte di loro aveva origini italiane, erano figli e nipoti di emigrati soprattutto dalla Calabria e dalla Sicilia…lontani da casa avevano la possibilità di poter dire qualche parola nella lingua dei loro padri e dei nonni, erano ancora più soddisfatti di aver liberato una parte del loro sangue.»

La ritrovata umanità dopo l’incontro con quei soldati, diede poi ai prigionieri la forza di tornare a casa, solo dopo, però, aver dovuto affrontare un altro lungo viaggio.

Ecco, la lettura di questo libro lascia la consapevolezza che ogni essere umano che opera con l’intento di sopraffare gli altri per mezzo del male anche più tremendo e disumano, non potrà mai soffocare del tutto il desiderio di libertà di chi quel male subisce.

Ci insegna e ci ricorda di apprezzare sempre quello che abbiamo, per quanto poco ci possa sembrare.

Ci conferma il dovere dell'ammirazione totale per una generazione, quella dei nostri nonni, per la forza che hanno avuto nel rialzarsi dopo essere caduti vittime di sopraffazioni, tradimenti e lutti provocati da un regime infausto. Sono da ringraziare per la capacità che hanno avuto di sopportare, di portarsi tutto dentro, raccontando poco o nulla degli orrori che avevano vissuto. Oggi sappiamo che ciascuno di coloro che ha combattuto, che è stato prigioniero, ha certamente sofferto di quella che i medici chiamano PTSD - Disturbo da stress post-traumatico. Ebbene, sono stati talmente forti e senza l'aiuto di nessun medico, da non farci accorgere di niente e farci vivere tempi di libertà e felicità come mai si erano visti prima nella storia d'Europa.

Il dolore, patito sotto diverse forme, lo hanno saputo avvolgere nella loro dignità ritrovata, lo hanno serbato nelle loro menti, dietro il loro sguardo profondo, severo ma buono, che vediamo ancora oggi nei loro ritratti –come quello che fa da copertina al libro- che teniamo in casa, in segno di affettuoso perenne ricordo e riconoscenza. 

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