«Nell’etica tragica, la hýbris è ciò che spinge gli uomini a varcare i confini assegnati alla natura umana e a credersi di più di quello che sono, mettendosi così in implicita (o anche esplicita: si pensi ad Aiace nell’Aiace sofocleo) competizione con gli dèi. La troppa fortuna, la troppa ricchezza, la troppa felicità, ogni tipo di eccesso, creano nell’uomo orgoglio e presunzione, rendendo quasi inevitabile la sua caduta nella colpa.
La
hýbris dei potenti si abbatte, per ovvie ragioni, sui deboli, che sono, nella
tragedia, i depositari del piano morale.
Gli
dèi hanno cari i deboli. Non sempre li salvano (anzi), ma infallibilmente li
vendicano, punendo il loro persecutore o la sua discendenza.
Quando
gli dèi puniscono, lo fanno in modo a un tempo crudele e beffardo, confondendo
i colpevoli, inducendoli in errore, spingendoli a scambiare uno strumento di
rovina per una via di salvezza.
La
sofferenza dell’innocente ci ricorda che l’infelicità è semplicemente connessa
con il vivere, non deve per forza avere un motivo.
Nella
tragedia non esistono cause tanto giuste da non avere in sé una parte di
ostinazione e di eccesso (cioè di hýbris!), né cause tanto sbagliate da non
contenere una sia pur piccola e lontana giustificazione.
La tragedia dunque non ama il cento-per-cento. Nasce per far discutere. È intimamente divisiva. La divisività è anzi, si può dire, il suo codice, la sua marca di genere…»
- tratto da
"La tragedia greca", di Walter Papino per "Le lezioni del
Corriere" - Corriere della Sera.
Questa breve descrizione della tragedia greca, riletta in chiave dell’ennesimo round del conflitto israelo-palestinese che si sta svolgendo sotto i nostri occhi inermi, dimostra ampiamente quanto -nonostante le fasi evolutive del pensiero- la natura umana sia rimasta intatta da millenni.
La
loro hýbris da superpotenti si abbatte con una violenza mai vista sui deboli
arabi palestinesi, incapaci di affrancarsi dal terrorismo poiché soggiogati da
decenni di prepotenze, soprusi e metodi che hanno poco a che fare con la democrazia
e molto più a che fare con il terrorismo e l’apartheid, posti in atto dagli
israeliani.
Gli
dèi hanno cari i deboli, anche se è difficile crederlo vedendo ciò che sta accadendo.
Non sempre li salvano -infatti solo in quest’ultima “guerra” sono morti decine
di migliaia di palestinesi. Ma gli dei, in questo caso Dio, trattandosi di
popoli monoteisti (che si chiami Jahvè, Allah, poco importa), vendicherà i
palestinesi, punendo il loro persecutore, l’attuale governo israeliano- o la
sua discendenza -chi verrà dopo Netanyahu.
Li
punirà in modo crudele e beffardo, confondendo gli israeliani, inducendoli in
errore, spingendoli a scambiare uno strumento di rovina -ovvero la distruzione
dei palestinesi, identificati solo come un unico, grande, gruppo terroristico,
per una via di salvezza -la loro- ovvero la costruzione del Grande Israele. Questa,
che è ritenuta la loro unica salvezza dal male del terrorismo arabo-palestinese,
si rivelerà la loro condanna definitiva. In parte, la condanna è già iniziata:
il governo israeliano, che continua a negare ciò che è oggettivamente
innegabile, non ha più alcuna credibilità agli occhi del mondo. Potranno avere
la meglio, sradicare il popolo palestinese dalla terra che porta il loro nome
da secoli, così come stanno facendo per le piante di ulivo, ma alla fine
lasceranno attorno a loro il deserto, non solo fisico ma politico. E in questo
loro deserto, la società israeliana si interrogherà circa la loro “caduta nella
colpa”, e rischia di implodere, di rimanere dilaniata al suo interno.
E’
vero, «la tragedia nasce per far discutere. È intimamente divisiva»
Questa divisione in chi discute del conflitto israelo-palestinese dura da quasi ottant’anni. Finirà soltanto
quando si vorrà scoprire e/o ammettere chi, tra i protagonisti di questa tragica narrazione,
ha detto la verità e chi, invece, ha bleffato.
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